01 Introduzione - Regione Piemonte

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Il restauro ambientale è un'attività che intenzionalmente avvia o accelera il ... La S.E.R. definisce quindi come restauro ecologico il processo di assistenza al ...
2. INTRODUZIONE 2.1 – GLI INTERVENTI DI RIPRISTINO AMBIENTALE DI AREE DEGRADATE Definizione di restauro ambientale Il restauro ambientale è un’attività che intenzionalmente avvia o accelera il recupero di un ecosistema rispetto alle sue condizioni di salute, integrità e sostenibilità. L’ecosistema che richiede un restauro, spesso, è stato degradato, danneggiato, trasformato o completamente distrutto a causa degli effetti diretti o indiretti di attività umane. Talvolta, gli impatti sugli ecosistemi sono causati o aggravati da agenti naturali come gli incendi, le inondazioni, le tempeste, i dissesti o le eruzioni vulcaniche, fino al punto in cui essi non possono tornare allo stato precedente il disturbo o alla propria traiettoria storica di sviluppo (historic trajectory). A tal proposito la S.E.R. (Society of Ecological Restoration) definisce la traiettoria storica di sviluppo come il percorso costituito dai successivi stadi evolutivi di un ecosistema. Il restauro tenta di riportare un ecosistema alla propria traiettoria storica di sviluppo. La conoscenza delle condizioni storiche è quindi il punto di partenza necessario per la progettazione del restauro. La S.E.R. definisce quindi come restauro ecologico il processo di assistenza al ristabilimento di un eocosistema che è stato degradato, danneggiato o distrutto. Un ecosistema si è ristabilito - ed è quindi restaurato - quando contiene sufficienti risorse biologiche e abiotiche per procedere nel proprio sviluppo senza un’ulteriore assistenza. L’ecosistema è capace di sostenersi dal punto di vista strutturale e funzionale, esso mostra una capacità di resilienza rispetto a una normale gamma di pressioni e di disturbi ambientali e in esso c’è un’interazione con gli ecosistemi contigui, in termini di flussi biologici e abiotici e di scambi culturali. Un ecosistema è composto da due principali caratteristiche: struttura e funzione e ognuna di queste è composta da diversi elementi. Un ecosistema intatto deve presentare alti valori di entrambe le caratteristiche. Il degrado porta alla diminuzione di valore di una o entrambe. Se l’ambiente degradato viene ripristinato i processi naturali della successione primaria vengono riportati alla loro situazione iniziale (Bradshaw, 2002). È necessario capire bene il significato dei termini che spesso vengono generalmente utilizzati per definire l’attività di ripristino in materia di Ecological Restoration (restauro ecologico). Secondo il manuale del restauro ecologico (Perrow, Davy, 2002) i termini utilizzati in questo campo sono: restoration (restauro), rehabilitation (reinserimento), remediation, reclamation (bonifica). Con il termine restoration (restauro) si intende il ritorno di un ecosistema alla situazione più simile possibile a quella antecedente il disturbo. Il danno alle strutture viene quindi riparato e sia le strutture che le funzioni sono ricreate. L’obiettivo è quello di emulare un sistema naturale autoregolato e integrato nel paesaggio (National Research Council, 1992). Il termine rehabilitation (reinserimento) si riferisce all’azione di riportare qualcosa ad una condizione o stato precedente, ciò è simile al significato di restauro ma non implica necessariamente una perfezione, non ci si aspetta il ritorno allo stato originale ma un ritorno ad una condizione di buona salute. Il termine bonifica può essere tradotto con remediation, ovvero l’atto di migliorare un ecosistema, rendere appropriato, pondendo l’enfasi sul processo. Il termine reclamation invece si riferisce soprattutto alle coltivazioni, significa rendere nuovamente utile alla coltivazione un determinato territorio. Per capire meglio il significato di questi termini si può riflettere sulla figura 2.1, questa rappresentazione mostra come, in caso di degrado, entrambe le caratteristiche di un ecosistema diminuiscono, ma non sempre in egual modo. Restaurare significa quindi riportare un ecosistema al suo stato originale o precedente, in termini di struttura e funzione. Le altre alternative disponibili sono rappresentate dal reinserimento 3

(in cui il processo non si realizza totalmente), dalla bonifica (l’ecosistema è stato migliorato me viene trasformato rispetto alle sue originali caratteristiche) (Bradshaw, 2002). In generale, il termine restoration è utilizzato come un termine ombrello che descrive tutte le attività che tentano di riparare un danno o ricreare ambienti che sono stati distrutti e riportarli ad uno stato in cui il potenziale ecologico è ripristinato. In questa pratica si cerca di ragionare sui processi fondamentali di funzionamento degli ecosistemi (Bradshaw, 2002).

Fig. 2.1. Diverse tipologie di miglioramento in seguito a degradato, espresse in base a struttura e funzione di un ecosistema (Bradshaw, 2002, modificato).

Con il termine degradation (degrado, degradazione) ci si riferisce a cambiamenti sottili o graduali nel tempo che riducono l’integrità ecosistemica e la salute ecologica (S.E.R., 2002). I processi di degradazione inizialmente sono evidenti attraverso cambiamenti delle strutture biotiche (ad esempio l’abbondanza di specie), poi l’ecosistema supera una soglia in seguito ad un disturbo che porta al cambiamento delle strutture abiotiche (ad esempio la struttura del suolo), infine, con il superamento della seconda soglia diventa evidente il cambiamento del regime funzionale dell’ecosistema (ad esempio i regimi di disturbo) e la perdita di risorse (Le Maitre et al., 2011). Dalla figura 2.2 riconosciamo tre fasi separate dalle soglie segnate da disturbi o altri fattori: la fase iniziale, in cui il sistema è in grado di recuperare autonomamente; Il disturbo post-recupero, in cui la comunità è cambiata e il ripristino richiede la manipolazione biotica;le invasioni prolungate, a volte in seguito ulteriori disordini, dove il processo ecologico è collassato e richiede manipolazioni abiotiche per il ripristino (King e Hobbs, 2006, Gaertner et al., 2012).

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Fig. 2.2. Modello concettuale di degrado degli ecosistemi con soglie (barre verticali) in chiave di processi ecosistemici, che determinano le risposte del sistema alle pressioni conseguenti a degradazione (adattato da King e Hobbs, 2006, Gaertner et al., 2012).

Per verificare se un restauro è compiuto, secondo la S.E.R. (2002), si devono riscontrare almeno alcune delle seguenti nove caratteristiche: 1. L'ecosistema restaurato contiene una combinazione caratteristica delle specie presenti nell'ecosistema di riferimento e ciò fornisce un’adeguata struttura della cenosi. L’ecosistema di riferimento serve da modello per la pianificazione del progetto di restauro e, successivamente, per la sua valutazione. La forma più semplice di un riferimento è costituita da un luogo attuale, dalla sua descrizione scritta, o da entrambe. Il riferimento semplice, però, rappresenta un solo stato o una sola manifestazione delle caratteristiche dell’ecosistema e quindi, potrebbe essere l’espressione di una delle tante possibili situazioni, nell’arco di variabilità di sviluppo storico di quell'ecosistema, mostrandone una combinazione particolare di eventi casuali. Pertanto sarebbe meglio basare un riferimento sulla combinazione di più siti e, se necessario, su altre fonti (descrizioni ecologiche, elenchi floristici, foto aeree e storiche, descrizioni ecologiche di siti intatti simili, resoconti storici, testimonianze, ecc.). 2. L'ecosistema restaurato è formato dalla maggior quantità possibile di specie indigene. Negli ecosistemi colturali restaurati, può essere consentita la presenza di specie esotiche domestiche e di specie ruderali e segetali non invasive, che presumibilmente si sono coevolute con esse (sono definite ruderali le piante che colonizzano i siti disturbati, mentre sono segetali quelle che si sviluppano tipicamente frammiste alle specie colturali). 3. Sono presenti tutte le specie dei gruppi funzionali necessari per la prosecuzione dello sviluppo e/o per la stabilità dell'ecosistema restaurato oppure, se non sono presenti, ne è possibile una ricolonizzazione naturale. 4. L'ambiente fisico dell'ecosistema restaurato è capace di sostenere la riproduzione di popolazioni delle specie necessarie alla sua stabilità. 5. L'ecosistema restaurato mostra segni di funzionamento normali per la fase di sviluppo ecologico in cui si trova. 5

6. L'ecosistema restaurato è integrato adeguatamente in una matrice ecologica o in un paesaggio più esteso, con cui interagisce attraverso flussi e scambi biologici e abiotici. 7. Le possibili minacce alla salute e all'integrità dell'ecosistema restaurato provenienti dal paesaggio circostante sono state eliminate o ridotte. 8. L'ecosistema restaurato è sufficientemente resiliente per superare i normali casi periodici e localizzati di pressione ambientale (peraltro necessari per mantenerne l'integrità funzionale). 9. L'ecosistema restaurato si automantiene, al pari del corrispondente ecosistema di riferimento, ed è capace di durare indefinitamente nelle condizioni ambientali in cui si trova. La composizione specifica e le altre caratteristiche sono libere di evolvere col mutare delle condizioni ambientali. Gli obiettivi del restauro ambientale sono quindi: 

 

Rendere disponibili per lo sviluppo sociale, in modo sostenibile, determinati beni e servizi naturali. A tal fine, i beni e servizi corrispondono agli interessi maturati dal capitale naturale costituito dall'ecosistema restaurato. Fornire l’habitat necessario per specie rare o per dare rifugio a un pool genetico diversificato per determinate specie. Fornire elementi di fruizione estetica o quello di rendere possibili attività di rilevanza sociale, come il rafforzamento del senso di appartenenza a una comunità, che si ottiene facendo partecipare a un progetto di restauro alcuni componenti della comunità locale.

È importante pianificare a priori un qualsiasi progetto di restauro comprendendo i seguenti punti: -

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motivazione del restauro; descrizione ecologica del sito oggetto di restauro; definizione degli obiettivi del progetto di restauro; individuazione e descrizione dell’ecosistema di riferimento; spiegazione di come il restauro proposto s’integrerà nel paesaggio e previsione dei flussi di organismi e materiali; piani, programmi e budget precisi per le attività di preparazione del sito, per quelle di avvio delle operazioni e per quelle successive, includendo una strategia per effettuare prontamente correzioni in corso d’opera; standard prestazionali ben disegnati, esplicitamente dichiarati, con protocolli di monitoraggio con i quali valutare il progetto; strategie per la protezione e il mantenimento a lungo termine dell'ecosistema restaurato.

Dove possibile, nel sito d’intervento dovrebbe essere lasciata almeno un’area di controllo non trattata, per confrontarla con l'ecosistema restaurato (S.E.R., 2002). Tuttavia il punto di partenza del restauro di comunità vegetali deve essere il ripristino del suolo e dell’ambiente fisico appropriati per tale comunità o per gli stadi preliminari della sua stessa successione ecologica (Davy, 2002). Le aree degradate possono essere di varia tipologia e origine, tra queste emergono le aree interessate da dissessto idrogeologico, versanti con perdita delle condizioni di stabilità e degradazione indotta dall’attività umana. 6

2.2 – I DISSESTI DI VERSANTE I fenomeni di dissesto geologico-idraulico sui versanti si generano per una perdita delle condizioni di stabilità da parte dei terreni e delle rocce e sono strettamente correlati con i fenomeni che determinano il dissesto idraulico, in quanto possono avere ripercussioni sui corsi d’acqua e sul bacino idrografico o viceversa:  in corrispondenza a elevate portate dei corsi d’acqua è probabile che si verifichino fenomeni erosivi sul fondovalle e sulle sponde, tali fenomeni possono aumentare l’instabilità geomorfologica sui versanti interessati.  In seguito alla saturazione del suolo, causata da intensi o prolungati periodi piovosi, è normalmente riscontrata una correlazione con l’innesco di fenomeni franosi (ad esempio fenomeni di colamenti rapidi).  In seguito a fenomeni di denudamento dei versanti corrispondono in genere eventi catastrofici di dinamica fluviale. Nelle ondate di piena straordinaria il trasporto solido è alimentato anche dal materiale franato dalle sponde dei versanti. Il materiale detritico e vegetale presente in alveo può rappresentare un ostacolo al normale deflusso dell’acqua e causare quindi problemi come esondazioni e cedimenti improvvisi delle sponde. Le azioni che creano disequilibri sui versanti e che possono causare i fenomeni di dissesto idrogeologico sono originate da molteplici fattori, in sintesi si possono ricondurre a: - aumento delle tensioni tangenziali a causa di modifiche della geometria del pendio (erosione al piede, scavi, costruzioni), eventi sismici e vibrazioni artificiali; - diminuzione della resistenza di taglio (causata da pressioni interne, aumento del peso specifico, aumento del carico, aumento dell’acclività, sollecitazioni dinamiche, diminuzione dell’angolo di attrito e diminuzione della coesione). I fattori che favoriscono, condizionano o determinano i dissesti si distinguono in fattori predisponenti, che agiscono in modo costante nel tempo, e fattori innescanti, che invece producono un impulso esterno, in tempi brevi determinando l’alterazione dell’equilibrio. I fattori predisponenti sono connessi ad aspetti litologici, geologici, orografici, morfometrici, geomorfologici, climatici, idrologici, strutturali, vegetazionali, ad attività antropiche e all’uso del suolo. I fattori innescanti di origine naturale, in letteratura scientifica, sono rappresentati da intensi eventi meteorici, fenomeni di erosione accelerata, scioglimento delle nevi, scalzamento al piede del versante ad opera di correnti idriche o moto ondoso, terremoti e innalzamento delle falde. Le condizioni meteoclimatiche, in particolare il susseguirsi di lunghi periodi siccitosi ed eventi meteorici particolarmente intensi e concentrati, rappresentano quindi uno dei principali fattori predisponenti/innescanti dei fenomeni di dissesto. Anche le attività antropiche possono agire sia come cause predisponenti che come cause innescanti e rappresentano, talvolta, le cause principali dell’instabilità dei versanti. Condizioni di stabilità Le condizioni di stabilità di un pendio dipendono da tre fattori principali:  l’inclinazione del pendio,  la coesione del materiale,  l’attrito. Nei terreni non coerenti la coesione è uguale a zero, per cui il pendio è stabile quando la sua inclinazione è uguale o inferiore all'angolo di attrito naturale φ (o angolo di attrito interno). Tale 7

angolo varia da 45° a 35°, a seconda della tipologia di materiale asciutto coinvolto. Quando invece il materiale è bagnato, le pressioni interstiziali riducono il carico sui granuli, e quindi l’attrito (per sabbia finissima bagnata, ad esempio l’angolo di attrito può ridursi a 15°). Nei terreni coerenti entra in gioco anche la coesione, la quale assieme con l’attrito, si oppone al franamento. La coesione può variare entro valori molto diversi. E’ zero, come già detto, per i materiali incoerenti (ciottoli, ghiaie, sabbie, ecc.), è invece fortissima nelle rocce coerenti (rocce lapidee, non fessurate, che quindi sono raramente franose), ha valori intermedi per le rocce semicoerenti (conglomerati, arenarie, tufi, rocce alterate o molto fessurate), mentre per le rocce pseudocoerenti (argille, limi) il valore della coesione dipende dal contenuto d'acqua. Per le argille, ad esempio la coesione può variare da 0,12 kg/cm2 per le argille molli, bagnate, a 2 kg/cm2 e anche più per le argille dure e secche. Si consideri un ipotetico strato di terreno di spessore e di peso specifico noti, costituente una massa poggiante su un possibile versante avente un angolo di inclinazione sull’orizzontale ψ (fig. 2.3)

Fig. 2.3. massa di terreno di peso specifico γt e spessore h poggiante su un piano inclinato dell’angolo ψ.

Si può osservare il vettore che rappresenta il peso proprio del blocco posto lungo la direzione verticale, questo viene scomposto nelle due componenti rispettivamente parallela e perpendicolare al piano di scivolamento. Mentre la componente perpendicolare (forze resistenti) aiuta la stabilità del blocco di roccia aumentando la forza di attrito tra la superficie del blocco e quella dell’ammasso roccioso, la componente tangenziale (forza agente) induce il movimento di scivolamento del blocco ed è pertanto da considerare come un contributo instabilizzante. Prendendo in considerazione il prisma di base unitaria rappresentato nella figura 2.3, si possono dimostrare i seguenti punti: - l’altezza del prisma considerato è pari a - Il volume V è dato dal prodotto dell’altezza per l’area di base del prisma: , quindi - La densità γt è calcolata con il rapporto tra peso P e volume V.

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-

Il peso P è dato da γt * V quindi γt * ed è il vettore verticale che si scompone in forza agente e forza resistente:  Forza agente (tangenziale):  Forza resistente (perpendicolare): Prendendo atto di queste dimostrazioni, la condizione limite di equilibrio del prisma è data dall’uguaglianza tra le forze agenti (primo termine dell’equazione) e la forza resistente per il coefficiente di attrito f e la coesione del terreno c:

Se il primo termine dell’equazione (forze agenti) è maggiore della somma degli altri due (forze resistenti), è probabile che la massa sia soggetta a qualche movimento franoso, in caso contrario è stabile. Il fattore di sicurezza Fs è dato quindi dal rapporto tra forze resistenti e forze agenti e per essere soddisfatto deve superare il valore 1,3.

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2.3 – FRANE: GENERALITÀ E CLASSIFICAZIONE Dissesti dovuti alla gravità Le frane sono dei movimenti di massa coinvolgenti rocce, detriti o terre, attraverso i quali si manifesta la loro tendenza al raggiungimento di un minimo di energia potenziale, comprendono quindi quei movimenti di strati sia profondi, sia superficiali, di terreno, che si risolvono con una discesa più o meno veloce di masse talvolta modeste, altre volte anche enormi, del terreno stesso. I materiali che franano lasciano una cicatrice aperta sul versante (nicchia di distacco) e si arrestano dove l’inclinazione del pendio diminuisce. Essi possono giungere al fondovalle, dando luogo ad accumuli caotici di detriti e blocchi spigolosi di varie dimensioni, con una superficie irregolare a dossi e conche (accumulo di frana). La classificazione delle frane presenta la difficoltà di inquadrare, in uno schema rigido e limitato, condizioni estremamente variabili nella loro origine e nelle loro manifestazioni. Ogni frana ha caratteristiche genetiche e morfologiche particolari. Sono quindi diversi e molto numerosi i criteri di classificazione proposti. Il sistema più adottato è quello proposto da Varnes (1978). Questa classificazione è basata essenzialmente su due parametri: tipologia del movimento di massa e tipologia del materiale coinvolto. Il primo parametro indica il movimento principale che caratterizza la frana (rotazione, scivolamento, scorrimento, colata, ecc.) mentre il secondo si riferisce a una differenziazione tra terreno sciolto e rocce. Con il termine terreno sciolto, si indica un materiale formato da aggregati di granuli non legati tra loro o che possono essere separati per mezzo di modeste sollecitazioni o per il contatto con l’acqua, si tratta essenzialmente di sabbie, limi e ghiaie. Questa tipologia viene ulteriormente suddivisa in detrito se prevalentemente grossolano (se cioè dal 20% all'80% dei granuli hanno dimensioni > 2 mm) ed in terra se prevalentemente fine (se cioè almeno l'80% delle particelle ha dimensioni < 2 mm). Il termine roccia indica invece un materiale naturale, dotato di elevata coesione anche dopo un prolungato contatto con l’acqua. E’ però necessario, nel caso delle rocce, fare anche riferimento al termine ammasso roccioso che si riferisce alla roccia in sede, considerata assieme alle discontinuità strutturali proprie delle condizioni naturali. Successivamente viene presentata la classificazione dei fenomeni franosi dovuti alla gravità così come suggerita da Varnes (1978), si distinguono i tipi di frana a seconda del movimento principale che le caratterizza, basandosi sulla differenziazione tra terre e rocce (Tab. 2.1). Tab. 2.1. Classificazione sintetica delle frane, modificata (Varnes, 1978).

TIPO DI MATERIALE TIPO DI MOVIMENTO

TERRENO SCIOLTO AMMASSO ROCCIOSO

DETRITO (prevalentemente grossolano)

TERRA (prevalentemente fine)

Crollo

Crollo di roccia

Crollo di detrito

Crollo di terra

Ribaltamento

Ribaltamento di roccia

Ribaltamento di detrito

Ribaltamento di terra

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Scorrimento

rotazionale traslativo

Espansione laterale Colamento

Scivolamento in blocchi Espansione laterale in roccia Colamento in ammassi rocciosi

Scivolamento di detrito

Scivolamenti di terra in blocco

Espansione laterale di detrito

Espansione laterale in terra

Debris flow

Colata di terra

Complessi: combinazione dipiù tipi di movimento

Crollo (fall) Il termine si riferisce al movimento in caduta libera di una massa (di dimensioni qualsiasi) che si stacca da un versante molto acclive, lungo una superficie su cui non avviene in pratica nessuno spostamento di taglio, e che successivamente si muove per caduta libera, rotolamento, rimbalzi. Il fenomeno è estremamente rapido. Il distacco avviene in corrispondenza di superfici di discontinuità molto inclinate, costituite da giunti, piani di faglia, fatturazioni e fessurazioni; ma talvolta il fenomeno può interessare anche superfici di neoformazione. Il deposito che ne consegue è costituito da un accumulo di materiale di varie dimensioni al piede del versante, ma alcuni frammenti, di dimensioni maggiori, possono percorrere anche notevoli distanze, in funzione della geometria e della lunghezza del versante e degli ostacoli su esso presenti (copertura vegetale), oltre che delle caratteristiche fisico-geometriche delle masse in movimento. Se le condizioni morfologiche lo consentono, il materiale accumulato alla base del versante può essere coinvolto in movimenti gravitativi successivi (fig. 2.4).

Fig. 2.4. rappresentazione schematica di una frana di crollo in roccia (a sinistra) e in terreno (a destra).

Ribaltamento (topple) Il movimento consiste in una rotazione rigida frontale o in un’inflessione di una massa intorno ad un punto che funge da perno, è un fenomeno che avviene in presenza di alcune tipologie di discontinuità sub-verticali e sub-orizzontali. Il ribaltamento può coinvolgere qualsiasi tipologia di materiale: rocce detriti e terre, le velocità sono altrettanto variabili. Il fenomeno può evolvere o meno, a seconda delle caratteristiche geometriche e strutturali della massa coinvolta nel dissesto, in crolli o scivolamenti. Nonostante il diverso meccanismo di movimento, il tipo di accumulo che ne deriva è simile a quello delle frane per crollo (fig. 2.5).

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Fig. 2.5. Ribaltamento.

Scorrimento (slide) -

-

Rotazionale (rotational slide) Il movimento avviene attorno ad un punto o un asse esterno al versante e posto al di sopra del baricentro della massa spostata, la superficie di rottura presenta una forma arcuata con la concavità rivolta verso l’alto. I materiali coinvolti sono quasi sempre incoerenti, tra i quali terreni argillosi o limi. Affinché avvenga un fenomeno di questo tipo è necessario il verificarsi di condizioni di pioggia prolungata e sicuramente l’attivazione dipende anche dalla quantità di piogge pregresse. È possibile ipotizzare che le acque portate dalle piogge precedenti saturino il terreno: il loro contributo va quindi a sommarsi con quello delle precipitazioni di più elevata intensità che si generano a ridosso dell’evento (fig. 2.6 A). Traslativo o planare (traslational slide) Il movimento si sviluppa in prevalenza su una superficie più o meno piana, corrispondente talvolta a discontinuità strutturali (faglie, giunti, passaggi tra diversi strati litologici). La condizione principale per il verificarsi di tale fenomeno è l’orientazione a franapoggio di tali superfici di discontinuità. Questo movimento si può sviluppare in tutti i tipi di materiale, ma è tipico di successioni stratificate, soprattutto con alternanze di litotipi con diverso grado di coesione (fig. 2.6 B). In Piemonte questa tipologia di frana è concentrata nel territorio delle Langhe. È possibile notare come gli strati impermeabili di argilla in profondità, impediscano all’acqua di penetrare liberamente lungo gli strati di terreno. Proprio a causa della presenza di acqua nel terreno si può dedurre che la maggior parte degli scivolamenti si attiva in seguito ad abbondanti precipitazioni ed è inoltre possibile individuare degli elementi premonitori quali fessurazioni, rigonfiamenti, inclinazione degli alberi e dei pali, e perfino vere e proprie emergenze idriche. In generale si può affermare che l’innesco del fenomeno di scivolamento planare nelle terre è dato proprio dalla forte presenza di acqua in terreni a prevalente matrice sabbiosa e dalla presenza di superfici omogenee di materiali argillosi che funzionano da piano di scivolamento. La pressione esercitata dall’acqua e la presenza di minerali rigonfianti nelle argille (smectiti) provocano il movimento delle terre. L’interazione tra pioggia cumulata e il fenomeno di dissesto è dimostrabile: le piogge cadute in concomitanza con l’evento e quelle dei 60 giorni precedenti hanno pari importanza nella definizione delle condizioni di instabilità. Le piogge dei 60 giorni precedenti hanno la funzione di alimentare i livelli più profondi, mentre le piogge cadute durante l’evento decisivo influiscono sui terreni superficiali e lungo le discontinuità per fratturazione. Si può pertanto desumere la grande importanza del monitoraggio delle quantità di precipitazioni (Regione Piemonte, 2003). 12

Fig. 2.6. Scivolamento rotazionale (A) e scivolamento traslativo o planare (B).

Colamento (flow) -

-

-

Colamento lento (creep) Tale movimento consiste nella deformazione continua nello spazio di materiali lapidei e/o sciolti; il movimento, cioè, non avviene solo sulla superficie di separazione fra massa in frana e materiale in posto, ma è distribuito in modo continuo anche nel corpo di frana. La causa di tale fenomeno va ricercata nella saturazione del materiale per aumento del contenuto di acqua ed è caratterizzato da una bassa velocità di spostamento. Questa tipologia di fenomeni interessa prevalentemente detriti e terre, soprattutto i terreni ad elevato contenuto argilloso (con presenza di smectiti, che presentano forte capacità di rigonfiamento se poste a contatto con l’acqua e, pertanto generano delle forze interne alle superfici del terreno che provocano la frana), o caratterizzati da bassa coesione e debole consolidamento. Le frane per colamento lento, una volta innescate possono rimanere attive per lunghi periodi e sono particolarmente diffuse nell’estremo settore sud-orientale del territorio piemontese. Colata rapida di detrito e fango (debris flow, mud flow) Questo fenomeno si verifica quando ammassi granulari vengono mobilitati in seguito a notevoli quantità di acqua, ad intensi eventi meteorici, a repentini scioglimenti di nevi e ghiacci o allo stazionamento alto della falda. La massa in movimento è costituita da una miscela di aria, acqua e sedimenti di svariate dimensioni e diversa origine (detrito, fango, sedimenti alluvionali, coltri di alterazione, accumuli di frana e detriti di attività antropiche). Tale fenomeno è tipico di versanti montuosi abbastanza ripidi e si sviluppa come una piena di sedimenti che si propaga verso valle con velocità sostenuta. Per queste caratteristiche, le frane con movimento a colata, hanno un potere distruttivo enorme ed elevata capacità erosiva (fig. 2.7). Saturazione e fluidificazione dei terreni (soil slip) Le frane che investono gli strati più superficiali dei versanti e sono caratteristiche delle zone che si trovano a valle di pendi poco acclivi, terrazzi, strade, campi e piazzali, l’acqua può accumularsi e saturare in breve tempo il terreno. L’innesco è dunque legato alla presenza d’acqua nel terreno: più questa aumenta più il terreno si satura fino a liquefarsi e trasformarsi in una colata di fango e detriti che assume una velocità simile a quella di un fluido viscoso. 13

Gli strati superficiali di terreno presentano caratteristiche di permeabilità differenti rispetto a quelle degli strati sottostanti, anche se sono litologicamente simili. In presenza di forti quantità di acqua si creano delle pressioni all’interfaccia tra i due materiali che possono provocarne la rottura, l’interfaccia può funzionare quindi come superficie di scivolamento.

Fig. 2.7. Colamento.

Espansione laterale (lateral spreading) Questo movimento si verifica in presenza di corpi rocciosi rigidi e fratturati, sovrapposti a terreni con comportamento plastico (ed esempio dove arenarie massive o calcari poggiano su litologie in prevalenza argillose). Il fenomeno si innesca quando la pressione esercitata dall’ammasso roccioso induce una deformazione sui terreni sottostanti che si mobilitano in modo differenziale. Il movimento caratteristico è costituito generalmente dalla estensione laterale della massa per mezzo di fratture di tensione o di taglio (fig. 2.8). Si distinguono due tipi: - i movimenti provocano una estensione ma non è possibile individuare una definita zona di taglio basale o di deformazione plastica; questo tipo è particolarmente frequente nei materiali rocciosi specialmente nelle zone montuose di cresta; - i movimenti implicano una fratturazione ed estensione del materiale coerente, per liquefazione o deformazione plastica del materiale sottostante (il modello di rottura vede coinvolti vari meccanismi di movimento, quali rotazione, traslazione, crollo e colamento, e quindi potrebbe essere definito complesso). Questi fenomeni possono raggiungere dimensioni rilevanti dell'ordine dei chilometri. Il movimento è in genere estremamente lento, ma può assumere notevole velocità nel caso coinvolga materiali molto fini, con possibilità di liquefazione.

Fig. 2.8. Espansione laterale.

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Complesso (complex) Generalmente i movimenti di versante manifestano più di uno dei tipi principali di movimento sopra descritti, si possono sviluppare contemporaneamente o in tempi diversi, sebbene una certa tipologia predomini sempre in certe zone dell’area in dissesto o in certi periodi di tempo. In questi casi è preferibile classificare tali fenomeni come "complessi" (ad esempio: scorrimento rotazionalecolamento) (fig. 2.9).

Fig. 2.9. Movimento complesso.

A questo elenco di tipologie di frane (frane in senso stretto), per completezza, vanno aggiunte le Deformazioni Gravitative Profonde di Versante (DGPV) e i movimenti lenti superficiali dei soliflussi. Deformazioni Gravitative Profonde di Versante (DGPV) Tali fenomeni consistono nella deformazione plastica, differenziale e spazialmente continua di un versante, gli spostamenti sono estremamente lenti e si sviluppano lungo superfici di discontinuità orientate anche in modo diverso. In questo modo l’ammasso roccioso viene frazionato in diverse unità che conservano ancora al loro interno una relativa integrità e subiscono processi di rigonfiamento e piegatura. Le dimensioni delle masse coinvolte sono dell’ordine dalle centinaia di migliaia alle parecchie decine di milioni di metri cubi, con profondità di centinaia di metri e lunghezze dell’ordine di chilometri. Le evidenze che le DGPV mostrano sull’assetto morfologico sono: profilo concavo del versante, ribassamento della massa rocciosa, piegamenti, sdoppiamenti di cresta, depressioni e rigonfiamenti. Nelle zone periferiche dei versanti interessati da queste deformazione sono spesso associati fenomeni franosi (crolli e scorrimenti) che originano depositi detritici. Negli stadi più avanzati, le DGPV possono evolvere nel collasso dell’intero versante. Questi fenomeni interessano solo i materiali lapidei. Soliflussi Questi fenomeni sono dei movimenti lenti di una massa fluida molto viscosa, consistono in un movimento lento e discontinuo che coinvolge la porzione più superficiale di materiali sedimentari, per lo più terreni permeabili ricchi di limo e argilla. I pendii coinvolti sono quelli a bassa acclività e la velocità del movimento è circa di alcuni decimetri per anno. Le evidenze sul terreno sono rappresentate da lobi, terrazzetti, alberi inclinati o ricurvi alla base, increspature, avvallamenti e manufatti inclinati o danneggiati (fig. 2.10).

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Fig. 2.10. Soliflusso.

Dissesti dovuti al dilavamento La gravità non è l’unica causa dei dissesti, esistono infatti altri fenomeni dovuti al dilavamento: le acque piovane rappresentano infatti uno dei maggiori agenti morfogenetici e producono rilevanti effetti sulla geomorfologia sia dovuti all’impatto della pioggia sul terreno, sia all’azione di ruscellamento, ossia lo scorrimento dell’acqua in superficie. Le acque piovane, raggiunta la superficie terrestre, in parte possono infiltrarsi in profondità nel suolo e sottosuolo, in parte possono scorrere sulla superficie; se questa è inclinata possono originare un flusso superficiale diretto secondo la massima pendenza. È proprio questo fenomeno che provoca sulla superficie del terreno l’asportazione e il trasporto delle particelle solide, suolo e roccia verso le parti più basse dei versanti, dove vengono accumulate formando depositi denominati colluviali. All’inizio dell’evento l’intensità della pioggia (cioè la quantità di pioggia che cade nell’unità di tempo) è minima, le gocce vengono immediatamente assorbite da un terreno generalmente asciutto e in questo caso la capacità di assorbimento del terreno ha valori altissimi, tendenti a infinito. In questa fase quindi tutta l’acqua piovana si infiltra nel terreno. Man mano che la precipitazione prosegue, l’intensità della pioggia generalmente aumenta e il terreno subisce una netta diminuzione della sua capacità di assorbimento a causa dell’inumidimento crescente. Come si può osservare dal grafico in fig. 2.11 ad un certo punto, la curva rappresentativa dell’intensità di pioggia (crescente) e quella rappresentativa della capacità di infiltrazione (decrescente) si incrociano. Il tempo che intercorre dall’inizio della precipiatzione a questo momento prende il nome di ponding time, cioè tempo oltre il quale si comincia a formare il ristagno d’acqua in superficie. In effetti, oltre questo punto, il terreno non riesce ad assorbire tutta la pioggia, e l’acqua in eccesso ristagna, se siamo in pianura, o scorre superficialmente, se ci troviamo lungo un versante. L’acqua piovana viene quindi ripartita in acqua che si infiltra e acqua che defluisce lungo i versanti: l’acqua che defluisce in superficie può dar luogo al rischio di erosione accelerata e al rischio di inondazione, quella che si infiltra in zone acclivi può provocare il rischio di frana.

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Fig. 2.11. Grafico di un evento piovoso. In alto: sono rappresentate la curva dell’intensità della pioggia e la curva dell’infiltrazione, il punto di incontro è detto ponding time, oltre il quale iniziano a formarsi pozzanghere d’acqua sul terreno. In basso: la quantità di acqua piovana sul terreno aumenta oltre il ponding time.

Il processo erosivo dovuto al dilavamento è composto da due parti: il distacco delle particelle di terreno, dovuto in gran parte all’impatto delle gocce di pioggia e il trasporto di tali particelle, dovuto in larga misura al flusso superficiale dell’acqua. Si riconoscono alcuni tipi di erosione che saranno riassunti di seguito. Erosione da impatto (splash erosion) Quando la copertura vegetale è assente, la superficie del terreno è esposta direttamente all’impatto delle gocce di pioggia. Su alcuni terreni, un evento piovosi intenso può disgregare fino a 250 t/ha di suolo. Alcune particelle possono essere proiettate anche a 0,5 m di altezza e a 1,5 m di distanza. Se il terreno è in pendenza, la forza di gravità provocherà uno spostamento di queste particelle verso il basso. Erosione laminare (sheet erosion) L’erosione laminare è causata da veli superficiali di acqua che scorrono sul terreno, raramente questi veli costituiscono l’agente erosivo, ma tale flusso trasporta le particelle di terreno staccate dall’impatto della pioggia. Dopo pochi metri il flusso si incanala a causa delle irregolarità del terreno. Erosione per rigagnoli o rivoli (rill erosion) Non appena il flusso si incanala, aumentano la sua velocità e la sua turbolenza. L’energia è ora sufficiente sia per staccare sia per trasportare particelle di terreno. Questa azione provoca l’incisione di piccoli solchi chiamati rivoli delle dimensioni dell’ordine dei centimetri. 17

Erosione per solchi o burronamento (gully erosion) Quando più rivoli si incontrano danno vita ad un ruscellamento concentrato lungo incisioni di dimensioni decimetriche caratterizzate da elevate portata e velocità del flusso; si formano quindi dei solchi di erosione. I tipi di erosione visti fin’ora rientrano nell’erosione areale, causata dalle acque di ruscellamento o di dilavamento e che si esplica sull’estensione dei versanti. Le acque incanalate producono invece l’erosione lineare o fluviale (channel erosion), studiata nei problemi di dinamica fluviale. Degradazioni indotte da attività antropica Sono molteplici le attività umane che possono interagire con i processi naturali responsabili dei dissesti. Le modificazioni socio-economiche registrate recentemente nel nostro Paese, hanno determinato un forte incremento della pressione antropica sull’ambiente: si è assistito a una forte espansione urbanistica, una maggior richiesta di reti di trasporto, e un rapido cambiamento delle tecniche agronomiche. spesso queste attività sono state condotte in modo incontrollato, causando un diffuso degrado ambientale e predisponendo vaste aree ai fenomeni di erosione e dissesto geologico-idraulico. L’utilizzazione del suolo e delle zone agricole si è esplicata, fino alla metà del secolo scorso, tramite la messa a coltura di aree sempre più vaste, fino ad occupare le terre marginali, cioè quelle meno vantaggiose da punto di vista fisico. In questo modo l’equilibrio naturale instaurato precedentemente tra clima, vegetazione e suolo è stato sostituito da un nuovo equilibrio ottenuto con grandi sforzi e sacrifici e mantenuto attraverso una costante opera di controllo e gestione da parte di agricoltori e di popolazioni montane. Tali opere di mantenimento erano rappresentate da terrazzamenti, muretti a secco, reti idriche, drenaggi oltre che colture che divennero fortemente caratterizzanti del paesaggio. Dopo il secondo dopoguerra si è assistito al progressivo abbandono delle terre agricole, soprattutto delle zone marginali, nelle quali le pratiche risultavano svantaggiose poiché inaccessibili dai mezzi meccanici e poco produttive. Sono quindi state abbandonate le aree collinari e montuose, situate su versanti in pendenza e particolarmente predisposte all’azione degli agenti esogeni. Il paesaggio agricolo e l’uso del suolo hanno subito profonde modificazioni e l’approccio all’agricoltura è stato totalmente rinnovato. La meccanizzazione delle lavorazioni e la specializzazione delle colture hanno determinato il cambiamento nelle sistemazioni idraulico-agrarie messe in opera precedentemente e che avevano raggiunto ormai un elevato grado di equilibrio con l’ambiente, al fine di rendere le zone più idonee all’impiego dei grandi macchinari agricoli. Questo processo si è protratto fino all’inizio degli anni ’90, quando ormai la quasi totalità della superficie agraria era adibita a monoculture. Uno dei principali risultati di tale cambiamento è stato l’incremento dei fenomeni erosivi, dell’instabilità dei versanti e delle dissesti idrogeologici. Negli ultimi anni tuttavia è maturata una consapevolezza basata sull’importanza dell’uso responsabile e sostenibile del territorio, dettata dall’esigenza di ricercare un giusto equilibro tra produzione agricola e conservazione della fertilità dei suoli e delle risorse ambientali. Conoscendo i meccanismi di azione dei vari fattori ambientali e le caratteristiche di un determinato territorio si possono mettere a punto tecniche agronomiche conservative dell’ambiente come, ad esempio: la semina e le lavorazioni lungo le curve di livello, la rotazione delle colture foraggere, il mantenimento costante di una copertura vegetale o pacciamatura, l’utilizzo di lavorazioni di tipo conservativo, 18

l’adozione di fasce di vegetazione lungo i bordi, realizzazione di opere idraulico-agrarie come terrazzamenti, fossi e scogliere e l’utilizzo di inerbimenti tecnici. È da ricordare che una gestione agricola attenta, in aree montuose e collinare si traduce in effetti benefici anche nelle zone di pianura, attraverso il consolidamento dei versanti, il contenimento dei fenomeni erosivi e soprattutto con la conservazione delle risorse naturali contro il degrado ambientale. Stati di attività Lo stato di attività di un dissesto fornisce indicazioni sul periodo in cui esso si è verificato e permette di prevedere possibili evoluzioni future. Le informazioni sulla base delle quali viene definita tale classificazione sono gli indicatori cinematici rilevabili sul terreno, nonché informazioni provenienti da monitoraggi GIS o tradizionali e dati di letteratura scientifica, cartografia, testimonianze. -

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Attivo: fenomeno attualmente in movimento o comunque che si è mosso entro l’ultimo anno. Sospeso: fenomeno nel quale nell’ultimo anno di osservazione non si sono evidenziati indizi di movimento ma che presenta elementi che ne fanno sospettare una prossima riattivazione. Riattivato: dissesto sospeso che è stata interessato da una nuova mobilizzazione. Quiescente: fenomeno che può essere riattivato dalle sue cause originali, permangono quindi le cause del movimento. Naturalmente stabilizzato: fenomeno inattivo che non è più influenzato dalle sue cause originali, le cause del movimento sono state rimosse, e sono state recuperate naturalmente le condizioni di equilibrio. Artificialmente stabilizzato: fenomeno che è stato protetto mediante opere artificiali di stabilizzazione. Relitto: fenomeno sviluppato in condizioni geomorfologiche e climatiche diverse da quelle attuali e risulta quindi inattivo.

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2.4 – APPLICABILITÀ DELLE TECNICHE DI INGEGNERIA NATURALISTICA Normalmente, i dissesti descritti nei precedenti paragrafi, vengono affrontati e stabilizzati con tecniche tradizionali, ossia opere attive o passive di consolidamento, contenimento e difesa da fenomeni di instabilità costruite attraverso infrastrutture, manufatti in muratura o cemento armato e infissione di pali e tiranti. Per i fenomeni gravitativi profondi e le frane da scivolamento che interessano estese superfici, non è possibile attuare opere di contenimento, né con tecniche naturalistiche né con tecniche tradizionali. In questi casi l’intervento si limita al controllo e alla previsione dell’evoluzione nel tempo del movimento con tecniche di monitoraggio strumentale. Nell’ambito di alcune tipologie di movimento, ad esempio per scivolamenti planari, risultano essere efficaci opere di mitigazione degli effetti causati dalle precipitazioni, in questi casi vengono messi in opera sistemi di drenaggio, intercettazione e regimazione delle acque meteoriche. È soprattutto nell’ambito dei fenomeni di instabilità delle coltri superficiali che le tecniche di Ingegneria Naturalistica assumono una maggior efficacia, ossia laddove risultano importanti le proprietà di effetto drenante, di leggerezza e di funzione antierosiva proprie di queste opere. Interventi con palificate vive di sostegno, scogliere rivegetate, terre rinforzate, inerbimenti e rivegetazione risultano molto efficaci anche in caso di stabilizzazione di fenomeni di scivolamento rotazionale e colate. In caso di soil slips le tecniche naturalistiche offrono possibilità di intervento, mediante la posa di geosintetici e fibre naturali con funzione antierosiva, palificate, graticciate, viminate, cespugliamenti consolidati e inerbimenti della superficie interessata dal dissesto.

Fig. 2.12. stabilizzazione di un versante nell’Appennino Umbro-Marchigiano (foto APAT).

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2.5 – INGEGNERIA NATURALISTICA: ORIGINE ED EVOLUZIONE La disciplina ha origine in periodi molto antichi, ossia quando i moderni materiali da costruzione non erano ancora disponibili, in epoca romana sicuramente venivano costruite strutture in legname anche di notevole sviluppo. Le radici tradizionali dell’uso di materiali come legno, pietra e materiale vegetale vivo si possono ritrovare anche nell’architettura alpina soprattutto in zone montane e collinari, spesso caratterizzate da fenomeni di dissesto. L’Ignegneria Naturalistica moderna fonda le sue origini nel 1951 in Germania quando viene scritto il primo libro intitolato “Ingenieurbiologie” ad opera di V. Kruedener e viene definita la disciplina come: “una tecnica costruttiva ingegneristica che si avvale di conoscenze biologiche nell'eseguire costruzioni in terra e idrauliche e nel consolidare versanti e sponde instabili” (Evette et al., 2009). Per questo scopo si usano piante e parti di esse in modo che nel corso del loro sviluppo sia da sole o in unione con materiali da costruzione inerti, svolgano un consolidamento duraturo delle opere. Contemporaneamente altri autori si concentrano su questa disciplina, in particolare l’austriaco H. M. Schiechtl. Secondo Mitsch e Jorgensen (2003) termine “Ecological Engineering” – una delle tante possibili traduzioni di Ingegneria Naturalistica – è stato coniato nel 1960 da H. T. Odum che definisce la materia come: “casi in cui l’energia fornita dall’uomo è poca ma tuttavia sufficiente a produrre effetti nei modelli e processi dell’ecosistema. Una manipolazione ambientale prodotta dall’uomo usando piccole quantità di risorse, in quanto l’energia principale proviene da fonti naturali” (Odum, 1962; Odum et al 1963). Contemporaneamente, con Ma Shijun (considerato il padre fondatore delle tecniche naturalistiche in oriente), si sviluppa anche in Cina una corrente di pensiero simile. Ma descrive a partire dagli anni ’60 le applicazioni dei principi ecologici e delle tecniche di Ingegneria Naturalistica fino alla metà degli anni ’80. In Cina queste tecniche si sono diffuse inizialmente come una forma d’arte in armonia con i principi della natura ma negli ultimi vent’anni l’uso dell’Ignegneria Naturalistica è diventato più esplicitamente pratico e simile al concetto che conosciamo oggi in occidente (Mitsch, 2012; Mitsch e Jorgensen, 2003). In Europa la diffusione della disciplina inizia a concretizzarsi dal 1970 con la progressiva applicazione delle tacniche naturalistiche, soprattutto in Europa centrale (Regione Piemonte, 2003) e nel 1973 H. M. Schiechtl pubblica il primo manuale dal titolo “Bioingegneria forestale”. Negli anni ’80, molti autori (Uhlmann, 1983; Straskraba e Gnauck, 1985, Straskraba, 1993) iniziano ad interessarsi a questa materia considerata come “un utilizzo di mezzi e metodi tecnologici per la gestione degli ecosistemi, basato su una profonda comprensione ecologica, al fine di ridurre al minimo i costi di produzione e gestione e limitare i danni per l’ambiente”. Successivamente Straskraba nel 1993 elabora il concetto del trasferimento dei principi ecologici nella gestione ambientale (Mitsch e Jorgensen, 2003). Nel 1980 in Germania viene fondata la “Gesellschaft für Ingenieurbiologie”, che diventerà promotrice di molti congressi ed escursioni tecniche sull’Ingegneria Naturalistica (Regione Piemonte, 2003). In Italia gli interventi di Ignegneria Naturalistica si doffondono nelle zone montane e alpine del Trentino Alto Adige a partire dal 1978 grazie anche all’attività di F. Florineth e si diffondono ancora oggi. A partire dal 1984 iniziano gli interventi in ambito estrattivo e stradale nel territorio della Provincia Autonoma di Trento (Regione Piemonte, 2003). Nel 1989 viene fondata la “Associazione Italiana per l’Ingegneria Naturalistica” (A.I.P.I.N) con sede a Trieste, promotrice di congressi, workshop, seminari e corsi. Nel resto del mondo nascono, nel 1993, 21

la “International Ecological Engineerig Society” (I.E.E.S.) con sede a Utrecht in Olanda e, nel 2001 la “American Ecological Engineerig Society” (A.E.E.S) con sede ad Athens in Georgia (Regione Piemonte, 2003; Mitsch e Jorgensen, 2003). In Italia il primo congresso di Ingegneria Naturalistica viene organizzato a Torino nel 1990, durante il quale viene definito il termine ufficiale di “Ingegneria Naturalistica” come traduzione dal termine tedesco “Ingenieurbiologie”. Nello stesso anno vengono emanate le prime normative riguardanti la disciplina (Regione Piemonte, 2003).

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2.6 – INQUADRAMENTO NORMATIVO Ingegneria Naturalistica Il recepimento dell’Ingegneria Naturalistica nella normativa statale italiana inizia negli anni ’90 con la Legge n° 102 del 02.05.1990 recante le “Disposizioni per la ricostruzione e la rinascita della Valtellina e delle adiacenti zone delle province di Bergamo, Brescia e Como, nonché della provincia di Novara, colpite dalle eccezionali avversità atmosferiche dei mesi di luglio ed agosto 1987”. In questa legge viene per la prima volta citato, nell’articolo 6, l’impiego di tecniche naturalistiche, definite in questo caso “tecniche di bioingegneria” dicendo che “gli interventi di sistemazione idrogeologica nelle aree di maggiore rilevanza ambientale si attuano preferibilmente con l’impiego di tecniche di bioingegneria, con particolare riguardo alla sistemazione idraulica dei corsi d’acqua […]”. Quattro anni dopo, i lavori e le sistemazioni effettuati con tecniche naturalistiche vengono inseriti tra i lavori pubblici, ai sensi della Legge n° 109 del 11.02.1994 “Legge quadro in materia di lavori pubblici” (nota anche come Merloni Ter), questa norma ricopre quindi un ruolo essenziale nel riconoscimento della disciplina in esame. Secondo l’articolo 2 comma 1 della legge “si intendono per lavori pubblici le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere ed impianti, anche di presidio e difesa ambientale e di Ingegneria Naturalistica […]”. Anche il Decreto Legislativo n° 152 del 11.05.1999 “Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole” prevede regolamentazioni che si ispirano alla filosofia dell’Ingegneria Naturalistica, anche se questa non viene esplicitamente menzionata. Si tratta comunque di norme destinate alla salvaguardia, rinaturalizzazione e stabilizzazione dei corsi d’acqua. Nell’articolo 3 comma 6 è trattato il tema delle “[…] azioni di salvaguardia ambientale e di risanamento delle acque, anche al fine della loro utilizzazione irrigua, della rinaturalizzazione dei corsi d'acqua e della fitodepurazione […]”. Successivamente, nell’articolo 41 comma 1, l’obiettivo è quello di “[…]assicurare il mantenimento o il ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti di origine diffusa, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità da contemperarsi con le esigenze di funzionalità dell'alveo. […] Le regioni disciplinano gli interventi di trasformazione e di gestione del suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune […]”. Sempre nel 1999 viene emanato un decreto significativo per l’Ingegneria Naturalistica, in quanto prevede numerosi accenni alla disciplina, il D.P.R. n° 554 del 21.12.1999 “Regolamento d’attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994 n. 109, e successive modificazioni”. Questa normativa introduce i concetti di progettazione completa dell’opera e programmazione dei lavori. Dall’articolo 15 comma 1 emergono i “[…] principi di minimizzazione dell’impegno di risorse materiali non rinnovabili e di massimo riutilizzo delle risorse naturali impegnate dall’intervento e di massima manutenibilità, durabilità dei materiali e dei componenti, sostituibilità degli elementi, compatibilità dei materiali ed agevole controllabilità delle prestazioni dell’intervento nel tempo”. Il comma 5 dello stesso articolo, detta i contenuti del Documento Preliminare all’avvio della progettazione che “[…] con approfondimenti tecnici e amministrativi […] riporta l’indicazione: a. della situazione iniziale e della possibilità di far ricorso alle tecniche di Ingegneria Naturalistica; 23

b. degli impatti dell’opera sulle componenti ambientali e nel caso degli organismi edilizi delle attività ed unità ambientali”. In questo decreto si nota una particolare attenzione finalizzata alla compatibilità ambientale, ad esempio nell’articolo 6 si legge che i progetti “[…] sono redatti nel rispetto degli standard dimensionali e di costo ed in modo da assicurare il massimo rispetto e la piena compatibilità con le caratteristiche del contesto territoriale e ambientale in cui si colloca l’intervento, sia nella fase di costruzione che in sede di gestione”. Ulteriore attenzione è posta sulla minimizzazione degli effetti negativi, come stabilito dall’articolo 7: “Gli elaborati progettuali prevedono misure atte ad evitare effetti negativi sull’ambiente, sul paesaggio e sul patrimonio storico, artistico ed archeologico in relazione all’attività di cantiere”. È da citare inoltre l’articolo 21, che nel comma 1, al fine di descrivere i contenuti della progettazione, pone in evidenza l’aspetto del miglioramento della qualità ambientale: “Lo studio di prefattibilità ambientale in relazione alla tipologia, categoria e all’entità dell’intervento e allo scopo di ricercare le condizioni che consentano un miglioramento della qualità ambientale e paesaggistica del contesto territoriale comprende, tra gli altri: […] la illustrazione, in funzione della minimizzazione dell’impatto ambientale, delle ragioni della scelta del sito e della soluzione progettuale prescelta nonché delle possibili alternative localizzative e tipologiche; la determinazione delle misure di compensazione ambientale e degli eventuali interventi di ripristino, riqualificazione e miglioramento ambientale e paesaggistico, con la stima dei relativi costi da inserire nei piani finanziari dei lavori […]”. Nel comma 2 si prevede che lo studio di prefattibilità consenta di verificare che gli interventi “[…] non possono causare impatto ambientale significativo ovvero deve consentire di identificare misure prescrittive tali da mitigare tali impatti”. Altrettanto importante e degno di nota è il D.P.R. n° 34 del 25.01.2000 “Regolamento recante istituzione del sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici, ai sensi dell'articolo 8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni” che categorizza le opere di Ingengeria Naturalistica come OG13, opere generali, e ne fornisce una precisa definizione: “OG 13 - OPERE DI INGEGNERIA NATURALISTICA: Riguarda la costruzione, la manutenzione o la ristrutturazione di opere o lavori puntuali, e di opere o di lavori diffusi, necessari alla difesa del territorio ed al ripristino della compatibilità fra "sviluppo sostenibile" ed ecosistema, comprese tutte le opere ed i lavori necessari per attività botaniche e zoologiche. Comprende in via esemplificativa i processi di recupero naturalistico, botanico e faunistico, la conservazione ed il recupero del suolo utilizzato per cave e torbiere e dei bacini idrografici, l'eliminazione del dissesto idrogeologico per mezzo di piantumazione, le opere necessarie per la stabilità dei pendii, la riforestazione, i lavori di sistemazione agraria e le opere per la rivegetazione di scarpate stradali, ferroviarie, cave e discariche” (Allegato A). La Legge n° 285 del 09.10.2000 “Interventi per i Giochi Olimpici invernali «Torino 2006»” introduce la Valutazione Ambientale Strategica (VAS) al Piano di interventi per le opere previste nel Programma Olimpico. Il Piemonte, quale primo esempio in Italia, ha utilizzato il procedimento di VAS del Piano degli interventi approvata con D.G.R. n° 45-2741 del 09.04.2001, come strumento per la supervisione tecnica, amministrativa e ambientale dei Giochi Olimpici. La gestione di un così importante evento e della costruzione delle infrastrutture ha reso necessaria l’individuazione di indirizzi di sostenibilità ambientale, nell’ambito dei quali spicca il ruolo di importanti opere di recupero, mitigazione e compensazione ambientale. Per tali opere l’Ingegneria Naturalistica ha svolto una parte determinante per l’ottenimento di accettabili condizioni ambientali complessive attraverso le opere di sistemazione del territorio. 24

Nella Regione Piemonte, le tecniche di Ingegneria Naturalistica sono molto diffuse e il loro utilizzo ha ormai superato la fase iniziale di sperimentazione, ora la fase attuativa interessa svariati ambiti territoriali. Le prime norme emanate risalgono agli anni ’80, con la Legge Regionale n° 32 del 02.11.1982 “Norme per la conservazione del patrimonio naturale e dell'assetto ambientale”. In questa norma vengono stabiliti gli ambiti e la filosofia di intervento delle tecniche naturalistiche, riguardo opere di consolidamento statico e attività di ripristino. Viene inoltre fornita una suddivisione ecologica e biogeografia della componente arborea della vegetazione piemontese che si pone alla base della scelta delle specie da utilizzare ai fini del ripristino. L’articolo 2 cita infatti che “La Regione interviene nel recupero di ambienti lacustri e fluviali, nella individuazione, recupero e ripristino di aree degradate, nella tutela della flora spontanea, di alcune specie di fauna minore, dei prodotti del sottobosco e regola interventi pubblici e privati connessi a tali beni al fine di garantire la conservazione del patrimonio naturale e dell'assetto ambientale”. Inoltre “La Regione interviene per il recupero e la valorizzazione di aree degradate, […] promuove studi e ricerche sulle tecniche e sui metodi di recupero ambientale anche attraverso interventi a carattere sperimentale” come precisato dall’articolo 12 di tale norma. Specie vegetali alloctone Riguardo l’invasione di specie esotiche è stata prodotta una grande quantità di norme, sia a livello nazionale e regionale che a livello internazionale. Già nel 1951, a Roma, con la Convenzione Internazionale sulla Protezione delle Piante (IPPC) (successivamente rivista nel 1997 dalla Conferenza FAO), viene applicato un regime di quarantena alle piante infestanti nel commercio internazionale, l’obbiettivo è quello di prevenire la diffusione e l’introduzione di insetti delle piante e prodotti delle piante mediante l’impiego di misure sanitarie e fitosanitarie. La Convenzione di Bonn (1979) richiede agli Stati firmatari l’impegno per prevenire, ridurre o controllare i fattori di diffusione delle specie autoctone, le misure da impiegare sono il blocco delle introduzioni, il controllo o l’eliminazione delle specie esotiche introdotte. La Convenzione di Berna (1979) nell’articolo 11 prevede che le parti contraenti si impegnino a controllare strettamente l’introduzione delle specie non indigene. Con la Risoluzione n. 57 del Comitato Permanente per la Convenzione di Berna sull’introduzione di organismi appartenenti a specie non indigene nell’ambiente, approvata in data 5 dicembre 1997, si raccomanda agli Stati firmatari di: a) proibire la deliberata introduzione all’interno dei propri confini o in parte del loro territorio, di organismi alloctoni al fine di stabilire popolazioni naturalizzate; b) prevenire l’introduzione accidentale di specie alloctone; c) produrre una lista delle specie alloctone invasive già presenti in natura. La Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità (93/626/CEE: Decisione del Consiglio, del 25 ottobre 1993 e ratificata dallo Stato italiano con la Legge del 14 febbraio 1994, n. 124 “Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla biodiversità, con annessi, fatta a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992”), nell’articolo 8 “[…] vieta l’introduzione di specie esotiche che minacciano gli ecosistemi, gli habitat o le specie, le controlla o le sradica […]” Infine per concludere il quadro normativo internazionale si ricordano, al livello comunitario: la Direttiva “Habitat” 92/43/CEE, che predispone per gli Stati Membri il controllo e l’eventuale divieto di introdurre elementi alloctoni che creino danni alla biodiversità naturale; 25

la Direttiva 2002/89/CEE, che modifica la precedente Direttiva 2000/29/CEE riguardo le misure di protezione contro l’introduzione della Comunità Europea di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti vegetali e contro la loro diffusione. Viene stabilito un regime fitosanitario comunitario e vengono specificate condizioni, procedure e formalità in materia fitosanitaria. Nel quadro normativo nazionale oltre alla Legge n° 124 del 14.02.1994 “Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla biodiversità, con annessi, fatta a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992” citata prima, sono da ricordare il D.P.R. n° 120 del 12.03.2003 “Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, concernente attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche”. Nell’articolo 12 comma 3 si stabilisce che “sono vietate la reintroduzione, l’introduzione e il ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone”. Con la “Strategia Nazionale per la Biodiversità”, che si colloca nell'ambito degli impegni assunti dall'Italia con la ratifica della Convenzione sulla Diversità Biologica di Rio de Janeiro, si individua come una delle principali minacce alla biodiversità la diffusione di specie aliene invasive. Il Decreto Legislativo n° 214 del 2005, in attuazione della Direttiva 2002/89/CEE definisce i compiti dei Settori Fitosanitari inerenti l'applicazione delle normative fitosanitarie emanate a livello comunitario e nazionale. In ambito regionale si riportano i seguenti riferimenti normativi della Regione Piemonte: in merito alla Legge Regionale n° 32 del 02.11.1982 e ai “Criteri tecnici per l'individuazione ed il recupero delle aree degradate e per la sistemazione e rinaturalizzazione di sponde ed alvei fluviali e lacustri, procedura amministrativa per la concessione di contributi regionali (L.R. 2 novembre 1982, n. 32, artt. 2 e 12)” approvati con D.C.R. del 31 luglio 1991, n. 250-11937 e modificati con D.C.R. del 2 aprile 1997, n. 377-4975 si definisce che “[…] non sono ammesse a contributo o finanziamento regionale le opere e spese che prevedano l’acquisto e messa a dimora di specie non autoctone”. La Legge Regionale n° 4 del 10.02.2009 “Gestione e promozione economica delle foreste” ribadisce che “la Regione promuove la tutela della biodiversità e la diffusione delle specie arboree e arbustive autoctone indigene del territorio piemontese […]” e che “[…] disciplina e promuove la certificazione della provenienza e della qualità colturale del materiale di propagazione forestale”. Nel “Regolamento forestale di attuazione dell’articolo 13 della Legge Regionale n° 4 del 10.02.2009 (Gestione e promozione economica delle foreste), abrogazione dei regolamenti regionali 15 febbraio 2010, n. 4/R, 4 novembre 2010, n. 17/R, 3 agosto 2011, n. 5/R" emanato con il Decreto del Presidente della Giunta Regionale n° 8/R del 20.09.2011 si stabilisce l’obbligo di utilizzo di specie autoctone nell’ambito di interventi di rimboschimento e/o di impianto di popolamenti di neoformazione e si definiscono misure di tutela e conservazione, in tutti gli interventi selvicolturali. L’articolo 14 consente “[…] Lo sradicamento di alberi o ceppaie delle specie esotiche invadenti di cui all’allegato E”. Anche l’articolo 54 tratta il tema delle specie esotiche e, negli impianti di arboricoltura, vieta “[…] l’uso delle specie esotiche invadenti elencate nell'allegato E”. Allegato C, tabella II: specie esotiche naturalizzate utilizzabili per l’arboricoltura da legno e la creazione di siepi  Pseudotsuga menziesii (Douglasia)  Pinus strobus (Pino strobo)  Alnus cordata (Ontano napoletano) 26

         

Juglans regia (Noce europeo) Juglans nigra (Noce americano) Juglans nigra x regia (Noce ibrido) Liriodendron tulipifera (Albero dei tulipani) Morus alba (Gelso comune) Morus nigra (Gelso nero) Paulownia sp. (Paulonia) Platanus hybrida (Platano) Populus sp. (cloni di Pioppo) Robinia pseudacacia (Robinia)

Allegato E: specie esotiche invadenti    

Quercus rubra (Quercia rossa) Prunus serotina (Ciliegio tardivo) Ailanthus altissima (Ailanto) Acer negundo (Acero americano)

Infine la Legge Regionale n° 19 del 29.06.2009 “Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità”, nell’articolo 47 stabilisce che la conservazione e la valorizzazione degli habitat e delle specie di cui alla direttiva 79/409/CEE “Uccelli” (recentemente abrogata dalla Direttiva 2009/147/CEE) e alla direttiva 92/43/CEE “Habitat” siano perseguite attraverso la predisposizione e l'attuazione di appositi piani di azione e nel comma 3b prevede che “I piani di azione individuino strategie ed azioni finalizzate a […] studiare, monitorare e pianificare la presenza delle specie sul territorio, stabilendo forme di protezione differenziate ed eventualmente prevedendo la reintroduzione o l'introduzione di specie che si trovino in condizioni critiche di conservazione o con la rimozione di specie alloctone che si trovano in situazioni di conflitto con quelle autoctone […]”. È interessante osservare anche la normativa in materia di specie alloctone delle Regioni vicine, come la Lombardia e la Valle d’Aosta. Nell’ambito della Regione Lombardia è stata emanata la Legge Regionale n° 10 del 31.03.2008 “Disposizioni per la tutela e la conservazione della piccola fauna, della flora e della vegetazione spontanea”, tale norma ha definito le misure di tutela della flora spontanea minacciata di estinzione e con l’Allegato E della D.G.R. 7736 del 24.07.2008 ha definito una “Lista nera delle specie alloctone vegetali oggetto di monitoraggio, contenimento o eradicazione” per il territorio regionale lombardo costituita dalle seguenti specie:          

Acer negundo (Acero americano) Ailanthus altissima (Ailanto) Ambrosia artemisiifolia (Ambrosia con foglie di artemisia) Amorpha fruticosa (Indaco bastardo) Artemisia verlotorum (Artemisia dei fratelli Verlot) Bidens frondosa (Bidente foglioso) Buddleja davidii (Buddleja di David) Lonicera japonica (Caprifoglio giapponese) Prunus serotina (Ciliegio tardivo) Nelumbo nucifera (Fior di loto) 27

           

Helianthus tuberosus (Topinambur) Ludwigia grandiflora s.l. (Ludwigia a grandi fiori) Humulus japonicus (Luppolo giapponese) Elodea, tutte le specie (Peste d'acqua) Pinus nigra (Pino nero) Fallopia sez. Reynoutria, tutte le specie (Poligono giapponese) Pueraria lobata (Pueraria irsuta) Quercus rubra (Quercia rossa) Robinia pseudoacacia (Robinia) Sicyos angulatus (Sicios angoloso) Solidago canadensis (Verga d'oro del Canada) Solidago gigantea (Verga d'oro maggiore)

La Regione Valle d’Aosta ha approvato la Legge Regionale n° 45 del 07.12.2009 “Disposizioni per la tutela e la conservazione della flora alpina.” Che nell’articolo 9 stabilisce che è vietata “l’introduzione di specie vegetali alloctone o aliene negli ambienti naturali. La Giunta regionale può adottare eventuali misure incentivanti l’eradicazione delle specie vegetali alloctone o aliene incluse nell’allegato F”. Allegato F: specie vegetali aliene o alloctone, oggetto di monitoraggio, contenimenti o eradicazione   

Heracleum mantegazzianum Reynoutria x bohemica Senecio inaequidens

È stata recentemente pubblicata “La nuova Lista Rossa e la Lista Nera della flora vascolare della Valle d’Aosta (Italia, Alpi Nord-occidentali)” (Poggio et al., 2010), che non ha valenza normativa ma che integra in maniera significativa l’elenco delle specie esotiche previsto dalla L.R. 45/2009, considerando le specie che negli ultimi anni hanno dimostrato una maggiore invasività e che devono essere oggetto di monitoraggio, contenimento o eradicazione. La Lista Nera della Valle d’Aosta è composta dalle seguenti specie:          

Ailanthus altissima Bassia scoparia Buddleja davidii Heracleum mantegazzianum Impatiens balfourii Reynoutria x bohemica Robinia pseudoacacia Rumex patientia Senecio inaequidens Solidago gigantea

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2.7 – PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEGLI INTERVENTI DI INGEGNERIA NATURALISTICA Con il termine “Ingegneria Naturalistica” si fa riferimento all’insieme di tecniche praticate al fine di ridurre il rischio di erosione del terreno negli interventi di consolidamento che prevede l’uso di piante vive o parti di esse (semi, radici, telee), da sole o abbinate ad altri materiali inerti (legname, pietrame e massi, terreno), materiali artificiali biodegradabili (biostuoie, reti in fibra naturale) o materiali artificiali non biodegradabili (reti zincate, geogriglie, georeti, geotessili). L’Ingegneria Naturalistica è quindi una disciplina tecnico-naturalistica con finalità:  tecnico-funzionali, come consolidamenti e difesa dall’erosione;  naturalistiche, copertura a verde e ricostruzione o innesco di ecosistemi paranaturali;  paesaggistiche, nel tentativo di ricreare un continuum con il paesaggio naturale circostante;  economiche, per la complessiva competitività delle opere, talvolta alternative a quelle tradizionali. Esistono cinque principi fondamentali dell’Ingegneria Naturalistica che sono: 1. self-design: si tratta dell’autosostentamento di un ecosistema, la natura contribuisce all’autoregolazione dei meccanismi di un ecosistema restaurato. 2. Test-prova: la riuscita o meno di un intervento è la prova della conoscenza delle teorie ecologiche. Si tratta del momento decisivo in cui si verifica se tutti i componenti inseriti in un restauro sono in grado di coesistere e svolgere le funzioni ecosistemiche. 3. Approccio sistemico: prendendo atto della complessità dei sistemi da restaurare e delle interazioni tra le componenti interne di tali sistemi. 4. Uso di risorse naturali: le discipline ecologiche e le tecniche naturalistiche dovrebbero fare uso di risorse rinnovabili come energia solare, eolica e idrogeologica, come del resto avviene per gli ecosistemi naturali. 5. Conservazione degli ecosistemi: le tecniche di Ingegneria Naturalistica supportano e contribuiscono alla conservazione biologica (Mitsch, 2012). Le tecniche di Ingegneria Naturalistica hanno vari campi di applicazione in diverse tipologie di ambienti, sono ampiamente utilizzate per la creazione o ricostruzione di un ambiente naturale degradato attraverso l’impiego della vegetazione locale, per la sistemazione idrogeologica del territorio e per il recupero ambientale e l’inserimento paesaggistico di determinate infrastrutture. Tra gli ambienti in cui si applica l’Ingegneria Naturalistica si possono trovare i corsi d’acqua (consolidamento spondale, costruzione di briglie, soglie e pennelli, creazione di rampe per la risalita dell’ittiofauna), le zone umide (realizzazione di ambienti idonei per la fauna), le coste marine e lacustri (consolidamento dei litorali soggetti ad erosione e assestamento delle dune sabbiose), i versanti (consolidamento e inerbimento), le infrastrutture viarie e ferroviarie (inerbimento delle scarpate e realizzazione di barriere antirumore), le cave (recupero di attività dismesse e abbandonate), le discariche (inerbimento dei rilevati). I materiali normalmente utilizzati nei lavori in cui si applicano tecniche di Ingegneria Naturalistica sono: - materiale vegetale vivo - legname - pietrame - materiali ferrosi - geosintetici e fibre naturali il materiale vegetale vivo caratterizza la disciplina, viene usato come materiale da costruzione e rappresenta la struttura dell’opera o ne fornisce un importante contributo. Nelle opere più 29

complesse la funzione strutturale è svolta per lo più dal legname, sempre associato al materiale vivo. I restanti materiali ferrosi, pietrame geosintetici e fibre naturali svolgono funzioni complementari e vengono impiegati nella costruzione e nel montaggio delle opere. Il materiale vegetale vivo La scelta del corretto materiale vegetale risulta essere fondamentale per l’attecchimento e per la riuscita degli interventi. Le piante utilizzate devono essere solo specie autoctone, cioè natie della regione di utilizzo e compatibili con l’ambiente in cui devono essere inserite, evitando l’introduzione di specie esotiche, che porterebbero all’invasione dei territori oggetto dei lavori. Vanno inoltre selezionate le specie con le migliori caratteristiche biotecniche (resistenza a trazione delle radici, elasticità del fusto, resistenza alla sommersione a all’inghiaiamento, capacità di aggregare e consolidare il terreno, capacità di drenaggio, elevata propagazione vegetativa). Altra caratteristica da preferire è che le specie siano pioniere, ossia abbiano la capacità di colonizzare e resistere in ambienti non favorevoli o sterili, dove si apre la competizione con le specie ruderali ed infestanti. L’obiettivo degli interventi di Ingegneria Naturalistica è quindi di favorire la ricolonizzazione della zona da parte della vegetazione imitando quanto più possibile i processi della natura. La rivegetazione si ottiene con l’impiego di specie arboree, arbustive ed erbacee. Le specie erbacee vengono distribuite sul terreno tramite miscugli di diverso genere: è da preferire (se localmente disponibile, benchè risulti ormai di difficile reperimento) il fiorume, ossia il fieno ricco di sementi da spargere sulle superfici da inerbire, con risultati nettamente migliori rispetto alle sementi commerciali anche dal punto di vista ecologico. Le specie arboree e arbustive possono essere messe a dimora a radice nuda o dotate di un contenitore o in un pane di terra, cercando comunque di favorire la radicazione. Alternativamente si può utilizzare materiale di propagazione agamica (talee e astoni) reperiti direttamente in natura, anche nelle zone circostanti l’intervento. La capacità di riproduzione per talea è tipica solo di alcune specie arbustive e arboree, dotate di notevole rusticità, capacità di adattamento e quindi capacità di colonizzazione di suoli poveri di sostanze nutritive, caratteristiche proprie delle specie pioniere (Regione Piemonte, 2007). Legname Il legname da costruzione è costituito da pali scortecciati di specie di alberi dotate di buona resistenza meccanica e durabilità, nonché una buona reperibilità. Nelle Alpi italiane, ed in particolare in Piemonte, queste caratteristiche si ritrovano principalmente nel larice e nel castagno. La degradazione del legname avviene ad opera di agenti abiotici (agenti atmosferici e radiazione solare) e biotici (insetti, batteri e funghi). Pietrame Il pietrame può essere reperito sul luogo del cantiere o lungo gli alvei dei corsi d’acqua o da cave di prestito. Si utilizzano generalmente ghiaie ciottoli e massi, evitando l’uso di materiali pietrosi non idonei quali: pietrame serpentinoso contenente amianto, pietrame proveniente dalla demolizione di rocce molto tenere e fortemente fratturate con problemi di assestamento eccessivo, cattivo drenaggio e instabilità strutturale e massi d’alveo troppo arrotondati e lisci, di volume insufficiente che potrebbero arrecare problemi di instabilità (il volume medio dei massi non dovrebbe essere inferiore a 0,3 – 0,6 metri cubi). 30

Materiali ferrosi Per la formazione degli elementi di giunzione e di ancoraggio si impiega acciaio in barre ad aderenza migliorata (tipicamente usate nei lavori civili per armature in calcestruzzo). Si realizzano così chiodi e graffe (di diametro generalmente compreso tra i 10 e i 14 mm), e barre di ancoraggio rettilinee o con estremità sagomate (di diametro variabile tra i 24 e i 32 mm). Chiodi e graffe vengono applicati per battitura agli elementi ai quali si devono applicare giunzioni, previa realizzazione di prefori (diametro 8-12 mm) con trapani a motore. Le barre di ancoraggio possono essere infisse nel terreno per battitura manuale o meccanica, eventualmente previa realizzazione di preforo con trivelle, e possono essere fissate mediante malte additivate da sostanze antiritiro. I micropali sono pali trivellati mediante sonde a rotazione (di piccole dimensioni, cingolate o montate su slitta) con diametro di perforazione variabile tra 80 e 240 mm, e diametro del tubolare in acciaio di armatura (semplice o valvolato) variabile tra 60 e 200 mm. Presentano quindi un fusto costituito da miscela cementizia gettata in opera mediante iniezione insieme con l’armatura d’acciaio. Il riempimento con malta cementizia avviene ad alte pressioni e risulta maggiormente efficace in terreni eterogenei e materiali sciolti granulari. Infine, per il rivestimento di scarpate e pendii, si utilizzano reti in acciaio a maglie esagonali o romboidali. Hanno una buona aderenza alla superficie con cui sono a contatto e vengono vincolate ad essa con barre e funi, hanno funzione stabilizzante e trattengono ciottolame e piccoli volumi di roccia (Regione Piemonte, 2007). Geosintetici e fibre naturali L'impiego di prodotti formati da materiali sintetici o naturali, offre la possibilità di realizzare opere limitando notevolmente l'impatto negativo sull'ambiente. Questi materiali possono svolgere funzioni di contenimento (rinforzo delle terre), stabilizzazione superficiale (difesa antierosiva), supporto allo sviluppo di una copertura vegetale stabile in grado di svolgere un'efficace ruolo autonomo di consolidamento superficiale, drenaggio o, alternativamente, impermeabilizzazione. I prodotti geosintetici si dividono in: geotessili, geomembrane e prodotti correlati (fig. 2.13). I geotessili sono materiali costituiti fibre sintetiche di poliammide, poliestere, polipropene e polietilene organizzati in vario modo, si distinguono quindi:  Geotessili tessuti: strutture costituite da un intreccio molto fitto secondo una trama e un ordito. Hanno una notevole resistenza alla trazione e vengono impiegati nelle terre rinforzate e nel miglioramento delle capacità di carico dei terreni.  Geotessili non-tessuti: sono materiali plastici, ma a differenza dei primi, le loro fibre sono dispose in modo irregolare e caotico. Svolgono principalmente funzioni di drenaggio grazie alla loro ottima capacità filtrante. Le geomembrane sono strutture a bassissimo coefficiente di permeabilità, sono costituite da polietilene, cloruro di polivinile o polietilene ad alta densità. Esistono anche geomembrane derivanti dall’impregnazione di geotessili non tessuti con materiale bituminoso. Vengono complessivamente utilizzate per l’impermeabilizzazione. I prodotti correlati sono costituiti da diversi materiali, sintetici o naturali, e sono impiegati per la stabilizzazione, il drenaggio, l’impermeabilizzazione e la rivegetazione:  Geogriglie e georeti: strutture a rete ricavate dall’intreccio di materiali sintetici nastriformi, svolgono funzioni di rinforzo e di miglioramento delle proprietà meccaniche. 31







Geostuoie: sono impiegate principalmente per i controllo dell'erosione superficiale su pendii, scarpate naturali o artificiali. Sono costituite da filamenti di materiali sintetici aggrovigliati in modo da formare un materassino molto flessibile dello spessore di 10-20 mm. Ne risulta una struttura tridimensionale con un indice dei vuoti molto elevato, idonea al contenimento di terreno vegetale o dell'idrosemina. Geocompositi: sono materiali prefabbricati costituiti dall'associazione di prodotti geosintetici (e non), aventi il compito di svolgere funzioni diverse. Vengono assemblati geogriglie, geotessili e geomembrane per ottenere in un unico prodotto funzioni di drenaggio, impermeabilizzazione e rinforzo meccanico. Geocelle: sono dei materiali sintetici a struttura alveolare, flessibili, resistenti e leggeri; vengono utilizzate come sistemi di stabilizzazione corticale per impedire lo scivolamento e l'erosione di strati di terreno di riporto su forti pendenze. La struttura alveolare viene ottenuta per assemblaggio e saldatura di strisce di materiali sintetici. Sono strutture facilmente trasportabili, caratterizzate da un ingombro molto contenuto, rapidità di applicazione ed adatte a diverse situazioni ambientali. Dopo la loro posa e fissaggio (con picchetti), si effettua il riempimento con materiale drenante, terreno vegetale e successivamente un'idrosemina. Le cavità hanno aperture piuttosto ampie e sono efficaci nell'impedire lo scivolamento superficiale del terreno di riporto mentre non contrastano sufficientemente il ruscellamento e l'impatto delle gocce di pioggia (quando possibile è sempre opportuno abbinare alle geocelle la messa a dimora di piantine o talee). Vengono utilizzate nell'ambito di interventi di stabilizzazione di pendii in frana, nel controllo dell'erosione e stabilizzazione di rilevati artificiali, nella stabilizzazione delle coperture di discariche e nel recupero ambientale delle cave.

I prodotti in fibra naturale sono usati, quasi sempre in associazione con idrosemina o con la messa a dimora di piantine e talee, negli interventi di sistemazione e consolidamento di pendii o scarpate o di altre opere di ingegneria. La loro realizzazione assicura al terreno un controllo dei fenomeni erosivi per il tempo necessario all'attecchimento ed allo sviluppo della copertura vegetale. I rivestimenti biodegradabili sono prodotti costituiti in genere da fibre di paglia, cocco, juta, sisal (fibra tessile ricavata dalle foglie di una specie di Agave), trucioli di legno o altre fibre vegetali, caratterizzati da una totale biodegradabilità (che si realizza in un arco di tempo di 1-5 anni), da permeabilità e capacità di ritenzione idrica elevate e da elevata azione protettiva superficiale del terreno. Le fibre con maggiore durabilità e resistenza sono quelle in cocco. Possono essere classificati in:  Bioreti: sono fibre naturali tessute a maglie aperte, annodate e saldate in modo da formare una struttura tessuta aperta, deformabile e capace di adattarsi al supporto. La struttura e la resistenza alla trazione consentono di esercitare un'efficace azione di controllo sui processi erosivi delle acque meteoriche e di ruscellamento e di stabilizzazione del terreno trattato. Le bioreti in fibre di juta sono le più usate negli interventi di rivestimento antierosivo delle scarpate o pendii nei casi in cui si vuole ottenere un rapido sviluppo della copertura vegetale, grazie alla loro elevata capacità di ritenzione idrica. Le bioreti in fibre di cocco sono molto più resistenti alla trazione ed alla degradazione, infatti sono più indicate in ambienti umidi o dove è richiesta una maggiore e più prolungata azione protettiva e consolidante del pendio da inerbire con idrosemina.  Biostuoie: sono costituite da strati di fibre naturali biodegradabili spesse circa un centimetro, assemblati in modo da formare una struttura intrecciata ma non tessuta, semiaperta e 32



deformabile, capace di adattarsi con facilità al terreno sul quale è stesa. Il materiale può essere trattenuto su entrambi i lati da microreti in materiale organico o sintetico, o confinato entro una microrete su un lato ed un foglio di cellulosa sul lato a contatto con il terreno. Le biostuoie sono caratterizzate da un'elevata capacità di ritenzione idrica e di protezione del terreno contro i fenomeni erosivi superficiali. La formazione di un microclima ideale e l’incremento di fertilità del suolo derivante dalla loro decomposizione, favoriscono notevolmente l'attecchimento e la prima fase di crescita della vegetazione. La durata dei teli varia in funzione del materiale, della natura del suolo e delle condizioni climatiche locali: mediamente si degradano nell'arco di uno o due anni. Le biostuoie possono venire preseminate con varie miscele di sementi, in modo da ottenere una rapida copertura vegetale, di lunga durata, ed una discreta protezione del terreno dall'erosione superficiale. Sono usate per il rivestimento di pendii e scarpate, naturali o artificiali, formati da materiali fini umidi (es. sponde fluviali). In caso di terreni ghiaiosi o detritici con scarso materiale fino occorre riportare uno strato di terreno vegetale prima di stendere il materasso preseminato. Possono manifestare problemi quando la vegetazione tende a radicare solo all’interno del materassino di fibre, senza attraversarlo. Biofeltri: sono teli non-tessuti agugliati, composti da un insieme di fibre vegetali sciolte o pressate. Possono essere accoppiati a reti in fibre naturali biodegradabili o sintetiche fotodegradabili ed a fogli di cellulosa. Sono utilizzati principalmente per l’azione di pacciamatura naturale traspirante, e solo secondariamente per la protezione temporanea dai fenomeni erosivi di pendii e scarpate trattate con semina, per favorire l’attecchimento e la rapida crescita della vegetazione (Regione Piemonte, 2003; Regione Piemonte, 2007; APAT, 2002).

a

c

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b

d

f

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g

i

h

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Fig. 2.13. Diverse tipologie di materiali geosintetici e fibre naturali usate negli interventi di Ingegneria Naturalistica (Regione Piemonte, 2003; Regione Piemonte, 2007; APAT, 2002). a. Diversi tipi di geotessile non-tessuto b. Geotessile tessuto c. Diversi tipi di georete in fibra sintetica d. Geostuoia e geotessile non-tessuto che uniti formano un geocomposito e. Geogriglia monodirezionale f. Geotessile non tessuto g. Geocelle h. Geotessile tessuto i. Biorete in juta j. Geostuoia

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2.8 – TIPOLOGIE DI OPERE DI INGEGNERIA NATURALISTICA Per la difesa dall’erosione superficiale, il miglioramento della capacità drenante dei terreni, la rinaturalizzazione e la manutenzione dei versanti vengono attuate tecniche di rivegetazione e gestione forestale mediante tecniche di inerbimento e messa a dimora di specie arboree e arbustive, talvolta supportati dall’impiego di materiali geosintetici (geotessili, geomembrane) e materiali in fibra naturale. RIVEGETAZIONE E GESTIONE FORESTALE Il materiale vegetale vivo costituisce l’elemento che differenzia le tecniche di Ingegneria Naturalistica dalle altre discipline che prevedono solo l’uso di inerti. La scelta di determinati tipi di piante dipende, oltre che dal luogo, dal tipo di intervento e dalle attitudini bio-tecniche del materiale vivo, quali la resistenza a sollecitazioni meccaniche indotte da fenomeni erosivi o franosi, la capacità di aggregazione e consolidamento del terreno mediante l’apparato radicale, la resistenza delle radici allo strappo e al taglio, la capacità di drenaggio con processi evapotraspirativi (tab. 2.2). Tenendo presente questi capisaldi bisogna effettuare un’accurata scelta delle piante da mettere a dimora nell’intervento, ricordando che: - le leguminose hanno un apparato radicale più profondo rispetto a quello delle graminacee. - L’apparato radicale di alcune specie arboree riesce ad attraversare le falde acquifere (specie dei generi Salix e Alnus) mentre altre sviluppano radici sullo strato più superficiale del terreno (specie dei generi Fraxinus e Populus). - Le conifere (specie dei generi Pinus, Larix e Juniperus) sono adatte per substrati poveri e drenanti ma non attecchiscono da talea. - Le specie del genere Rosa e Cytisus hanno ottime talee, hanno buone caratteristiche tecniche e buona resistenza dell’apparato radicale. - Per interventi in aree montane, ma anche per funzioni decorative sono adatte le specie di mirtillo e rododendro. Tab. 2.2. Esempio di suddivisione dei terreni e tipologia di miscugli con percentuali relative (Regione Piemonte, 2003). A: Terreni sciolti di natura calcarea con scheletro grossolano B: Terreni fertili e leggeri, di medio impasto C: Terreni fertili argillo-silicei, di medio impasto D: Terreni pesanti, argillosi, freschi E: Terreni medi, in clima caldo e secco.

Specie erbacee Dactylis glomerata L. Bromus inermis Leyser Festuca rubra L. Poa pratensis L. Phleum pratense L. Lolium perenne L. Festuca pratensis Hudson Bromus erectus Hudson Festuca ovina L. Trifolium pratense L. Lotus corniculatus L.

A B 30 30 30 15 10 15 15 25

C D E 25 25 25 20 15 10 20 20 10 25 25 10 20

10 10 10 5 5 5

5 35

Trifolium repens L. Medicago lupulina L. Trifolium hybridum L. Hedisarum coronarium L. Onobrychis vicifolia Scop.

5 5 10 5 5

Tecniche di inerbimento La realizzazione di rivestimenti vegetali è di norma sufficiente a proteggere gli strati più superficiali del terreno dall’azione erosiva delle acque meteoriche e di ruscellamento, del vento e delle escursioni termiche. In molti casi lo sviluppo di una copertura vegetale naturale è ostacolato dall’instabilità del terreno o dalla scarsità di suolo e di humus (ad esempio sui pendii rocciosi), e dall'aridità del clima e dai processi di erosione accelerata. Per vincere la sterilità biologica dei pendii in terra, sono impiegate varie tecniche di semina o di rivestimenti vegetativi che si differenziano in relazione alle caratteristiche litologiche, pedologiche, morfologiche e climatiche della zona. Gli inerbimenti hanno lo scopo di:  stabilizzare il terreno attraverso l’azione consolidante degli apparati radicali,  proteggere il terreno dall’erosione superficiale dovuta all’azione battente delle precipitazioni di breve durata e forte intensità e dal ruscellamento superficiale,  ristabilire i processi vegetazionali e le condizioni pedologiche di fertilità, per permettere lo sviluppo di vegetazione appartenente a livelli più evoluti,  reinserire le aree nel contesto paesaggistico preesistente. Negli inerbimenti devono essere utilizzate specie erbacee adatte ai diversi tipi di terreno, tenendo in considerazione il clima e la quota del sito di intervento. Le tecniche di inerbimento sono le seguenti: - semina manuale o a spaglio: è una tecnica di copertura del terreno con tappeto erboso utilizzata negli interventi antierosivi di rivestimento di scarpate e pendii caratterizzati da basse pendenze e da suolo relativamente fertile. Prima di procedere alla semina, occorre preparare il terreno eliminando i ciottoli più grossi e ammendandolo, con apporto di terreno vegetale o compost organico. La semina può essere eseguita manualmente o con idonei mezzi meccanici, spargendo sul terreno umido un miscuglio standard di sementi selezionate (variabile tra 10 e 50 g/m ) o di fiorume (gli scarti del fieno ricchi di semi). Il periodo della semina dipende dalle condizioni pedoclimatiche del luogo, normalmente il più idoneo è quello compreso tra primavera e inizio autunno. La semina manuale con solo fiorume viene oggi presa in considerazione limitatamente alla regione alpina al di sopra del limite del bosco, o in casi particolari sempre in aree montane qualora non sia più utilizzabile la semente in commercio. Il fiorume non è reperibile in commercio ed è disponibile solo in modeste quantità, in genere solo in aree adibite a pascoli. In ogni caso occorre potenziare la semina con l'aggiunta di concime complesso ternario minerale e granulare oppure concime animale. Questa tecnica risulta ottimale nelle aree collinari e montane nel caso in cui si vuole ottenere un copertura vegetale efficace per la protezione dall’erosione e per il consolidamento, in tempi brevi. - Inerbimento con copertura di zolle erbose: è una tecnica praticata soprattutto dove le zolle erbose sono facilmente disponibili in seguito alle operazioni di scotico antecedenti ai movimenti di terra per la realizzazione dell’intervento. È utile anche in zone di alta quota dove l’attecchimento è più difficile. Le zolle erbose che si ricavano in cantiere dovrebbero 36

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essere prelevate delle dimensioni più grandi possibili assieme al terreno compenetrato dalle radici e conservate adeguatamente per poi disporle a scacchiera o a strisce nell’area da inerbire. Sono disponibili in commercio anche tappeti erbosi a rotoli (indicati solo per il rivestimento di scarpate finemente livellate e non troppo ripide, a causa dell'omogeneità del miscuglio di semi usati e per il loro esiguo spessore). Su pendii ripidi le zolle sono fissate con paletti. Se la pendenza non è troppo elevata, con questo sistema è anche possibile rivestire fossi o canalette superficiali utilizzati per il deflusso delle acque di apporto meteorico lungo le scarpate. Inerbimento con sistema nero-verde: questa tecnica, ormai sempre meno utilizzata, consiste nella formazione di una pellicola protettiva bituminosa sopra uno strato di paglia o di cellulosa sul quale vengono sparsi semi e concimi. I procedimenti esecutivi di questo sistema, richiedono un complesso svolgimento manuale organizzato in più fasi (difficoltoso soprattutto sulle lunghe scarpate e sulle superfici più ripide e scoscese), che comporta una forte incidenza dei costi della manodopera ed effetti estetici criticabili. Le principali fasi del processo possono essere riassunte nei seguenti punti: a. preparazione del terreno ed eventuale riporto di terreno vegetale; b. stesura di uno strato di paglia di segale, fieno o altri cereali, eventualmente irrorato con enzimi che ne accelerano la decomposizione; c. semina a spaglio di un miscuglio di sementi e concimi (minerali ed organici) sopra lo strato di paglia; d. stesura di un’emulsione bituminosa instabile diluita con acqua per stabilizzare lo strato di paglia ed evitare erosione da parte di acqua e vento; e. se il terreno è molto pendente viene consolidato mediante la posa di reti o griglie fissate al suolo con graffe metalliche. Questo sistema è indicato soprattutto in situazioni critiche, caratterizzate da scarsità di suolo vegetale e condizioni climatiche sfavorevoli (siccità, piogge violente e frequenti sbalzi termici), come quelle che si riscontrano in alta montagna, ed in tutti gli altri casi dove si vuole ottenere un rapido inerbimento e consolidamento dei pendii per limitare i processi di degrado idrogeologico ed ambientale dei versanti, dovuti a cause naturali e antropiche. E’ una tecnica molto costosa che oggi si usa solo per casi particolari in alta quota. Idrosemina: questa tecnica prevede l’aspersione di una miscela costituita da acqua, sementi erbacee idonee, collanti, concime, prodotti fitoormonici e sostanze miglioratrici del terreno, il tutto distribuito come un’unica soluzione con l’ausilio di macchine irroratrici a forte pressione. L’idrosemina è un’ottima soluzione per i problemi di rinverdimento in quanto si ha la possibilità di variare la composizione delle miscele. Le applicazioni più comuni di questa tecnica comprendono la protezione dall’erosione spondale, la protezione di superfici degradate a causa di lavori di sistemazione superficiale e riprofilature di scarpate, sistemazione di zone di conoide, di cave, di discariche ed inerbimenti di piste da sci. È quindi una tecnica adatta a trattare anche grandi superfici ad elevate pendenze. In base alla composizione si possono distinguere:  Idrosemina di base: adatta a terreni con abbondante frazione fine e colloidale e con inclinazioni non superiori a 20°,  Idrosemina con mulch: con l’aggiunta sul terreno di fibre di legno o paglia, adatta superfici poco fertili e povere di humus, con inclinazioni fino a 35° e soggette ad intensi fenomeni erosivi, 37





Idrosemina a fibre legate: viene aggiunto un mulch di fibre di legno in quantità superiori per ottenere un forte potere protettivo ed una elevata capacità di ritenzione idrica. Adatta a terreni poveri di materia organica e frazione fine, fortemente erodibili e con inclinazioni fino a 60°, Idrosemina a spessore: oltre all’aggiunta di una notevole quantità di mulch legnoso viene addizionata torba o compost. Questa tipologia è adatta a situazioni con substrato povero di materia organica, sassoso o con rocce tenere alterate.

Messa a dimora di specie arbustive e arboree La tecnica d'impianto mediante la messa a dimora di piantine arboree ed arbustive e/o il trapianto di rizomi o cespi selvatici, avviene di solito in zone dove le caratteristiche di pendenza ed il terreno lo consentono, e dove si richiede un rapido sviluppo della copertura vegetale. Questa tecnica di stabilizzazione dei versanti sfrutta la capacità degli apparati radicali delle piante di legare e consolidare le particelle di terreno sciolto e le capacità di regimazione idrologica derivanti dalla intercettazione delle acque meteoriche e dal prosciugamento dell’acqua superficiale. L’impianto della vegetazione può essere eseguito con materiale proveniente da vivai o con l’impiego di talee prelevate direttamente in natura, anche dalle formazioni circostanti il sito di intervento. L’uso esclusivo di talee riduce la quantità di specie utilizzabili ad un numero molto limitato che non permette al sito di presentare da subito le caratteristiche di plurispecificità vegetale e naturalità ottimali; tuttavia l’impiego di talee assicura una più rapida copertura e massimizza l’azione di consolidamento del suolo. Si deduce quindi che la situazione ottimale prevede l’impiego contemporaneo di talee e piantine. Lo sviluppo di piante arboree ed arbustive dal seme invece non è di frequente utilizzo poiché si preferisce, di norma, partire da uno stadio più avanzato i sviluppo.

Fig. 2.14. Calendarizzazione di opere che prevedono l’impiego di materiale vegetale (Regione Piemonte, 2003).

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Talee: solitamente le talee vengono preparate al loro utilizzo per lunghezze variabili e con diametro superiore ai 2 cm (maggiore è il diametro e maggiori sono le riserve di sostanze nutritive che permetteranno alla pianta di affrontare il periodo di carenza nutrizionale e idrica successivo la messa a dimora). Le talee devono essere messe a dimora durante il periodo di riposo vegetativo che in linea di massima è rappresentato dall’autunno per la pianura e dalla primavera per le zone di montagna, evitando di eseguire i lavori in periodo di gelo e in periodi successivi a forti piogge o disgelo per la totale saturazione d’acqua dei terreni. Anche il prelievo va effettuato in periodo di riposo vegetativo, e talvolta le elevate quantità di materiale da reperire fanno si che l’approvvigionamento sia anticipato rispetto alla fase di esecuzione dei lavori (fig. 2.14). La conservazione del materiale può avvenire in celle frigorifere o in pozze di acqua fredda o comunque in zone dove l’emissione dei germogli venga ritardata (es. in alta quota). Molto spesso il luogo di approvvigionamento delle talee è diverso dal sito di intervento quindi bisogna adottare degli accorgimenti per il corretto trasporto del materiale, per evitare il deperimento: è consigliabile l’uso di autocarri furgonati o cassoni telonati in periodi con temperature più alte per evitare la disidratazione e prevedere un annaffiamento del materiale. Le talee da utilizzare devono essere esenti da traumi della scorza, marciumi o parassiti. Per la messa a dimora è importante rispettare la polarità: vanno quindi disposti con la cima (parte più rastremata) verso l’esterno dell’opera; inoltre devono essere poste orizzontalmente per ottenere una maggiore radicalizzazione, questo permette una uniforme distribuzione di sostanze immagazzinate nelle gemme (rizocalina) che si trasloca verso la superficie di taglio basale e ne induce la radicalizzazione. - Piantine: La messa a dimora avviene entro delle buche, scavate con mezzi manuali o meccanici di dimensioni prossime al volume dell'apparato radicale, se si impiegano piantine a radice nuda, o maggiore, se si utilizzano piantine con vasetti o in pani di terra. La preparazione delle buche deve tenere conto delle condizioni pedoclimatiche: nelle zone aride è bene che il livello della buca, dopo aver eseguito il riempimento risulti inferiore al terreno circostante; al contrario in zone con ristagni d'acqua è preferibile realizzare un drenaggio centrifugo. Le piantine (pioppi, salici) possono essere impiantate a radice nuda, con zolla di terra o in contenitori biodegradabili, in genere sono di esemplari di età variabile tra 1 e 3 anni ed altezze comprese tra 20 - 30 cm e 100 - 150 cm . L'impianto di specie a radice nuda si esegue prevalentemente durante il periodo estivo mentre per le piantine in zolla o in contenitori il trapianto può essere effettuato anche durante i mesi di riposo vegetativo. Per la messa a dimora di specie pioniere su terreni aridi o poco fertili è consigliato procedere al ricoprimento della buca, dopo l'impianto, con uno strato di torba, paglia, cellulosa sminuzzata o sostanza organica, allo scopo di mantenere umido il terreno. In questi tipi di terreni si ricorre anche all’impiego di fertilizzanti o concimi contestualmente al trapianto. Per ciascuna fornitura di alberi è consigliato inoltre fornire un’etichetta utile al riconoscimento degli esemplari. Per la corretta posa della piantina, il colletto radicale deve trovarsi al livello del fondo della conca di irrigazione. Le piantumazioni sono particolarmente indicate in zone collinari o montane, su terreni aridi, per ottenere in breve tempo un’efficace copertura vegetale, per il consolidamento delle scarpate e per la protezione dall’erosione. Nel complesso i punti fondamentali da seguire sono:  corretta scelta delle specie vegetali,  rispetto dell’epoca di prelievo ed impiego,  cautele nella conservazione e trasporto, 39

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corretta polarità e suborizzontalità della posa, evitare le sacche d’aria a contatto con la parte interrata (compattare il più possibile il terreno), assenza nel terreno di una eccessiva frazione grossolana e pietrosa, inserimento della talea nel terreno per almeno l’80% della sua lunghezza (maggior contatto con la terra e per evitare la disidratazione), potatura della parte aerea con un taglio netto ed inclinato per evitare ristagni d’acqua e marciumi.

Cespugliamenti consolidanti Con questo termine si indicano vari interventi di consolidamento di pendii attraverso l’esclusivo uso di vegetazione. Uno dei sistemi più utilizzati è la gradonata viva. Questa tecnica è un sistema impiegato con successo negli interventi di stabilizzazione di pendii e scarpate, naturali o artificiali, in materiali sciolti. La realizzazione di gradonate permette di rinverdire le scarpate attraverso la formazione di piccoli gradoni lineari, che corrono lungo le curve di livello del pendio, in cui si interrano dei fitti "pettini" di talee e/o di piantine radicate. Lo sviluppo dell’apparato radicale garantisce il consolidamento del terreno, mentre la parte aerea contribuisce a contenere l’erosione superficiale. La sequenza costruttiva prevede: 1. lo scavo di una banchina profonda almeno 50 cm con pendenza verso l’interno almeno del 10%; 2. la messa a dimora orizzontale di materiale vegetale vivo per almeno 20 talee al metro e 5 piantine al metro; 3. la ricarica della banchina con terra di scavo lasciando sporgere le talee per pochi centimetri; 4. la spuntatura o potatura delle talee. Per sistemare un versante possono essere costruiti più ordini di gradonate vive, con interassi di 1,5 – 3 m, partendo in genere dalla base del pendio. La cordonata viva è realizzata con la stessa modalità, ma vengono utilizzate unicamente talee e piantine ad elevata capacità vegetativa, insieme a stanghe e ramaglia di latifoglia o conifera disposte parallelamente alla banchina, sul fondo dello scavo. Per tutti gli interventi di rivegetazione occorre prevedere un periodo da dedicare alle cure colturali: le opere di Ingegneria Naturalistica richiedono infatti interventi manutentivi che per i primi anni sono di vitale importanza, quali:  la sostituzione di piantine o talee che non hanno attecchito,  il rifacimento di opere danneggiate,  l’irrigazione,  la concimazione,  l’apporto di una corretta pacciamatura per fornire calore e umidità alle piante e difesa dalle specie infestanti,  la posa di eventuali pali tutori,  lo sfalcio di formazioni vegetali troppo dense,  la potatura delle specie arboree e arbustive,  il contenimento della vegetazione infestante,  gli interventi antiparassitari,  la sistemazione dei danni causati dall’erosione. 40

Per la regimazione idraulica e il drenaggio delle formazioni vengono costruite opere di canalizzazione che prevedono canalette metalliche, in legname e pietrame, inerbite e in tavolame di legno. Vengono inoltre costruiti sistemi drenanti che consistono in trincee, cunei e fascinate. CANALIZZAZIONI IDRAULICHE E SISTEMI DRENANTI L’intero arco alpino è soggetto ad episodi di precipitazione intensi e di breve durata (anche 100 mm/h), vanno quindi previsti interventi di regimazione idraulica adeguati a questi fenomeni (soil slips causati dalla saturazione della coltre superficiale del terreno) e risulta di fondamentale importanza l’intercettazione e la capacità di smaltimento delle acque meteoriche. Esistono numerose tipologie di canalizzazioni e la loro efficacia dipende dalla sezione di deflusso, dalla pendenza e dalla manutenzione. Le canalette metalliche (fig. 2.15 A) sono molto diffuse, costituite da lamiera di acciaio corrugata e zincata, di forma semicircolare, aperte, e fissate al suolo mediante tirafondi. La canaletta deve essere correttamente inserita in uno scavo che permetta di deflusso delle acque e impedisca il sifonamento. Per favorire la stabilizzazione vengono messe a dimora talee arboree o arbustive che contribuiscono al raccordo con il terreno e al mascheramento della struttura. Nei casi dove la capacità di trasporto solido non è elevata si costruiscono canalizzazioni in legname e pietrame, con sezione a trapezio, realizzate con un’intelaiatura di pali di legname idoneo e rivestendo il fondo con uno strato di pietrame posto a mano, di circa 20 cm di spessore. Per la loro realizzazione si procede con uno scavo delle dimensioni idonee, in seguito vengono fissati nel terreno i pali in legno scortecciati con un’angolazione pari alle pareti dello scavo e i pali di ancoraggio disposti longitudinalmente. Nei quadri così ottenuti vengono disposti blocchi o lastroni di pietrame, intasati con materiale terroso e opportunamente inerbito. Nei casi in cui le pendenze e il deflusso non sono elevati si provvede con la costruzione di canalette in terra (fig. 2.15 B) rivestite di geosintetici o materiali in fibra naturale e rivegetate con idrosemina. Esistono anche canalette impermeabilizzate mediante l’uso di geomembrane in polietilene o bituminose. Per la raccolta e lo smaltimento di acque provenienti da altri sistemi di drenaggio vengono costruite della canalette in tavolame di legno (stagionato e durabile, dello spessore di almeno 5 cm, e privo di nodi o fessurazioni). I vari elementi di questa rigida struttura vengono collegati da chiodature e graffature metalliche. È importante sottolineare che sono necessarie delle periodiche manutenzioni a queste tipologie di opere per garantirne la corretta funzionalità, in quanto le precipitazioni e l’eventuale trasporto di massa sui versanti ne possono pregiudicare l’efficacia. I sistemi drenanti sono invece rappresentati dalle opere adatte ad intercettare l’acqua di infiltrazione nel sottosuolo e collettarla in opportuni ricettori. Queste tecniche risultano di fondamentale importanza nella zona delle Langhe Piemontesi e nelle aree del Bacino Terziario Piemontese, in quanto sono un’ottima difesa dai movimenti franosi per scivolamento planare: consentono infatti l’abbattimento della quota media della falda acquifera e quindi diminuiscono la capacità di saturazione del terreno (uno dei maggiori fattori destabilizzanti che innesca i movimenti franosi). Tra le varie tipologie di sistemi per il drenaggio ci sono le trincee drenanti (fig. 2.15 C): strutture lineari disposte in genere parallelamente alla linea di massima pendenza del versante, con profondità limitate, possono raggiungere i 4-6 m, e larghezze di poco inferiori o superiori al metro. Le trincee devono essere scavate con attenzione, a piccoli tratti, procedendo da valle verso monte in modo che, anche se costruite parzialmente, esse possano esercitare la loro azione drenante già in fase di 41

costruzione. Il fondo dello scavo può avere una pendenza uniforme in caso di versanti poco inclinati altrimenti si procede alla gradonatura del fondo scavo ed alla successiva disposizione di pozzetticaditoia. Il fondo della trincea può essere impermeabilizzato. Sopra l’impermeabilizzazione (di regola effettuata con geomembrane) è posto un tubo in materiale plastico micro fessurato di diametro adeguato. Al disopra della canaletta e del tubo di raccolta è posto il corpo drenante formato da un filtro in terreno naturale (ghiaia e sabbia pulita, con scarsa componente fine e ricoperto da uno strato sommitale di terreno vegetale), o in alternativa da geotessili (strato di ghiaia completamente avvolto con un telo di geotessile non tessuto posto a contatto col terreno da drenare. Al disopra di questo il riempimento della trincea è completato da uno strato di sabbia e dallo strato sommitale di terreno vegetale). Benché non si tratti di veri e propri drenaggi profondi, che si ottengono con scavi a pozzo, la realizzazione di questi sistemi di drenaggio ha un maggior impatto sull'ambiente, in particolare sulle acque sotterranee, rispetto ai sistemi di drenaggio di tipo più superficiale (ad esempio le fascinate drenanti, di seguito descritte). Comunque l'inserimento di queste opere nel paesaggio è buono in considerazione del fatto che, a lavori completati, lo strato di riempimento sommitale può essere costituito da terreno vegetale o da pietrame. Nel caso in cui le venute d’acqua siano affioranti o sub affioranti su una scarpata si procede con l’allestimento di un cuneo drenante (fig. 2.15 D), ovvero un’opera costituita da una palificata in legname con la funzione di intercettare le acque e di convogliarle in un collettore alla base dell’opera. Possono essere impiantate delle talee di specie arbustive igrofile che, grazie alle loro capacità di assorbimento di acqua e di evapotraspirazione, contribuiscono al drenaggio della struttura.

Fig. 2.15. alcuni esempi di canalette e sistemi di drenaggio (Regione Piemonte, 2003).

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Il drenaggio con fascinate è costituito da uno scavo lungo la linea di massima pendenza, oppure obliquo rispetto ad essa, di limitata profondità; un tubo in PVC micro fessurato viene disposto sul fondo dello scavo ed eventualmente rivestito da geotessile; lo scavo viene poi riempito con ramaglie, fascine morte e materiale pietroso reperito nel luogo del cantiere. La parte sommitale dell’opera viene riempita con terra e fascine di materiale vivo con elevata capacità di propagazione vegetativa. L’effetto drenante sarà assicurato dall’azione meccanica degli inerti e dall’evapotraspirazione del materiale vegetale sviluppato. Per la ricostruzione strutturale dei versanti vengono utilizzate strutture di sostegno, contenimento, consolidamento e protezione dall’erosione. Le opere in legname consistono in palificate vive, (semplici, ad una o a doppia parete e sistemi di palificate), stabilizzazioni superficiali (stecconate, viminate, graticciate e fascinate) e grate vive. Le opere in pietrame sono rappresentate da murature in pietrame, scogliere rivegetate e gabbioni. Sono utilizzati anche i materassi, con funzione di stabilizzazione superficiale del terreno. OPERE IN LEGNAME Palificate semplici Le funzioni principali delle palificate semplici sono:  consolidare la coltre superficiale di terreni sciolti e relativamente omogenei,  trattenere il materiale superficiale soggetto al dilavamento, il ciottolame e il pietrame,  rivegetare le superfici soggette ad erosione. Le palificate semplici sono le opere più efficaci per la stabilizzazione della porzione più superficiale del suolo mediante l’azione di ancoraggio svolta dagli apparati radicali di talee e piantine. Il materiale utilizzato nella costruzione di una palizzata (palificata semplice) è il tondame scortecciato e durabile di latifoglia (castagno) o conifera (larice), con diametro di almeno 20 cm, disposto perpendicolarmente alla linea di massima pendenza del versante, fissato con dei picchetti in legno (definiti piloti) o profilati o tondini in acciaio ad aderenza migliorata, per profondità di almeno 1 m. In aggiunta si può aumentare l’altezza della struttura con più pali disposti orizzontalmente in modo da contenere una maggior quantità di terreno: si ottengono così le palificate semplici a pali sovrapposti. Sarebbe utile, in questi casi, separare i pali sovrapposti con cunei o distanziatori. Nella variante di palificate semplici a piloti incrociati si ha un maggior effetto di consolidamento del terreno. Sono anche previste varianti con sistemi di ancoraggio profondo con l’uso di micropali e ancoraggi con malta cementizia. Nella parte a monte della palificata vengono disposte le talee di specie arbustive o arboree con alta capacità radicante. Devono essere almeno 20-30 talee al metro con l’eventuale aggiunta di piantine (5 al metro). Dove necessario è possibile posare reti in fibra naturale con funzioni antierosive e il terreno viene inerbito con idrosemina o semina a spaglio. Palificate vive di sostegno Le palificate vive di sostegno sono impiegate con successo negli interventi di stabilizzazione di pendii e scarpate, naturali o artificiali, in dissesto. Questo sistema favorisce il rinverdimento di pendii attraverso la formazione di strutture fisse in legname, che hanno la funzione di formare delle piccole gradonate a monte delle quali si raccoglie il terreno. Lo sviluppo dell’apparato radicale garantisce il consolidamento del terreno, mentre la parte aerea contribuisce a contenere l’erosione superficiale. 43

Le palificate vive di sostegno a una parete (fig. 2.16) possono essere considerate un’evoluzione delle palificate semplici, sono infatti costituite da pali trasversali e da pali orizzontali (traversi e correnti) ancorati alla base da pali in legno o tondini in acciaio ad aderenza migliorata. Il diametro minimo del tondame in legno durabile (larice o castagno) deve essere di 20-25 cm, ma può essere aumentato per migliorare la stabilità dell’opera. Lo spazio residuo tra il pendio e la parte in legname viene riempito con materiale terroso e ghiaioso (proveniente dallo scavo o di riporto) alternato alla posa di talee o piantine con elevata capacità vegetativa per almeno 20 talee e 5 piantine al metro quadrato. L’ambito di impiego di queste strutture è nel consolidamento di scarpate e di sponde (anche se in ambito fluviale le correnti elevate potrebbero danneggiare l’opera causandone lo svuotamento). Le palificate vive di sostegno a doppia parete (fig. 2.17) sono strutture autoportanti impiegate nella ricostruzione dei versanti interessati da fenomeni franosi, in quanto svolgono funzioni di sostegno, contenimento al piede e consolidamento strutturale dei pendii. Queste strutture svolgono un’azione più efficace rispetto alle strutture tradizionali in quanto: - sopportano piccoli assestamenti del terreno, - non necessitano di una struttura di fondazione, - possono essere allestite a varie quote del versante compresi i pendii scoscesi, - sono leggere, - hanno ottime qualità paesaggistiche e naturalistiche in quanto si inseriscono perfettamente nell’ambiente, - presentano numerose varianti costruttive al fine di migliorarne le capacità. L’opera è costituita da una cassa di pali in legname a struttura cellulare, riempita con materiale inerte e materiale vegetale vivo. L’ingombro generalmente è circa 1,5 m per un’altezza che non supera il doppio della base, i materiali utilizzati sono analoghi a quelli delle palificate a una parete. Nel caso in cui si debba operare in terreni detritici fini (sabbie e limi) deve essere previsto un ancoraggio adeguato, mediante piloti in legno o acciaio posti anteriormente al paramento a valle o a monte della struttura, talvolta può essere previsto l’uso di micropali per ancoraggi profondi. Si può prevedere l’uso delle palificate in più ordini ravvicinati, formando sistemi di palificate a gradoni, utilizzati soprattutto per stabilizzare versanti franosi. Nel complesso per tutti i tipi di palificate vive possono essere elencati diversi difetti costruttivi:  mancanza o inefficacia degli ancoraggi,  svuotamento della struttura,  assenza di materiale vegetale vivo (che nel tempo dovrebbe sostituire la funzione strutturale dell’opera),  errori nella scelta del materiale vegetale vivo,  posizioni errate delle giunzioni (nei correnti e non in corrispondenza dei trasversi),  fessurazioni dei tronchi e conseguente apertura,  fessurazione del tondame causato da chiodi o graffe senza l’uso del preforo. Inoltre, se il pendio produce spinte eccessive parallelamente al piano di fondazione, le palificate mostrano dei limiti di applicabilità ed efficacia. In questo caso si può risolvere il problema prevedendo a sistemi di fondazione e ancoraggio di altra tipologia, ad esempio opere in pietrame.

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Fig. 2.16. Sezione schematica di una palificata viva di sostegno a una parete (Regione Piemonte, 2003).

Fig. 2.17. Palificata a doppia parete (A) e palificata a doppia parete con piloti verticali (B) (Regione Piemonte, 2003).

Opere di stabilizzazione superficiale Stecconate, viminate, graticciate e fascinate sono le opere di stabilizzazione superficiale dei versanti che hanno le stesse modalità costruttive delle palificate semplici. Nel caso delle stecconate la struttura portante è costituita da tavolame in larice con spessore di 5080 mm, fissati al suolo con tondini o putrelle in acciaio di lunghezza adeguata. Queste strutture consentono un maggior carico a monte, anche in spazi limitati. Nella zona di ricarica della struttura vengono inserite le talee o le piantine. L’impiego di queste strutture risulta più efficace in terreni con buone caratteristiche geotecniche e con abbondante matrice terrosa. Possono verificarsi problemi di durabilità del tavolame, in quanto risulta più vulnerabile agli agenti atmosferici e ai parassiti. Le restanti strutture complementari alle stecconate sono costruite con maggior difficoltà poiché hanno una messa in opera più laboriosa e una minor capacità portante, tuttavia sono strutture molto elastiche e adattabili alle irregolarità del terreno, alla presenza di affioramenti rocciosi e a movimenti di assestamento.

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Le viminate hanno funzioni di consolidamento superficiale per mezzo delle piante ed un immediato effetto di regimazione delle acque meteoriche. Questo sistema comporta un tecnica mista tra materiali vivi (astoni e talee) e materiali morti. Un tempo erano largamente impiegate per il consolidamento di piccole frane, oggi le viminate sono sostituite da sistemi stabilizzanti più efficaci e meno costosi. La struttura è costituita da paletti di legno (castagno, larice, salice o altro) di un metro circa di lunghezza, infissi nel terreno per 70 cm circa. A questi paletti vengono collegati, intrecciandoli, 3 - 8 rami lunghi e flessibili di salice disposti longitudinalmente e legati con filo di ferro zincato. La parte terminale di questa deve essere interrata al fine di ridurre i rischi di scalzamento della struttura e di favorire il radicamento delle talee. L'altezza fuori terra delle viminate è di circa 30 cm. L'impianto viene posizionato lungo le curve di livello, a valle ed a monte delle zone dissestate. Le viminate possono essere disposte sui pendii a file parallele o diagonali, a sviluppo orizzontale e verticale in modo da trattenere il terreno. Una variante è rappresentata dalla disposizione seminterrata in piccoli solchi di 20 cm circa al fine di aumentare la percentuale di attecchimento. Un limite di questo sistema, oltre alla complessa laboriosità dell'impianto, è la difficoltà di reperire materiale vegetale molto lungo e nel contempo ad alta capacità radicante, che implica costi relativamente alti in rapporto all'efficacia dell'intervento. Sono impiegate in generale, negli interventi di sistemazione e consolidamento dei pendii in materiali sciolti, interessati da frane di tipo superficiale e da fenomeni erosivi. Inoltre vengono costruite con successo anche per la sistemazione ed il consolidamento di alte scarpate artificiali (ad esempio rilevati stradali o argini). Le fascinate sono utilizzate negli interventi di sistemazione dei versanti con pendenza non superiore ai 30°-35°. Con questo sistema si ottiene il rinverdimento e la regimazione del ruscellamento superficiale dei pendii mediante la formazione di file di gradoni, disposti parallelamente alle curve di livello, nei quali sono sistemati delle fascine di astoni o ramaglia, possibilmente lunghi e diritti, prelevati da piante legnose con elevata capacità di diffusione vegetativa. L’opera è costituita da fascine di rami lunghi di piante ad elevata capacità vegetativa disposte in una banchina profonda 3050 cm e tenute in posto da picchetti in legno lunghi un metro circa e di diametro superiore a 5 cm (o in alternativa da tondini in acciaio infissi a valle della fascinata). Successivamente le fascinate vengono interrate lasciando sporgere solo alcuni rami dal terreno e in aggiunta possono essere messe a dimora delle piantine radicate a fianco della struttura. Una variante alternativa è la costruzione con l’uso di fascinate morte per assumere temporaneamente una funzione antierosiva e regolatrice delle acque. La fascinata è un sistema di stabilizzazione non indicato negli interventi di sistemazione dei versanti in materiali poco coesivi, in quanto presenta un modesto effetto consolidante in profondità, che avviene solo dopo la radicazione e l'attecchimento delle piantine. Inoltre, questa tecnica può essere usata solo su pendii con inclinazioni non elevate e in condizioni climatiche non estreme. Le graticciate sono invece costituite dalla messa a dimora di un maggior numero di picchetti a distanze di 30-40 cm. L’intreccio è costituito da fascine morte e poste a tergo dei picchetti, le piantine vengono eventualmente disposte a monte della struttura, in corrispondenza del reinterro. Grate vive La tecnica della grata viva con talee e/o con piantine (fig. 2.18) è una tipologia d'intervento più complessa rispetto ad altri sistemi d'Ingegneria Naturalistica, ma molto efficace negli interventi di sistemazione e rinverdimento di versanti e di scarpate anche con elevata acclività. Bisogna puntualizzare che le grate vive non sono opere di sostegno né sono in grado di svolgere una funzione di contrasto delle spinte del versante, ma sono un sistema utilizzato con successo su pendii in 46

erosione o in frana, caratterizzati da inclinazione molto elevata (anche maggiore di 45°), dove non è possibile ridurre la pendenza con il modellamento dei versanti. Questo sistema garantisce, al tempo stesso, un'efficace azione di sostegno ed una protezione dall'erosione superficiale. La struttura è costituita da una serie di pali verticali aderenti alla scarpata e distanziati tra loro di circa 2 m, su questi vengono fissati dei pali orizzontali, in modo da costituire delle maglie quadrate o rettangolari delle dimensioni di 1x1 m, 1,5x1,5 m, 1x2 m, 1,5x2 m. La struttura può essere appoggiata direttamente sul terreno o su altre opere di sostegno come palificate a doppia parete, muri in pietrame o scogliere. L’ancoraggio della grata alla scarpata può essere effettuato mediante piloti in legno o tondini di acciaio di lunghezza superiore a 1.5 m. Il terreno che ospiterà la struttura va ripulito da cespugli e ciottoli e riprofilato, e se necessario, protetto con reti antierosive e reti elettrosaldate. Infine la struttura verrà inerbita mediante idrosemina e rivegetata con la messa a dimora di talee e piantine radicate all’interno dei quadrati. Le grate vive possono svilupparsi fino ad altezze notevoli, ma è bene che nei pendii più acclivi (oltre 50°) la struttura non superi i 6-8 m, altrimenti il profilo va gradonato per non compromettere la stabilità della struttura.

Fig. 2.18. Rappresentazione schematica di grate vive a camera (Regione Piemonte, 2003).

OPERE IN PIETRAME Murature in pietrame a secco I muri in pietrame a secco sono opere di sostegno che nelle regioni alpine hanno origini antichissime. Il pietrame utilizzato è di forma spigolosa e reperito sul luogo di costruzione. La costruzione di queste strutture richiede manodopera specializzata, avviene a partire da un piano di fondazione ricavato con scavo a pareti verticali con profondità dell’ordine del metro. L’elevazione avviene poi per strati regolari, utilizzando pietre di diverse dimensioni e di volumi movimentabili manualmente. Questo tipo di strutturà è perfettamente drenante, l’efficienza del drenaggio può essere migliorata con la posa di un geotessile non-tessuto a tergo dell’opera. L'altezza di queste opere mediamente non supera i 2 metri, tuttavia in casi particolari, utilizzando mezzi meccanici è possibile realizzare muri di sostegno o scogliere in pietrame fino ad altezza di 3 - 4 metri. Queste strutture hanno un maggiore 47

spessore rispetto ai muri con malta e necessitano di periodiche manutenzioni. Tuttavia essi offrono notevoli vantaggi nei riguardi della stabilizzazione del terreno che sostengono, in quanto, la loro permeabilità consente un buon drenaggio del terreno a tergo ed una diminuzione della spinta della terra e delle pressioni idrauliche. A questo si aggiungono la semplicità di costruzione e la perfetta integrazione estetico-paesaggistica nell'ambiente rurale o urbano. I muri in pietrame a secco hanno un impatto estetico sull'ambiente estremamente contenuto. Le tecniche costruttive, l'utilizzo della pietra locale come materiale da costruzione, la facilità di rinverdimento, spontaneo o ottenuto con tecniche di Ingegneria Naturalistica, permettono un buon inserimento delle opere nel contesto naturale in cui sono realizzate. Un mirabile esempio di perfetta integrazione tra natura e intervento umano è rappresentato dai terrazzamenti con muri a secco, realizzati sia per fini agricoli che di difesa del suolo in ambienti collinari e montani. Queste opere rappresentano uno dei migliori esempi di ingegneria ambientale e vanno quindi preservate e valorizzate. L'abbandono della sistemazione “a terrazze” dei versanti acclivi e la mancata manutenzione dei muri a secco rappresentano un serio pericolo per la stabilità di numerosi versanti terrazzati, oltre che per l'integrità stessa del paesaggio rurale. Queste strutture sono molto usate nelle costruzioni di infrastrutture di vario tipo, nelle zone dove oltre all’azione di sostegno dell’opera è necessario garantire la salvaguardia dell'ambiente dal punto di vista estetico-paesaggistico. I muri in pietrame a secco, trovano quindi la loro applicazione più diffusa in: - interventi di consolidamento e di difesa dall'erosione di versanti instabili mediante terrazzamenti e gradonatura; - interventi di difesa delle sponde dall'erosione fluviale (scogliere); - sistemazioni dei versanti “a terrazze” per il contenimento del terreno a scopi agricoli; - costruzioni di infrastrutture di vario tipo. Scogliere rivegetate Le scogliere intasate con terra e rivegetate sono opere di sostegno ottimamente impiegate per il contenimento al piede di versanti e scarpate. Per la posa in opera vengono utilizzati escavatori, in grado di movimentare blocchi di elevate dimensioni (oltre 1 m3). L’elevazione avviene attraverso la formazione di uno o più strati successivi, alternando i blocchi più grandi con quelli più piccoli, al fine di ottenere il miglior incastro possibile e la massima stabilità della struttura. Dopo la formazione di ogni ordine di massi, occorre stendere strati di terra al fine di ottenere l’intasamento degli spazi vuoti tra i massi e consentire l’insediamento della vegetazione. Le operazione di rivegetazione saranno realizzate attraverso inerbimenti manuali o idrosemine e potranno essere impiegate anche talee o piantine di specie arbustive e arboree. A tal proposito è opportuno mettere a dimora il materiale vegetale durante la costruzione dei vari strati, avendo cura di non danneggiarlo con la posa di materiale pietroso. Dove è previsto l’impiego di materiale arboreo o arbustivo, la scogliera dovrà essere costituita, nel senso della profondità, da un solo strato di massi: sarà possibile quindi rivegetarla anche dopo la sua costruzione, inserendo nei vani materiale di diametro idoneo (con la tecnica delle talee a chiodo1). Queste strutture sono caratterizzate da una buona deformabilità in quanto assorbono gli assestamenti del terreno e hanno una buona capacità di drenaggio. Gabbioni I gabbioni (o gabbionate) sono strutture costituite da elementi affiancati e sovrapposti in modo da formare una struttura modulare, sono dei parallelepipedi in rete di acciaio zincato. Tali strutture 48

prefabbricate vengono successivamente riempite di pietrame e terreno. Sono opere deformabili e permeabili all’acqua e alla vegetazione, con funzioni di di sostegno e drenaggio, impiegate negli interventi di consolidamento e sistemazione di versanti instabili e in altri settori dell’ingegneria civile. Per il riempimento dei gabbioni possono essere utilizzati i materiali lapidei e disponibili in loco o nelle vicinanze, purché abbiano caratteristiche granulometriche e peso specifico tali da soddisfare le esigenze progettuali e garantire l'efficienza dell'opera. I materiali più comunemente usati sono costituiti da materiale detritico di grandi dimensioni (meglio se con misure diversificate, in modo da minimizzare gli spazi vuoti), alluvionale o di cava (ciottoli, pietrame). Dal punto di vista statico i gabbioni agiscono come un muro a gravità, opponendosi col proprio peso alle sollecitazioni cui sono sottoposte. I gabbioni sono delle strutture permeabili, resistenti ed allo stesso tempo molto flessibili in grado di resistere, senza gravi deformazioni dei singoli elementi, ad assestamenti o cedimenti del piano di posa o del terreno a tergo dovuti a fenomeni erosivi, a fenomeni franosi o a scosse sismiche. La struttura modulare e la forma degli elementi conferiscono all'opera una notevole capacità di adattamento alle diverse conformazioni del terreno, specie in territori collinari o montani o in interventi di sistemazione in alveo e difese spondali, consentendo la realizzazione di opere anche di ridotte dimensioni ed in zone di difficile accesso. Sono quindi una valida soluzione per la realizzazione di opere di sostegno in diversi contesti, da quello urbano a quello fluviale e collinare montano, dove occorre tener conto sia delle esigenze tecniche per le quali l'opera è stata costruita, sia della necessità di avere un buon inserimento ambientale. Le tecniche costruttive, i materiali, le caratteristiche tecniche e meccaniche intrinseche della struttura, la facilità di inerbimento e di sviluppo della vegetazione erbacea ed arbustiva consentono di mitigare l'impatto ambientale e gli effetti negativi di natura estetica sul paesaggio circostante, favorendo, al tempo stesso, il ripristino naturale e la formazione di ecosistemi locali. Le gabbionate sono impiegate come opere di sostegno e di contenimento in interventi quali: - pronto intervento per il ripristino in tempi brevi della viabilità o altre infrastrutture interrotte; - sistemazione e stabilizzazione di pendii in frana, regimazione idrica superficiale e ricostituzione della copertura vegetale; - protezione delle sponde fluviali dall'erosione ed arginature, realizzazione di briglie per la regimazione dei corsi d'acqua torrentizi; - muri di sostegno, di sottoscarpa e di controripa nella costruzione di varie infrastrutture stradali e ferroviarie; - barriere paramassi o paravalanghe.

[1] L’infissione di talee a chiodo è una tecnica di messa a dimora della vegetazione, da attuare su scarpate, versanti o sponde. È previsto l’impiego di talee di grosse dimensioni (50 cm-1m) da posare a seguito di un rimodellamento del terreno. La sequenza operativa prevede: 1. realizzazione di prefori di posa con barre metalliche di grande diametro, 2. inserimento delle talee nei fori, 3. infissione delle talee in profondità con l’uso di una mazza, 4. rifilatura della talea. Queste tipologie di talee possono essere impiegate anche come ancoraggio di reti in fibra naturale assieme ad ancoraggi metallici, ottenendo quindi una maggior rivegetazione del versante (http://www.regione.piemonte.it/ambiente/tutela_amb/dwd/tecniche_sistemazione.pdf).

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Materassi I materassi in rete metallica rinverditi o con tasche vegetali sono strutture comunemente utilizzate per il rivestimento e la protezione dall'erosione di sponde fluviali e di scarpate molto ripide. Sono utilizzati in tutte le situazioni in cui sia necessario rinaturalizzare superfici rocciose ripide su cui un riporto di terreno non stabilizzato risulterebbe non efficace. Sono realizzati con rete metallica a maglie esagonali, in acciaio e alluminio e generalmente plastificate. Questi sistemi sono utilizzati negli interventi di sistemazione, ripristino ambientale e consolidamento dei pendii e delle scarpate in materiali granulari o roccia, privi di terreno vegetale, e caratterizzati da pendenze molto alte, superiori ai 35° - 40°. I rivestimenti con materassi rinverditi sono impiegati frequentemente nella protezione e nel rinverdimento di scarpate naturali, come pareti rocciose, o artificiali, come ad esempio scarpate di rilevati ferroviari o stradali. Per la difesa spondale di alvei e impluvi vengono eseguite opere idrauliche trasversali (briglie e soglie) e opere idrauliche longitudinali come il consolidamento delle sponde mediante scogliere, muri cellulari, gabbioni, palificate e coperture diffuse. OPERE IDRAULICHE TRASVERSALI Briglie e soglie Si tratta di opere di sbarramento e consolidamento di alvei naturali, regolazione di corsi d’acqua e controllo del trasporto solido. Le briglie in legname e pietrame sono tipologie che erano molto utilizzate anche in passato quando si utilizzavano principalmente materiali reperibili sul posto. Sono costruite con un cassone di contenimento di pali in legno scortecciato di larice o castagno con diametro superiore a 20 cm, e successivamente riempite con pietrame, anche reperito sul luogo. Sono dotate di buone caratteristiche di assorbimento degli assestamenti (causati dal possibile movimento delle sponde) e possono essere costruite in luoghi anche di difficile accesso. La protezione che si realizza a valle della briglia per evitare fenomeni di scalzamento, è generalmente pavimentata con pietrame o travi di legname. La protezione deve, ovviamente, interessare anche le sponde per una adeguata altezza. La vita di queste opere, con riferimento alla durabilità del legname, può superare i 30 anni, in base al tipo di essenza e dipendentemente dal fatto che mantenga un grado di umidità abbastanza costante. Per quanto concerne le dimensioni, è bene non superare i 2 m circa di altezza. Queste strutture sono utilizzate per: - stabilire e correggere il profilo di fondo di alvei e impluvi; - trattenere il materiale solido; - rallentare la corrente. Esistono delle varianti costruttive alternative alla tipologia di briglia più semplice. Già nella seconda metà del secolo scorso, infatti, si è sviluppata la tecnica di costruire briglie dotate di ampie aperture aventi la funzione di lasciare passare solo il materiale più fine trattenendo il materiale grossolano. Queste strutture oggi prendono il nome di briglie aperte, selettive o filtranti. Si distinguono due categorie di briglie aperte: quelle studiate per trattenere il trasporto solido di fondo e quelle impiegate per intercettare anche il materiale flottante.  Briglie per il trattenimento del trasporto di fondo (tipologie “a fessura” e “a finestre”): lasciano transitare le portate ordinarie, mentre in occasione delle piene provocano un 50

rigurgito che, rallentando l'acqua, causa la deposizione del materiale di medie e grandi dimensioni in carico alla corrente. Una volta esaurita la piena, la corrente di morbida asporta il materiale di dimensioni medie e lo ridistribuisce a valle. Questo fenomeno garantisce un’efficienza più prolungata delle opere e non altera eccessivamente il bilancio dei materiali trasportati dal corso d'acqua.  Briglie per il trattenimento di materiale flottante (tipologie “a reticolo” e “a pettine”): consentono di intercettare materiali come tronchi e ceppaie che creano problemi in occasione delle piene in corrispondenza dei ponti e tombini. A differenza delle opere precedenti, queste necessitano di una manutenzione immediata, al termine di ogni evento, in quanto vengono completamente ostruite dal materiale intercettato. Nelle briglie a pettine (Benini, 1990, Deymier et al., 1995) o soglie selettive, il corpo della briglia è completamente scomparso e viene sostituito da elementi tubolari, pali in legname o putrelle in acciaio, verticali, incastrati nella fondazione in calcestruzzo o pietrame. Sono utilizzate per trattenere materiale vegetale di grandi dimensioni e devono ovviamente essere mantenute pulite, pena il decadimento della funzionalità. Gli elementi di queste strutture possono essere soggetti a forti sollecitazioni di flessione, (considerando che la briglia può venire completamente riempita e che mancano elementi orizzontali in grado di assorbire parte della spinta). Per tale ragione questo tipo di struttura è poco adatto nel caso di impatto di colate detritiche. A differenza delle briglie, le soglie sono opere trasversali non sporgenti, hanno lo scopo primario di fissare nella sezione considerata il fondo dell'alveo circa alla stessa quota dell'alveo naturale. Le soglie possono essere impiegate sia nelle sistemazioni a gradonate che isolatamente, e trovano applicazione oltre che nelle correzioni dei torrenti nella stabilizzazione del fondo dell'alveo dei fiumi di pianura. Nel primo caso tra una soglia e l'altra, al succedersi delle piene e delle morbide, l'asportazione del prisma di materiale d'alveo compreso tra due soglie successive provoca una diminuzione di pendenza. Per quanto riguarda le dimensioni possono essere confrontate con le briglie, in quanto sono sottoposte a pressioni simili. Bisognerà tenere conto però degli effetti dell'erosione a valle, che può indurre movimenti nella struttura e scalzamento alla base se questa non è adeguatamente fondata. Questo tipo di opere possono essere costruite in calcestruzzo o con massi vincolati; l'uso di legname e pietrame si presta per costruire piccole strutture, utilizzate per fissare la quota di fondo di corsi d'acqua minori. Si può realizzare solo in condizioni in cui sia possibile infiggere i pali di legno nel terreno. OPERE IDRAULICHE LONGITUDINALI In ambiente alpino, dove l’attività torrentizia è caratterizzata da elevate capacità di trasporto solido e da tempi di corrivazione2 ridotti, c’è la necessità di consolidare le sponde dei corsi d’acqua e le strutture più adatte a questo scopo sono le scogliere in massi di cava. Alla tipologia di scogliera con massi cementati sono state recentemente preferite e sostituite tipologie che meglio si inseriscono nella fascia di vegetazione riparia e risultano essere più adatte al reinserimento paesaggistico.

[2] Si intende come tempo di corrivazione rispetto ad una determinata sezione di un corso d'acqua, il tempo necessario perché una particella d’acqua, caduta nel punto idraulicamente più lontano del bacino, possa far sentire il suo effetto nella sezione stessa. In altri termini è il tempo necessario perché una goccia d’acqua giunga dal punto più lontano del bacino alla sezione di misura.

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Le caratteristiche principali delle scogliere in massi di cava sono: - rivestimento della parete dello scavo con un geotessile non-tessuto al fine di migliorare il drenaggio della strutture; - la fondazione della scogliera deve essere molto approfondita, in quanto deve essere realizzata interamente al di sotto della quota d’alveo, e talvolta può venire intasata con calcestruzzo; - l’elevazione della scogliera deve essere realizzata in massi di adeguata pezzatura (da 0,3 a 1 m3) e di forma irregolare; - l’altezza non deve superare la quota della sponda naturale; - gli spazi tra i massi vengono riempiti con terra; - le sponde vengono inerbite con idrosemina; - le talee di specie arbustive ad alta capacità vegetativa vanno inserite nella porzione superiore della scogliera, al di sopra della quota corrispondente alle piene con un tempo di ritorno pari a 25-30 anni. Nel caso di portata tale da prevedere il rischio di sottoescavazione della struttura e conseguente scalzamento, si prevede la costruzione di un paramento sommerso in cemento armato. Un ulteriore accorgimento nelle scogliere munite di taglione, è di rivestire la parte anteriore dello scavo del taglione con pietrame, in modo da fornire un un’ulteriore difesa antierosiva. Anche le gabbionate sono una valida soluzione per la realizzazione di opere di sostegno sia in ambiti urbani che in zone naturali, dove è richiesto comunque un buon inserimento ambientale dell’opera. Le caratteristiche di queste strutture (tra cui la facilità con cui vengono colonizzate dalla vegetazione) consentono di mitigare l'impatto ambientale e gli effetti negativi sul paesaggio. Infine le palificate vive a doppia parete possono essere impiegate per la difesa spondale, sono particolarmente adatte ad interventi in ambiente montano e a morfologie spondali piuttosto irregolari. Sono utilizzate per sponde fluviali soggette ad erosione lungo corsi d'acqua ad energia medio-alta con trasporto solido anche di medie dimensioni; generalmente è sconsigliabile superare i 2-2.5 m di altezza. Quando si prevedono possibili problemi di scalzamento al piede viene realizzata una difesa con una fila di massi posti al piede della palificata, a contatto con l'acqua, legati con una fune d'acciaio o fissati con barre al fondo dell’alveo. Queste opere sono molto flessibili e non esercitano pressioni elevate sul terreno di fondazione. E' importante valutare con attenzione gli effetti che il trasporto solido può recare alla struttura e la possibilità di svuotamento da parete della corrente nel periodo che precede il pieno sviluppo della vegetazione. Per la stabilizzazione e il consolidamento delle superfici spondali, dopo un adeguato rimodellamento della sponda e uno scavo alla base, vengono inseriti astoni di specie arboree caratterizzate da elevata capacità vegetativa, allineati secondo la massima pendenza in modo da formare delle coperture diffuse. Lo strato di astoni viene fissato in modo aderente al terreno con paletti collegati tra di loro con fili metallici. Infine lo strato viene ricoperto da uno strato di terra agraria al fine di permettere lo sviluppo vegetativo delle specie vegetali. Per la ricostruzione dei versanti e per la difesa passiva dalla caduta massi vengono adottate le tecniche delle terre rinforzate. OPERE IN TERRA RINFORZATA La tecnologia delle terre rinforzate rappresenta un sistema di miglioramento delle caratteristiche del terreno, con origini antichissime (sembra che risalga a circa tremila anni fa, nel periodo dei Babilonesi). In tempi recenti sono state messe a punto e perfezionate nuove tecniche del rinforzo 52

delle terre. Il moderno concetto di terreno rinforzato è nato in Francia nel 1963 da un'idea dell’ingegnere Henry Vidal, che ha brevettato un sistema di costruzione di terra rinforzata denominato "terra armata". Negli anni settanta, per questa applicazione, hanno cominciato a diffondersi i geosintetici ed altre tecnologie, oggi ampiamente sperimentate in tutto il mondo. La terra rinforzata viene realizzata con la stesura geosintetici (geotessili tessuti o geogriglie) con funzione di contenimento per gli strati di terreno sovrapposti, in modo da ottenere una struttura a cuscini, e compattando il terreno in strati orizzontali spessi circa 20 cm, fino a generare un cuscino di terreno compattato dello spessore di circa 60 cm. Le lunghezze dei geosintetici di rinforzo (lunghezza di base, lunghezza del risvolto, altezza dello strato) dipendono dalle dimensioni della struttura e dalle condizioni di sollecitazione alle quali la stessa è sottoposta. Al fine di favorire la rivegetazione della terra rinforzata, la parte esterna viene rivestita con una rete in fibra naturale (generalmente in juta) e successivamente inerbita con idrosemina. La costruzione delle terre rinforzate deve essere preceduta dalla realizzazione di strutture di intercettazione e drenaggio di eventuali venute d’acqua, queste opere possono inoltre assumere diverse sagome e caratteristiche costruttive a seconda delle necessità. Le terre rinforzate vengono impiegate generalmente per la ricostruzione dei versanti, nel consolidamento strutturale alla base di pendii franati, nella realizzazione di paramassi e paravalanghe, barriere antirumore, rilevati di sostegno a infrastrutture stradali.

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2.9 – LA SCELTA DELLE SPECIE VEGETALI NEGLI INTERVENTI DI RIPRISTINO Ecologia Conoscere le esigenze delle specie vegetali è di grande importanza nella progettazione di interventi di ripristino, tuttavia non è necessario misurare tutti i fattori stazionali di un determinato sito poiché il fattore ecologico determinante è generalmente uno solo; i singoli fattori possono, inoltre, essere sostituiti da altri (ad esempio su pendii franosi, il fattore maggiormente determinante è l’elevata quantità di luce che arriva al suolo, questo risulta quindi determinante) (Schiechtl, 1991). Basandoci sui fattori pedologici si può osservare che, di solito, i terreni su cui intervenire non sono dei veri e propri suoli ma più spesso si tratta di substrati sterili, dove l’organizzazione in orizzonti è stata stravolta. È importante, in questi casi, valutare le proprietà fisiche e chimiche di tali terreni (granulometria, contenuto di aria e acqua, compattezza, pH, contenuto di sostanze nutritive). Sommariamente ci si può basare sul fatto che terreni ben aerati sono più favorevoli di quelli compatti in quanto la condensazione è migliore, i terreni compatti sono spesso troppo secchi o saturi d’acqua. Un’altra considerazione utile sui suoli è la presenza di carbonati, questi infatti generano temperature maggiori rispetto ai terreni silicatici, più compatti e argillosi (Schiechtl, 1991). Considerando il clima, il modo più veloce per ottenere una rapida indicazione è l’esame della vegetazione presente, in aggiunta possono essere esaminati i dati riguardanti la distribuzione delle precipitazioni, la presenza di periodi di siccità, la frequenza e l’intensità del vento, i periodi di gelo. I fattori biotici possono essere talvolta dannosi, in quanto influenzano la vegetazione nei primi stadi di sviluppo (pascolamento, calpestio); secondo Schiechtl, la presenza di individui vicini, in concorrenza, è invece un fattore che si presenta determinante negli stadi più evoluti ed è in grado di influenzare la vegetazione presente. Per scegliere le specie vegetali da impiegare nei ripristini si può ricorrere agli indici ecologici di Landolt (1977), con l’esame di tale bioindicazione si può ottenere rapidamente una serie di informazioni riguardo l’ambiente nel quale intervenire e capire a priori quali specie si adattano meglio alle condizioni presenti. Prendendo in considerazione i fattori di umidità del suolo, pH, intensità di luce, temperatura, ecc. si può capire quali specie si prestano maggiormente all’impiego nei diversi piani altitudinali. Si segnalano quindi le specie con valori che si discostano dai valori medi, al fine di indicare l’adattamento ad una certa condizione. Se non si dispone di indici ecologici o serie ecologiche si può prendere in considerazione l’ampiezza ecologica di una determinata specie. Le specie euriecie, ossia quelle a più grande ampiezza ecologica sono da preferire per gli interventi di ripristino poiché si ha una minor probabilità di effettuare scelte tecniche errate. Queste specie hanno ridotte esigenze trofiche, di umidità e di temperatura, hanno quindi un optimum ecologico più esteso. Alcuni esempi sono: Alnus incana, Betula pendula, Pinus sylvestris, Populus nigra, Salix caprea, Cornus sanguinea, Ligustrum vulgare, Rosa canina, Salix purpurea, Sambucus nigra tra gli alberi e arbusti, mentre tra le specie erbacee si ricordano: Tussilago farfara, Trifolium pratense, Trifolium repens, Lotus corniculatus, Dactylis glomerata, Achillea millefolium, Thymus serpyllum, Fragaria vesca, Festuca rubra, Anthyllis vulneraria, Taraxacum officinale, Arrhenatherum elatius, Gallium mollugo, Plantago lanceolata, Silene vulgaris, Agrostis alba, Urtica dioica, Melilotus albus, Luzula nemorosa, Lolium perenne, Poa pratensis, ecc. Le specie stenoecie, ossia le specie ad ampiezza ecologica ridotta, sono più esigenti riguardo le condizioni ambientali, tuttavia in alcuni casi è necessaria la loro presenza, in quanto importanti per una funzione di rinverdimento e copertura. Schiechtl individua tra alcune specie stenoecie le 54

seguenti: Salix glabra, Salix helvetica, Salix aurita, Alnus glutinosa, Alnus viridis, Pinus uncinata, Betula pubescens, Sorbus aria, Hippophäe rhamnoides, Viburnum lantana, Amelanchier ovalis, Coronilla emerus, Artemisia absinthium, Ononis spinosa, ecc. Queste specie possono essere utili nel caso si debba operare in particolari nicchie limite ad esempio in alta quota con temperature rigide sono utilizzabili specie stenoecie con optimum termico piuttosto basso (Betula pubescens e Pinus uncinata). Possibilità di propagazione La possibilità di propagazione delle specie vegetali è rappresentata dalle sementi, dalle talee (tramite riproduzione agamica) e dalle piantine (radicate, in contenitore, in pane di terra, ecc.). Per la scelta delle sementi si è riscontrata una tendenza ad operare con miscugli uniformi e poveri di specie, soprattutto nelle situazioni dove è richiesta una copertura uniforme (campi da golf), questi interventi richiedono cure continue e un’attenta gestione. Una vegetazione ricca e ben diversificata invece risulta essere più stabile e resistente, in letteratura è spesso sostenuta la tesi che più le condizioni in cui intervenire sono estreme, tanto più ricchi di specie dovrebbero essere i miscugli da utilizzare. Le motivazioni si possono ricercare nel fatto che le monoculture sono più fragili nel caso di attacchi patologici e che, essendo rare in natura, sono quindi indice di condizioni sfavorevoli. Altro aspetto importante dei miscugli per inerbimento è la quantità di seme. Bisogna tenere in considerazione innanzitutto le perdite dovute alla germinabilità ridotta, al trasporto da parte di vento e acqua e all’erbivoria. In genere la quantità di seme di un miscuglio di graminacee e leguminose è circa 35-40 g/m2 (Regione Piemonte, 2003), se la quantità di seme è eccessiva può verificarsi il soffocamento delle specie a crescita più lenta, mentre se la quantità è troppo bassa non vengono conseguiti gli obiettivi di copertura adeguata del suolo. La riproduzione per via agamica (talee e astoni) è uno dei metodi più antichi utilizzati per il rinverdimento di suoli grezzi. I fattori che determinano la radicazione delle talee sono la scelta della pianta madre, la temperatura, l’umidità, il substrato, la luce e le sostanze sintetiche fornite artificialmente. È da segnalare che un apporto intensivo di humus non fornisce buoni risultati (soprattutto con talee di salici) poiché le specie pioniere non necessitano di humus e poi perché con un maggior contenuto di humus si verifica una minor produzione di massa radicale, ossia l’opposto dell’obiettivo da raggiungere (Schiechtl, 1991). In seguito all’esperienza e ai numerosi interventi praticati, solitamente le talee migliori presentano lunghezze variabili e diametro superiore ai 2 cm: maggiore è il diametro e maggiori sono le riserve di sostanze nutritive che permetteranno alla pianta di affrontare il periodo di carenza nutrizionale e idrica successivo la messa a dimora (Regione Piemonte, 2003). Tra le specie vegetali utilizzate per interventi di Ingegneria Naturalistica in Piemonte, presentano buona facoltà di riproduzione per talea: Salix alba, Salix triandra, Salix myrsinifolia, Salix cinerea, Salix viminalis, Salix eleagnos, Salix purpurea, Salix rosmarinifolia, Salix daphnoides. Le specie Populus alba, Populus tremula, Populus nigra, Salix appendiculata, Salix hastata, Myricaria germanica hanno una media facoltà di riproduzione per talea. Risultano invece debolmente riproducibili per via agamica le seguanti specie: Corylus avellana, Alnus glutinosa, Crataegus monogyna, Rosa gallica, Rosa canina, Rosa micrantha, Calluna vulgaris, Berberis vulgaris, Sorbus aria, Amelanchier ovalis, Rosa arvensis, Rosa tomentosa, Cercis siliquastrum, Buxus sempervirens, Hippophäe rhamnoides, Cornus mas, Alnus viridis, Alnus incana, Ribes petraeum, Ribes uva-crispa, Ribes alpinum, Rosa pendulina. 55

Attitudini biotecniche Le attitudini biotecniche sono le capacità di una pianta di adempiere a particolari esigenze che si riscontrano nelle tecniche naturalistiche quali la capacità di resistenza alle sollecitazioni meccaniche (nei terreni franosi e in caso di erosione), la capacità di consolidamento del terreno attraverso l’apparato radicale e la resistenza allo strappo e al taglio delle radici (Schiechtl, 1991).  Capacità di resistenza alle sollecitazioni meccaniche Questa capacità è richiesta anche nei sistemi di costruzione più stabili, dove occorre tener conto, nei primi anni, dei movimenti sulla superficie del terreno, della caduta dei sassi e dell’abrasione della neve. In particolare le specie che sviluppano radici avventizie sopportano meglio l’oscillazione del livello del terreno, l’inghiaiamento e l’erosione. Le conifere, in particolare Pinus sylvestris e Pinus mugo presentano tali caratteristiche, soprattutto sono molto resistenti all’inghiaiamento del fusto. Altre specie resistenti sono gli arbusti Corylus avellana, Crataegus monogyna, Prunus spinosa e Sambucus nigra. Tra le piante non legnose, sono da ricordare Campanula cochleariifolia e Hieracium intybaceum entrambe specie pioniere, molto rustiche che popolano ghiaioni e detriti alpini. La maggior parte delle specie di Salix e Alnus glutinosa risultano essere resistenti anche alle colate di fango, in particolare Salix purpurea, S. eleagnos e S. nigricans a scapito della loro vitalità e della crescita. I salici possiedono la capacità di resistere non solo all’inghiaiamento ma anche all’erosione, infatti lungo i margini di fiumi e torrenti riescono a costituire associazioni stabili e molto più resistenti, ad esempio dell’ontano bianco (Alnus incana) che presenta un apparato radicale molto più superficiale. Sono resistenti all’erosione anche le seguenti specie: Petasites paradoxus, Silene vulgaris, Rumex scutatus, Rumex acetosella, Epilobium angustifolium, Rubus saxatilia, Trifolium badium, Thymus serpillum, Teucrium montanum, Campanula cochleariifolia, Euphorbia cyparissias, Hippocrepis comosa, Lotus corniculatus, Tussilago farfara e Anthyllis vulneraria. Le specie pioniere sono resistenti, in genere, anche in caso di caduta massi, alcune di queste sono: Acer pseudoplatanus, Alnus incana, Alnus viridis, Betula pendula, Berberis vulgaris, Corylus avellana, Fraxinus excelsior, Hippophäe rhamnoides, Juniperus communis, Lonicera xylosteum, Ligustrum vulgare, Pinus mugo, Populus tremula, Salix caprea, Salix daphnoides, Salix eleagnos, Salix purpurea, Sambucus nigra, Sorbus aria, Sorbus aucuparia, Epilobium angustifolium, Petasites paradoxus e Tussilago farfara.  Capacità di consolidare il terreno Tale capacità è un risultato derivante dalla forma dell’apparato radicale, dalla massa radicale e dall’intensità della radicazione. Si ritrovano queste caratteristiche nelle specie ruderali e pioniere che colonizzano morene, macereti e pendii franosi. In questi ambienti le specie più frequenti sono Abies alba, Acer campestre, Acer platanoides, Acer pseudoplatanus, Alnus glutinosa, Alnus incana, Betula pendula, Carpinus betulus, Fagus sylvatica, Larix decidua, Fraxinus excelsior, Pinus sylvestris, Populus tremula, Quercus petraea, Quercus robur, Tilia cordata, Ulmus minor. Date le loro caratteristiche si può ipotizzare un loro utilizzo nel consolidamento dei pendii, valutando che alcune specie però non riescono a radicare su terreni minerali ma richiedono humus e terreni pedologicamente maturi.  Resistenza allo strappo delle radici Schiechtl fornisce tra le sue osservazioni anche un elenco di specie particolarmente resistenti allo strappo delle radici, esse sono: Acer pseudoplatanus, Anthyllis vulneraria, Artemisia absinthium, Artemisia campestris, Artemisia vulgaris, Berberis vulgaris, Clematis vitalba, Coronilla varia, Dryas 56

octopetala, Gypsophila repen, Ligustrum vulgare, Lotus corniculatus, Medicago sativa, Medicago lupulina, Prunus spinosa, Rosa pendulina, Rubus caesius, Rubus idaeus, Rumex scutatus, Sanguisorba minor, Silene vulgaris, Trifolium repens e tutte le specie di salici. Queste specie possono essere utilizzate negli interventi di Ingegneria Naturalistica. L’importanza dei salici (Salix sp.) in Ingegneria Naturalistica. Le specie del genere Salix possiedono particolari caratteristiche che ne permettono l’impiego nelle eco-tecnologie. la nicchia ecologica occupata dai salici è quella delle specie pioniere, sono quindi adattati a crescere in condizioni poco vantaggiose, senza richiedere condizioni ottimali di suolo, crescono rapidamente una volta stabilite in un determinato sito e sono intolleranti all’ombreggiamento. La propagazione è inoltre facilitata dalla lunga stagione vegetativa. Tra le caratteristiche agronomiche riscontrate nei salici, si ritrovano il rapido tasso di crescita, l’elevata produzione di biomassa (in particolare Salix viminalis), una buona capacità di ceduazione, la tolleranza ad elevate densità (fino a 10.000-20.000 esemplari/ha se disposti in doppie file), l’altezza raggiunta (Salix alba, S. excelsa e S. nigra possono raggiungere altezze di circa 20-25 m), una buona capacità di radicazione e propagazione vegetativa e un’elevata densità delle radici. Le caratteristiche fisiologiche sono rappresentate da un alto tasso di traspirazione (che spiega l’utilizzo dei salici per la rimozione di inquinanti e nel controllo idraulico nel suolo), un elevato tasso di assorbimento di nutrienti e alto uso di azoto, una bassa necessità di nutrienti nel suolo, la resistenza a contaminanti chimici e ad elevate quantità di anidride carbonica e metano nella zona radicale, la resistenza agli inquinanti atmosferici, l’accumulo di metalli pesanti e un efficiente trasporto dell’ossigeno all’apparato radicale. Le caratteristiche ecologiche dei salici sono rappresentate dall’adattamento a difficili condizioni ambientali. Sono tolleranti alla siccità, al calore, al congelamento, all’inondazione (infatti sono i primi colonizzatori di sponde fluviali), all’esposizione delle radici, all’ipossia del suolo, a relativamente alta salinità (Kuzovkina e Volk, 2009), all’erosione e all’inghiaiamento (Schiechtl, 1991). Queste caratteristiche, oltre alle ottime capacità di propagazione per talea già citate, ammettono largo uso dei salici soprattutto nelle tecniche di Ingegneria Naturalistica al fine di controllare l’erosione e proteggere le strutture (maggiore stabilità nelle palificate) (fig. 2.19), in campo agroforestale, nella depurazione e bonifica dei suoli e in phytoremediation (Kuzovkina e Volk, 2009). Schiechtl (1991) fornisce un preciso dettaglio con le serie ecologiche di salici da impiegare in diverse situazioni: Serie ecologica di Salix, secondo l’aridità crescente: - piano basale: Salix viminalis – S. fragilis – S. cinerea – S. repens – S. triadra – S. alba – S. petandra – S. nigricans – S. daphnoides – S. eleagnos – S. caprea – S. purpurea. - Piano collinare e montano: Salix petandra – S. cinerea – S. nigricans – S. daphnoides – S. repens – S. appendiculata – S. hegetscheweileri – S. glaucosericea – S. helvetica – S. hastata – S. aurita – S. mielchhoferi – S. foetida – S. breviserrata – S. alpina – S. glabra – S. laggeri – S. waldsteiniana – S. eleagnos – S. purpurea. Serie ecologica di Salix, con grado di pH crescente del suolo: Salix herbacea – S. repens – S. aurita – S. cinerea – S. petandra – S. glaucovirens – S. elvetica – S. hegetscheweileri – S. viminalis – S. hastata – S. nigricans – S. caprea – S. appendiculata – S. triandra – S. alba – S. serpyllifolia – S. alpina – S. breviserrata – S. retusa – S. daphnoides – S. purpurea – S. eleagnos – S. waldsteiniana – S. glabra. 57

Serie ecologica di Salix, secondo la temperatura crescente: Salix herbacea – S. reticulata – S. retusa – S. waldsteiniana – S. foetida – S. alpina – S. breviserrata – S. hastata – S. helvetica – S. laggeri – S. appendiculata – S. hegetscheweileri – S. mielichhoferi – S. glabra – S. triandra – S. aurita – S. cinerea – S. alba – S. fragilis – S.viminalis.

Fig. 2.19. Salici maggiormente utilizzati nell’Ingegneria Naturalistica (Regione Piemonte, 2007). Tab.: impiego dei salici nell’Ingegneria Naturalistica: percentuali di attecchimento e limiti altitudinali (Regione Piemonte, 2007).

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Specie % attecchimento per talea Limiti altitudinali (m) Salix alba L. 75 1.000 Salix myrsinifolia Salisb. 75 1.700 Salix eleagnos Scop. 70 1.100 Salix daphnoides Vill. 90 1.800 Salix purpurea L. 100 1.600 Salix cinerea L. 75 1.300 Salix viminalis L. 90 600 Salix caprea L. 5 1.300

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2.10 – COMPONENTE VEGETALE: PRINCIPALI PROBLEMATICHE E CRITICITA’ Reperimento e qualità delle sementi Un metodo per ristabilire la vegetazione originaria di un sito è usare i propaguli presenti nella parte superficiale del suolo e della lettiera del sito in questione o di un altro sito simile e vicino. L’apporto di suolo può essere vantaggioso anche per ristabilire la fauna microbica presente prima di un disturbo. Numerosi studi hanno evidenziato una diversità tra la composizione della vegetazione e la banca semi del suolo, anche in assenza di disturbo. Questo perché nel suolo si accumulano specie dominanti nelle varie fasi delle successioni del sito, inoltre va considerata la diversa sopravvivenza dei semi nel suolo (Davy, 2002). Le ricerche scientifiche e l’esperienza pratica suggeriscono che è di rilevante importanza l’utilizzo di sementi adattati alle condizioni locali del sito di intervento. Le popolazioni di sementi locali si presentano spesso vantaggiose ai fini del restauro e i genotipi non locali sono maladattati alle condizioni locali. Inoltre l’ibridazione intraspecifica tra genotipi locali e non locali può avere impatti negativi sulla struttura genetica delle popolazioni future. Identificare le fonti di sementi appropriate è quindi un’impresa difficile date le differenze tra le varie popolazioni. È anche importante considerare le differenze genetiche del materiale introdotto al fine di evitare incroci non desiderabili e impoverimento della popolazione vegetale (Vander Mijnsbrugge et al., 2010). La condizione ottimale per un restauro sarebbe l’utilizzo delle sementi locali, materiali raccolti sul sito di intervento, fiorume, questo però non sempre è possibile, si ricorre quindi alle sementi commerciali. In commercio sono disponibili molti semi di specie presenti in natura, ma vanno usati con cautela a causa delle variazioni genetiche e del loro sito di provenienza (Davy, 2002). Oltre alla variabilità genotipica, un altro problema che riguarda i semi è la loro conservazione, infatti andrebbero utilizzati entro un anno dalla loro raccolta. Alcuni metodi per prolungare la loro preservazione è l’essiccazione graduale a temperature tra 15 e 18 °C con il 15-10% di umidità relativa, successivamente vengono confezionati ermeticamente in pacchetti e conservati a temperature comprese tra -18 e -20 °C. questo metodo è spesso utilizzato per la conservazione dei semi di molte specie di Carex (Budelsky e Galatowitsch, 1999). Esistono anche dei trattamenti appositi per migliorare la capacità di germinazione. Un metodo efficace e poco costoso è l’uso di bagni con acqua per alcune ore al fine di permettere l’imbibizione. I trattamenti pre-semina sono utili per interrompere la dormienza e agevolare una germinazione sincrona dei diversi semi utilizzati (Davy, 2002). Fattori di alterazione del legname Soprattutto nelle opere di stabilizzazione che fanno largo uso di legname è frequente il verificarsi di eventi di degrado o alterazione del materiale utilizzato. I fattori abiotici di alterazione sono principalmente gli agenti atmosferici quali umidità, temperatura, radiazione solare. Se la luce solare ha un effetto sul colore e sull’aspetto delle strutture, l’umidità costante e prolungata può provocare fenomeni di rigonfiamento e ritiro, fessurazioni ed esfoliazioni che facilitano l’attacco di batteri e funghi. L’alterazione abiotica è più frequente nelle opere che interessano i corsi d’acqua. Altre alterazioni sono causate dai danni meccanici come la rimozione o degradazione del tondame, indebolimenti strutturali, infiltrazione di acqua nella zona sottostante la struttura con conseguente sifonamento, asportazioni di terreno e svuotamenti. Queste alterazioni danno come risultato disarticolazioni delle opere, ribaltamenti delle strutture, scalzamento al piede, spostamenti e cedimenti compromettendo la stabilità e quindi la riuscita dell’intervento. 59

Le alterazioni di tipo biotico sono causate da lesioni meccaniche da parte di animali. Gli insetti xilofagi sono la causa principale di attacchi al legname, causando gallerie ed escavazioni anche in materiali sani e scortecciati. I batteri possono causare modificazioni strutturali mediante l’alterazione delle pareti cellulari, l’attacco si esplica con processi di erosione e cavitazione all’interno del legno, con conseguente aumento della permeabilità del materiale. Inoltre il contatto con il suolo permette l’intervento dei funghi quali agenti degradatori. L’attacco si evolve con l’azione di muffe che causano alterazioni cromatiche, seguite da funghi lignivori e muffe secondarie. I principali problemi che compromettono la riuscita di un intervento con tecniche di Ingegneria Naturalistica si possono ancora ritrovare in possibili fallanze del materiale vegetale messo a dimora, sia di specie arboree che erbacee, con una ridotta copertura vegetale del suolo. Soprattutto nei primi anni, le opere vanno controllate al fine di verificare il corretto sviluppo del materiale vegetale. Nel caso si verifichino deperimenti o morte dei vegetali questi vanno sostituiti, sono da prevedere anche interventi di inerbimento successivi per migliorare la copertura erbacea. La corretta gestione è importante sia per un attività di monitoraggio a lungo termine sia per la rapida riparazione di eventuali danni alle opere, al fine di non compromettere totalmente l’intervento (Regione Piemonte, 2003, 2007).

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2.11 – LA COLONIZZAZIONE DELLE SPECIE ESOTICHE INVASIVE Definizione e status delle specie esotiche Per specie esotica (sinonimi: introdotta, non indigena, alloctona, xenofita) si intende una specie introdotta dall’uomo deliberatamente o accidentalmente, al di fuori del suo ambito di dispersione naturale (Celesti-Grapow et al., 2009). In base all’epoca di introduzione (residence status) le specie alloctone possono essere suddivise in:  archeofite: specie vegetali alloctone introdotte prima del 1.492, ossia prima dell’era del colonialismo europeo seguita alla scoperta dell’America; convenzionalmente questa data è approssimata al 1.500;  neofite: specie vegetali alloctone introdotte dopo il 1.492, anche in questo caso la data è convenzionalmente approssimata al 1.500. Una volta introdotte in un determinato contesto territoriale estraneo al loro areale d’origine le specie aliene possono sviluppare diverse strategie di adattamento al nuovo ambiente di vita. Una specie può essere classificata come casuale, naturalizzata o invasiva (Richardson et al., 2000; Pyšek et al., 2004):  casuale: specie aliena che può fiorire o riprodursi occasionalmente in un’area ma che non forma popolamenti in grado di autosostenersi e che quindi per persistere ha bisogno di ripetute introduzioni;  naturalizzata: specie aliena che si riproduce in maniera consistente e genera popolazioni in grado di sostenersi per molti cicli vitali senza intervento umano; le specie naturalizzate generalmente producono un buon numero di plantule, non lontano dalle piante adulte e non necessariamente invadono ecosistemi naturali, seminaturali o artificiali;  invasiva: specie naturalizzata la cui introduzione e/o diffusione minaccia la biodiversità e/o causa gravi danni anche alle attività dell’uomo e/o ha effetti sulla salute umana e/o serie conseguenze socio-economiche. Una volta introdotte in un nuovo ambito territoriale, la capacità di diffusione delle specie esotiche è legata alla capacità della stessa a superare una successione di barriere (riproduttive, ambientali, ecc.) (fig. 2.20). Si tratta di un processo dinamico che si realizza attraverso una successione di fasi: - Casualità: nel momento in cui una specie riesce ad introdursi in un determinato ambiente ma non riesce a superare le barriere riproduttive ed ambientali presenti resterà nelle condizioni descritte per le specie casuali. - Naturalizzazione: superamento delle barriere riproduttive. I periodi di latenza tra queste prime due fasi possono essere di durata variabile, si interpretano come periodi di adattamento alle nuove condizioni ambientali e dipendono dalle caratteristiche genetiche (Kowarik, 1995). - Invasione: le specie acquistano capacità di dispersione e diffusione, possono essere limitate agli ambienti antropizzati o insinuarsi in ambienti semi-naturali o indisturbati. In questo stadio si ha una diffusione in breve tempo di ampie superfici.

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Fig. 2.20. il processo di invasione e il superamento delle varie barriere. Superando la barriera A (geografica) una specie si può definire casuale, dopo il superamento della barriera C (riproduttiva) viene definita naturalizzata e solo dopo il superamento dei barriere ambientali (E e F) diventa invasiva (Richardson et al., 2000).

Solo una minima frazione delle specie che l’uomo introduce in maniera volontaria o involontaria in una nuova regione riesce a diffondersi in modo tale da essere considerata invasiva. Questo ristretto contingente di specie segue la regola denominata “tens rule” (Williamson e Fitter, 1996). Secondo questa teoria infatti solo il 10% delle specie introdotte sfugge alla coltura, di queste solo il 10% riesce a costituire popolamenti stabili e a naturalizzarsi e solo il 10% delle naturalizzate diventa invasiva (es. da 1000 specie esotiche introdotte, 100 diventano casuali, 10 diventano naturalizzate e 1 diventa invasiva). Impatti delle specie esotiche vegetali sull’ambiente La presenza di specie invasive è considerata una delle principali cause di perdita di biodiversità a livello globale (Convezione per la Diversità Biologica, 1992) e le invasioni biologiche sono tutt’ora considerate uno dei principali componenti dei cambiamenti globali (Mooney e Hobbs, 2000). L’alta capacità invasiva delle specie alloctone è data dalla combinazione di diverse caratteristiche biologiche ed ecologiche che ne definiscono il profilo. Esse sono caratterizzate da una crescita rapida e da un’elevata produzione e capacità di dispersione di propaguli (propagule pressure), sono in grado di costituire estese e dense colonie tramite la moltiplicazione vegetativa e molte presentano allelopatia. L’ampiezza dell’areale originario è notevole, ciò è dovuto alla loro elevata plasticità ecologia e fenotipica. Per quanto riguarda le specie esotiche invasive vegetali, si riportano qui di seguito in sintesi i principali impatti e criticità: 

danni ambientali: l’impatto delle specie invasive nel nuovo ambiente può portare ad una graduale degradazione ed alterazione dell’habitat e al declino delle specie native a volte fino all’estinzione, portando ad una diminuzione della biodiversità. Gli impatti delle specie 62





invasive sulle specie native possono avvenire attraverso meccanismi diversi: la competizione per le risorse, l’ibridazione con specie native, la trasmissione di malattie; danni economici: le specie aliene invasive possono avere impatti negativi di diversa natura sugli interessi economici. Ad esempio, le piante aliene invasive riducono la produttività dei raccolti, aumentano i costi di controllo e diminuiscono la disponibilità idrica; danni alla salute pubblica: alcune specie aliene presentano caratteri di nocività per la salute dell’uomo in quanto producono sostanze che possono provocare reazioni allergiche, anche gravi, tramite contatto e/o per inalazione (ad es. Heracleum mantegazzianum o Ambrosia artemisiifolia).

Specie esotiche in Italia La flora vascolare alloctona d’Italia consiste di 1.223 specie e sottospecie che crescono spontaneamente sul territorio nazionale. Esse appartengono a 544 generi fra cui i più ricchi di specie sono Oenothera, Amaranthus e Opuntia, e a 138 famiglie fra cui le più rappresentate sono Asteraceae, Poaceae e Rosaceae. La notevole eterogeneità del territorio italiano è una delle principali cause di questa ricchezza di specie, che costituiscono il 13,4% della flora italiana, attualmente stimata intorno alle 7.600 entità. La maggioranza delle entità esotiche ha origine americana (387 specie), euroasiatica (366), africana (99) o proviene da altre regioni del bacino del Mediterraneo (62). Le specie di recente introduzione (neofite) sono 920, le antiche introduzioni (archeofite) sono 103. Sono da aggiungere a queste specie altre 40 circa, considerate alloctone dubbie. Un elevato contingente di specie (437) è costituito da presenze casuali, mentre le naturalizzate sono 524. Tra queste 163 sono state classificate come invasive. Anche se si tratta in prevalenza di piante legate ad habitat antropizzati e quindi frequenti in gran parte del territorio, alcune specie invasive sono diffuse solo in alcuni settori del Paese, ad esempio continentale o mediterraneo. Altre hanno distribuzione estremamente localizzata (fig. 2.21). Più della metà delle specie invasive è costituita da piante acquatiche. L’individuazione di queste entità assume particolare importanza perché possono essere sottoposte a piani di controllo prima che si diffondano in territori molto più vasti. Per 62 specie non si hanno segnalazioni successive al 1950, non è escluso però che ulteriori indagini ne riveleranno la presenza in futuro, si tratta probabilmente in gran parte di entità che non si sono naturalizzate e quindi sono scomparse. Questo permette di ribadire che il processo di naturalizzazione e di invasione è un fenomeno in costante evoluzione nel tempo e che il numero di specie per ciascuna categoria subisce continui cambiamenti a seconda che nuove piante vengano introdotte, si naturalizzino, diventino invasive o al contrario scompaiano (Celesti-Grapow et al., 2010).

Fig. 2.21. Distribuzione e status di naturalizzazione delle specie alloctone della flora italiana secondo il sistema CORINE Land Cover (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2009).

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Distribuzione in Piemonte Per quanto riguarda il territorio regionale piemontese, le condizioni geomorfologiche e conseguentemente quelle climatiche ed antropiche determinano la presenza di un elevato numero di specie alloctone. In base alle informazioni desumibili per il Piemonte dal censimento sulla flora alloctona del territorio italiano (Celesti-Grapow et al., 2009. Celesti-Grapow et al., 2010) ed in base al progetto “Analisi territoriale regionale sulle piante invasive e sui rapporti con la flora autoctona per il mantenimento della biodiversità: allestimento di documenti cartografici e di una collezioni di semi e frutti.” realizzato su incarico della Regione Piemonte dal Dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università degli Studi di Torino (Siniscalco, Barni e Bouvet, 2010) la flora alloctona regionale può essere stimata in 371 entità (10.5% della flora vascolare piemontese). Si tratta comunque di un dato sottostimato ed in continua evoluzione a causa del rilevamento di nuove specie e all’evoluzione della composizione della flora piemontese. La composizione della flora alloctona per il territorio piemontese può essere così sintetizzata: - Asteraceae (44), Poaceae (36), Rosaceae (27), Brassicaceae (21) e Fabaceae (19) sono le famiglie con il maggior numero di entità alloctone; - Amaranthaceae e Balsaminaceae sono famiglie che presentano sul territorio piemontese quasi esclusivamente entità alloctone; - alcune famiglie sono maggiormente rappresentate dalla flora alloctona rispetto a quella autoctona: Solanaceae, Rosaceae, Onagraceae, Lythraceae, Polygonaceae, Scrophulariaceae; - numerose famiglie, come Caryophyllaceae, Lamiaceae, Ranunculaceae, Orchidaceae, Apiaceae, Campanulaceae e Primulaceae, sono ben rappresentate nella flora autoctona piemontese mentre sono assenti o quasi dalla flora alloctona; - i generi con il numero di esotiche più elevato sono: Amaranthus (11), Oenothera (11), Cyperus (9) e Prunus (8); - delle 371 entità esotiche, 17.3 % sono archeofite e 82.7 % neofite; - la maggior parte delle specie esotiche in Piemonte ha un areale di distribuzione primario in America (42,6%), in Asia (26,1%) o Eurasia (9,2%); - netta predominanza di specie con habitus erbaceo (79%) mentre sono scarsamente rappresentate le specie legnose a portamento arboreo (12%) arbustivo (8%) e lianoso (1%); - più della metà (54,7%) delle specie alloctone segnalata in Piemonte è presente come casuale (157 specie) oppure risultano ancora più effimere in quanto non più segnalate dopo il 1.950 (46 specie). La restante parte delle specie esotiche (45,3%) si è affermata stabilmente sul territorio regionale come naturalizzata (28,6%) ed invasiva (16,7%). Le specie alloctone non sono distribuite uniformemente sull’intero territorio regionale, ma sono concentrate principalmente nelle aree planiziali dove il fitto intreccio di vie di comunicazione e di corsi d’acqua, che si presenta particolarmente sviluppato in pianura, costituisce una rete preferenziale di diffusione e di insediamento di numerose specie esotiche sia annuali, sia perenni. La presenza di specie alloctone si riduce progressivamente all’aumentare della quota fino a raggiungere in ambito alpino una distribuzione localizzata: su 371 esotiche totali, infatti, sono segnalate solo 25 entità per la regione biogeografica alpina.

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2.12 – SPECIE ESOTICHE E INTERVENTI DI RIPRISTINO Il restauro ambientale degli ecosistemi naturali mira al recupero della loro massima autenticità storica ragionevolmente possibile e quindi il contenimento o l'eradicazione delle specie esotiche dai siti d’intervento è auspicabile. Come è spiegato nei fondamenti del restauro ecologico della S.E.R. (2002), nei paesaggi culturali, le specie esotiche sono spesso una parte integrante dell'ecosistema, in particolare, sotto forma di colture e di bestiame d’allevamento, ma anche sotto forma di specie ruderali o segetali che, probabilmente, si sono coevolute con quelle domestiche. In un restauro colturale questo tipo di specie esotiche può essere mantenuto. Negli ecosistemi naturali, invece, le specie esotiche invasive normalmente competono con quelle indigene, sostituendole. Tuttavia, non tutte le specie esotiche sono dannose. Infatti, alcune di esse svolgono anche la funzione ecologica che prima era svolta dalle specie indigene, diventate rare o scomparse. In alcuni casi, nel progetto di restauro sono introdotte piante non autoctone per uno scopo specifico, per esempio, impiegandole come colture di copertura, di protezione o fissatrici dell'azoto, con funzione di nurse species. Il programma di restauro deve però prevedere la rimozione finale di queste specie. Una volta ripristinato un sito, anche eradicando tutte le specie esotiche, la possibilità di un loro ritorno può restare alta: va prestata attenzione alla vulnerabilità dei siti ripristinati in quanto possono essere ricolonizzati dalle specie aliene provenienti da siti circostanti anche con la dispersione ad opera di uccelli (Vidra e Shear, 2008). Di conseguenza, è essenziale adottare per ciascuna specie esotica presente una specifica politica d’azione, fondata realisticamente su dati biologici, economici e logistici. È preferibile dare la massima priorità al controllo o intervenire con l’eradicazione delle specie che costituiscono una minaccia. Tra queste, sono da comprendere le specie vegetali invasive che sono particolarmente mobili, che quindi costituiscono una minaccia ecologica alla scala di paesaggio e dell’intera zona, e le specie animali che consumano o soppiantano le specie indigene. L’invasione di specie vegetali è comunque un problema associato a qualsiasi disturbo o danno apportato all’ecosistema e ad ogni tentativo di manipolazione della comunità vegetale locale (Davy, 2002), quindi il controllo delle specie aliene è spesso correlato con le pratiche di restauro ecologico e talvolta è l’obiettivo principale del ripristino. Sono molti gli esempi di ripristini ambientali condotti al fine di contenere le specie esotiche, sia in comunità vegetali terrestri, sia in zone umide, sia in comunità acquatiche. Per esempio in uno studio di Le Maitre et al., (2011) sono state prese in esame le Acacie australiane, specie invasive in Sud Africa, Portogallo e Chile, si è visto che il fattore determinante di queste invasioni è il suolo: in particolare la banca semi di specie native e il livello di nutrienti. Si è visto che in alcuni casi l’elevato livello di nutrienti sul suolo facilita invasioni secondarie. In alcuni casi gli incendi sono consigliati come un metodo per il controllo, ma in questo studio si è osservato che gli incendi giocano un ruolo critico in quanto aumentano il tasso di invasione, oltre che provocare danni ai terreni e uccidere i semi dormienti delle specie native, con conseguente inibizione del recupero autogeno del sito di intervento. Il restauro mediante l’eliminazione e l’eradicazione può essere molto costoso ma efficace, talvolta anche il controllo biologico può essere un metodo efficace. In alcune pianure giapponesi, invece, si cerca di tutelare Aster katoensis, una rara specie erbacea nativa che vive negli ambienti fluviali frequentemente disturbati. Recentemente gli interventi di rettificazione fluviale con conseguente perdita di habitat e la competizione con specie invasive alloctone hanno decretato il declino della rara specie nativa. La prima azione consigliata per ripristinare questa specie è distribuire i semi in habitat di nuova creazione, che devono essere 65

ghiaiosi. Poi, dato che la colonizzazione di specie esotiche in ambienti ghiaiosi è molto rapida, bisogna prevedere interventi di estirpazione delle specie indesiderate, non solo per tutelare la Aster katoensis, ma anche per una corretta gestione degli habitat fluviali (Washitani, 1998). Tra le specie esotiche problematiche in questi ambienti sono da ricordare Solidago altissima e Ambrosia trifida. In particolare Ambrosia trifida (specie originaria del Nord America) predilige gli ambienti golenali, minacciando quindi la ricchezza di specie tipica di queste zone. L’unico modo per contrastare la sua diffusione è l’eradicazione delle piantine: è stato dimostrato infatti che questa specie ha un elevata capacità di colonizzazione a partire dalla banca semi del suolo. Sarebbe consigliato rimuovere circa il 95% delle piantine che si sviluppano nell’area al fine di proteggere l’habitat (Miyawaki e Washitani, 1996). Per il contenimento di specie esotiche e un ripristino ecologico con le adeguate specie native talvolta non basta considerare l’influenza della specie indesiderata, ma occorre porre attenzione anche all’interazione con le specie native. In Brasile, nelle foreste di Araucaria angustifolia, il problema dell’invasione di Pinus taeda è accentuato dall’azione di due specie native, Baccharis uncinella e Vernonia discolor, entrambe pioniere. Si è visto che Pinus taeda presenta una colonizzazione maggiore in associazione con la specie nativa Baccharis uncinella, che inoltre inibisce la proliferazione di Araucaria angustifolia. Invece, in associazione con Vernonia discolor, la specie esotica mostra un notevole declino, mentre Araucaria angustifolia è indifferente. Questo caso studio mostra come le associazioni spaziali possono rivelare importanti modelli di sviluppo della comunità oggetto di restauri. Per un restauro ottimale è consigliato incoraggiare la crescita di Vernonia discolor e trapiantare giovani esemplari di Araucaria angustifolia in spazi aperti e fertilizzati, nel contempo per contrastare Pinus taeda, oltre alla sua rimozione è auspicabile ridurre la densità di Baccharis uncinella (Ganade et al., 2011). Gli interventi di controllo delle specie esotiche sono i più difficili da mantenere. Esistono alcune strategie di controllo: - la rimozione fisica è una pratica laboriosa ma spesso non ha bisogno di essere ripetuta. In casi dove è presente una continua germinazione di specie aliene dalla banca semi del suolo, alcune rimozioni possono essere sufficienti per eliminare le specie indesiderate e raggiungere una copertura adeguata delle specie native desiderabili. Il taglio delle parti aeree di alcune specie invasive che spesso formano dei cloni, raramente ne causa l’eliminazione, tuttavia, come nel caso della felce invasiva Pteridium aquilinum, un taglio frequente ne diminuisce drasticamente la densità (Davy, 2002). - Gli erbicidi sono disponibili in grandi varietà e tipologie, sono diversi per composizione, modalità di azione, specie-specificità e persistenza nell’ambiente (Anderson, 1996). Certe sostanze con una tossicità relativamente bassa per gli altri organismi e una bassa persistenza nel suolo sono largamente accettati ed approvati. Un esempio di questi è il glyphosate, un erbicida non selettivo, utilizzato per distruggere le specie invasive annuali e perenni senza rischio per il suolo, quindi senza rischio di stimolare successive germinazioni dalla banca semi del suolo. A lungo termine le specie vegetali invasive tendono a ricolonizzare l’area trattata e aumentare la loro abbondanza dopo l’uso di erbicidi, a meno che non venga organizzato un programma che comprenda altre misure di controllo. Riguardo gli erbicidi fogliari come il glyphosate, Annen (2006) sostiene che, mentre questo erbicida inibisce la crescita superiore, in realtà non presenta alcun effetto sulle gemme dormienti, talvolta la morte delle gemme apicali stimola una ricrescita delle gemme dormienti, come accade per la graminacea di zone umide Phalaris arundinacea. 66

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Il controllo biologico è una metodologia che consiste nell’utilizzo di microorganismi patogeni e insetti fitofagi. Inizialmente la tecnica è appropriata quando una specie aliena diventa invasiva in quanto mancano i suoi naturali predatori e patogeni. Il pericolo di un’introduzione di potenziali patogeni e predatori non è trascurabile anche perché il comportamento di tali specie può variare in un nuovo ambiente, vista la maggior disponibilità di potenziali ospiti. Meno controverso e rischioso è l’uso di patogeni fungini, in quanto presentano un’elevata specificità per l’ospite (Davy, 2002). In aggiunta a questi tre metodi principali, D’Antonio (2002), suggerisce l’impiego degli incendi programmati al fine di contenere specie dannose come nella zona del Golden Gate National Area, in California, per il controllo della specie indesidareata Genista monspessulana, in aree distanti dalle zone residenziali. Altro metodo per contenere le specie esotiche è la manipolazione della fertilità del suolo. Dove sono presenti specie esotiche con un’elevata necessità di azoto, si può intervenire con l’aggiunta di carbonio, diminuendo così la disponibilità di azoto nel suolo. Il carbonio stimola la crescita della popolazione microbioca e questa immobilizza l’azoto al suolo, ne risulta quindi un suolo meno ricco in azoto con una minor crescita di specie nitrofile esotiche a favore delle specie native (Wilson e Gerry, 1995). Le specie esotiche occupano quindi un ruolo importante negli interventi di ripristino. In primo luogo, la loro presenza o dominanza può essere il motivo della necessità del ripristino; secondo, le specie aliene sono le prime ricolonizzatrici dopo un disturbo anche se non erano presenti prima; terzo, lasciano nel sito un'eredità dopo la rimozione che rende il ripristino a lungo termine notevolmente complicato. Questa eredità è rappresentata dalla banca semi sepolta nel suolo o dall’alterazione chimico-fisica apportata all’habitat. Infine, le specie esotiche possono essere utilizzate per ripristinare particolari funzioni ecosistemiche nel caso in cui le specie native non fossero disponibili (D’Antonio, 2002). La maggior parte degli argomenti relativi alla resistenza contro le invasioni esotiche sono basati sul presupposto che la competizione è la principale forza che determina la composizione una comunità vegetale e che la creazione di gruppi di piante altamente competitivi dovrebbe impedire un'ulteriore invasione (Tilman, 1997). Tuttavia anche gli animali nativi possono facilitare l’invasione con le loro attività di scavo o di dispersione, ciò suggerisce che l'obiettivo di creare comunità resistenti alle invasioni ad una scala al di sopra del metro quadrato non può essere realistico (D’Antonio, 2002). È necessario inoltre tenere presente gli elevati costi di gestione che richiedono alcuni programmi di controllo. Sulla base di questi principi bisogna riflettere sul fatto di accettare le specie esotiche o di utilizzarle negli interventi di ripristino. Talvolta infatti la condanna delle specie invasive può essere controproducente ai fini di un restauro, se la loro presenza non minaccia eccessivamente un ambiente, le specie esotiche possono essere tollerate o addirittura utilizzate vantaggiosamente. Secondo Ewel e Putz (2004) l'uso di specie esotiche non è appropriato in tutti gli interventi di restauro, ma la loro presenza deve essere tollerata e talvolta ci sono anche circostanze in cui possono giocare ruoli ecologici positivi. Talvolta le specie esotiche hanno pochi impatti sul processo di restauro e alcune di possono svolgere un ruolo importante nel mantenimento della comunità o di sviluppo. Sono presentate molte funzioni che possono essere svolte dalle specie aliene a favore dell’obiettivo di ripristino: svolgono funzioni di protezione e sono nurse-species (ad esempio come riparo dalla radiazione luminosa troppo intensa o creando barriere fisiche di fitti arbusti che scoraggiano l’accesso di animali erbivori); sono coinvolte nell’approvvigionamento dei semi (ad esempio i cespugli e gli alberi che prolificano in zone aperte possono fornire riparo e protezione agli 67

uccelli che disperdono i semi necessari per il restauro) (Holl, 1998; Carriére et al., 2002). Le specie esotiche possono anche essere utilizzate come legna da ardere, favorendo man mano l’insediamento della vegetazione nativa; sono utili al fine di assicurare un determinato sito di intervento (le specie aliene che formano dense colonie possono aiutare a ridurre le invasioni da altre specie esotiche) (D’Antonio e Mack, 2001), anche Clewell (1996) sottolinea che alcune specie di Lolium (esotiche negli Stati Uniti) sono utilizzabili nel mantenimento dei siti poiché il loro semi germinano rapidamente e sono allelopatiche, una proprietà che può essere utile al fine di evitare l’invasione successiva di altre specie più problematiche. Altra funzione che può essere svolta dalle esotiche è la phytoremediation, infatti possono talvolta essere utilizzate per restaurare suoli e acque sottoposte ad usi scorretti quali smaltimento di rifiuti tossici o arricchimento di nutrienti, per esempio si è visto che la specie tropicale Pteris vittata è un’iperaccumulatrice di arsenico (Ma et al., 2001). Talvolta è stato osservato che la rimozione di specie esotiche può risultare una minaccia per le specie native, in alcune zone le specie aliene utilizzate nel restauro costituiscono un importante habitat per le specie autoctone, altrimenti non comuni o in declino e in alcuni casi la rimozione porta ad ottenere una condizione peggiore (D’Antonio, 2002).

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