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27 giu 2012 ... ne di Istria nobilissima a Portorose, di Giovanni Allevi, detto anche ... Giovanni Nino Serdoz, fondatore .... Segue un testo scritto dal mae-.
LA VOCE DEL POPOLO

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il pentagramma

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De festivalibus et de vanitatibus di Patrizia Venucci Merdžo

Gentilissimi, il corrente mese, ormai agli sgoccioli, è stato tutto un traffico di eventi artistico-culturali legati sia al Festival “Kvarner”, che alle celebrazioni di San Vito, al Festival Opatija e all’apertura delle “Notti estive di Fiume”. Nel segmento musicale non sono mancate nemmeno le stars del crossover internazionale. Al “Kvarner” ha fatto la su apparizione Nigel Kennedy, detto anche Nigel Gonzales per il suo Vivaldi fatto a trecento all’ora. D’accordo, virtuoso del violino e tutto quanto; peccato però che stravolga il carattere e polverizzi l’atmosfera magica delle pagine del “Prete rosso”. Quindi, alla Scena aperta di Abbazia, c’è stato Maksim Mrvica, detto anche Maksim il Bello. Sembra uscito direttamente dallo scalpello di Michelagnolo: tipo “David” versione matura, e un po’ punk. Peccato si sia miserevolmente rovinato il plastico avambraccio sinistro con una quantità esagerata di tatuaggi. Se ci mette un po’ più di cuore (che non è solo una pompa) in Chopin, ha tutto da guadagnare. C’è stato poi il turno, in occasione della premiazione di Istria nobilissima a Portorose, di Giovanni Allevi, detto anche Giovanni il Modesto; che nella sua...modestia intende compiere “un parricidio intellettuale” nei confronti della musica classica così come Platone fece rispetto al pensiero di Parmenide. Parole sue. Ma cosa vuole “parricidiare” ‘sto giovanotto! Continui con la sua musica d’intrattenimento, se gli pare, e cerchi di non vendere troppo fumo! Se gli riesce. Poi c’ è la questione dei festival di stagione. Quello di Fiume è stato aperto da certi signori – i “Pujo” – che

“annaspavano” per aria a suon di rumoracci psichedelici, mentre la gente di sotto se la filava alla chetichella. “È un festival fatto senza soldi”, ha comunicato la soprintendente. Questo lo abbiamo capito. Assente del tutto il segmento cameristico. Quelli della metropoli però – alla faccia della crisi – se la passeranno alla grande alle “Serate al Grič”. Diciannove concerti di tutti i generi con musicisti croati ed ospiti stranieri, in un mese circa. Costerà quattro milioni e mezzo l’“Estate spalatina”, di cui 800.000 kune la prima del “Nabucco” e alcuni concerti. (Avranno lo zio americano?, o il Teatro di Spalato ha una propria Zecca a disposizione?) Si spera, per gli spalatini, che tutta sta montagna di soldini sarà spesa bene. Devo ammettere, che in tempi di disoccupazione dilagante, di gente che lavora senza percepire un soldo e di pensionati alla fame, certe cifre spese in “progetti culturali” che non di rado suscitano perplessità, mi fanno una certa impressione. È un autentico gioiello di musica da camera – sebbene comprenda pure la partecipazione di due orchestre sinfoniche – il festival zaratino “Le serate musicali a S. Donato”. Dieci concerti con compagini di musica medievale, rinascimentale, barocca (e non solo) di altissimo livello e di reputazione internazionale – tra cui i “Dialogos“ istruiti dall’ apprezzatissima medievalista e cantante zaratina Katarina Livljanić - con copie di strumenti antichi, che nella loro arcaica armonia di suoni e di voci si spanderanno e faranno vibrare le mura medievali del suggestivo luogo di culto, evocando antiche,

ma nel contempo sempre nuove sensazioni e dimensioni dello spirito! Che invidia! Che invidia! Che invidia! Un momento di primo piano nell’ambito della settimana della cultura fiumana – oltre al bel concerto del Maestro Giulio Mercati in San Vito, offerto dal Consolato generale d’Italia a Fiume e dalla CI di Fiume – è stata la serata in onore di Nino Serdoz, l’ illustre Maestro fiumano stabilitosi a Roma nel secondo dopoguerra, e la presentazione della monografia a lui dedicata e pubblicata dalla Società di Studi Fiumani di Roma. Maestro di ampia cultura – aveva studiato e suonato con i vari Tyberg, Kubelik, ad Abbazia e a Trieste, assimilando quel raffinatissimo mondo musicale mitteleuropeo –, di grande sensibilità e umanità, aveva fondato l’associazione “Giuseppe Tartini” e l’omonima Orchestra da camera, diventando un punto di riferimento per la capitale italiana. I Maestri di una volta erano speciali. Avevano una cultura del cuore, un atteggiamento di servizio e di religioso innamoramento verso la Musica stupendi, e, già paghi della loro alta “missione” non agivano pensando ad onori e glorie. Oggi la “carriera” la si “costruisce”. Efficienti, professionali, istruiti nella creazione del loro “image”, pronti a fare le “capriole” davanti alla telecamere, con i loro manager, i direttori d’orchestra contemporanei di solito “producono” musica di buona “qualità”. Eppure, assai spesso viene a mancare quel palpito dell’umano, quella scintilla superiore che rendono veramente grande la Musica. Festivalieramente Vostra

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A LA RECHERCHE DE LA MEMOIRE PERDUE L’opera e la vita dell’illustre Maestro fium

Serdoz e la sua Orchestra «Giuseppe Tarti di Helena Labus Bačić

«N

ino Serdoz e l’Orchestra Tartini” è il titolo della monografia, edita nel 2011 dalla Società di studi fiumani di Roma – presentata alla CI di Fiume in occasione della “Settimana della cultura fiumana” - nella quale viene ricordato un personaggio di grande importanza per la cultura italiana e per la scena musicale romana in particolare: il maestro Giovanni Nino Serdoz, fondatore dell’Orchestra “Giuseppe Tartini” e – come viene rilevato nell’introduzione firmata dal presidente della Società di studi fiumani, Amleto Ballarini – “l’anima di Fiume che riviveva in esilio“. Il maestro Serdoz nacque a Fiume il 7 maggio del 1909. Rimasto senza genitori in giovane età, visse la propria infanzia con gli zii Antonia e Stefano. Abitò nel quartiere di Braida, in via Manzoni. Frequentò la Scuola di Musica fiumana, per continuare in seguito la sua formazione al Conservatorio “Tartini” di Trieste, dove studiò violino e viola con il maestro Augusto Serrazanetti. Studiò contrappunto e composizione con il maestro Marcello Tyberg e scrisse numerosi saggi di critica e di estetica musicale per vari quotidiani. Fu autore del libro “Famiglia ideale”, un trattato di strumentazione per ragazzi, e lavorò pure come consulente musicale esterno presso il Centro di Produzione TV di Roma. Ma soprattutto, fu fondatore e direttore dell’Orchestra d’Archi “Giuseppe Tartini” di Roma. È appunto questa sua appassionata attività artistica – sono ben 682 i concerti, coronati da straordinari successi, che tenne con la sua orchestra – che gli procurò la nomina di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. I suoi concerti erano caratterizzati da un repertorio raffinato e originale, impreziositi dalla partecipazione di solisti di fama internazionale.

Suonò sotto la bacchetta di Franz Lehar A Fiume, il talento di Serdoz venne presto riconosciuto e gli venne affidata la direzione dell’orchestra del GUF, l’unica organizzazione universitaria sostenuta e ammessa dal regime di allora. Il giovane maestro ebbe successo anche nella vicina Abbazia, dove si distinse alla guida del quartetto d’archi insieme a Wanda Tiberg, Mary Klinz Kubelik ed Elsa Claricini. Sempre ad Abbazia suonò nella sala di Villa Angiolina sotto la direzione del grande Franz Lehar, “quella bacchetta magica e quel compositore destinati a diventare quasi leggenda fino ai nostri giorni”.

Il 20 aprile 1941 sposò nella chiesa dei Cappuccini Liliana Callimici, abitando poi con lei in via Pomerio fino al dopoguerra. A Fiume nacque nel 1942 la figlia Marisa e dopo l’esodo, a Roma nel 1951, il figlio Roberto. La musica divenne una voce di consolazione, fonte di una vita nuova, il che portò alla fondazione, nel 1950, dell’Associazione “Tartini” e dell’Orchestra d’Archi “Giuseppe Tartini”. L’associazione nasce come attività culturale musicale, ricostituita dagli esuli fiumani-giuliani-dalmati. Superate con grande tenacia varie difficoltà, arrivano i primi successi. Grazie all’oculata scelta dei brani in repertorio, svolge un’attività concertistica di alto livello. “L’ispiratore, l’ideatore, il fondatore è lui, il maestro Nino Serdoz”. L’orchestra si dimostra un complesso di ragguardevole livello per la seria professionalità degli strumentisti.

Speficità della «Tartini» fu un intelligente contributo alla rinascita di pagine rare della musica cameristica del XVIII secolo, pagine talora quasi sconosciute eppure bellissime

L’alto livello dell’Orchestra «Tartini» Scrive il maestro stesso della sua orchestra: “Evidente nelle esecuzioni di insieme un’impeccabile dosatura delle sonorità e del ritmo, una fusione perfetta, una musicalità frutto di impegni interpretativi validi perché ogni strumento sa sottomettere il proprio estro alle esigenze di un perfetto equilibrio artistico”. I concerti di successo si susseguono a Roma e in altre città italiane e l’orchestra raccoglie consensi di critica e di pubblico per oltre quarant’anni. È particolarmente apprezzata per la sua riscoperta di un vasto repertorio barocco troppo a lungo ignorato. “Caratteristica della ‘Tartini’ fu infatti un intelligente contributo alla rinascita di pagine rare della musica cameristica del XVIII secolo, pagine talora quasi sconosciute eppure bellissime. Inconsueti gli autori, le scelte di programma, inconsueti anche gli organici. Denominatori comuni di questi concerti, tutti barocchi, la grazia, la freschezza delle composizioni, la ricchezza di idee musicali. Grandi i riconoscimenti della stampa per questa operazione culturale di ampio interesse. Grandi i consensi del pubblico”.

Rivalorizzazione pionieristica di un prezioso repertorio barocco La “Tartini” esegue con rigorosa disciplina artistica musiche rare e preziose, quasi sempre escluse dai programmi musicali correnti, proprio grazie alla brillante direzione del maestro Serdoz, alla sua raffinata scelta del repertorio e alla sua sen-

La profonda umanità del Maestro E’ ancora intriso di profonda emozione il ricordo di Alexandra Stefanato: “Ricordo con grande commozione il mio primo concerto come solista con orchestra, diretto dal Maestro Giovanni Serdoz e lo ringrazio ancora oggi per la grande fiducia accordatami in quell’occasione. Egli mi diede così la possibilità di presentarmi nella chiesa di San Marco in Piazza Venezia e Roma a soli 18 anni, appena diplomata. Mi fu affettuosamente vicino durante le prove, paziente e prodigo di preziosi consigli. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza per questo. Quel concerto rimane il ricordo più emozionante della mia vita e segnò l’inizio di molte altre partecipazioni all’attività della Società Tartini. Proseguendo nella vita professionale posso dire di non aver più incontrato nel mondo musicale una Personalità così carismatica e come me molti colleghi della mia generazione. Caro Maestro, ci manchi molto”.

sibilità di artista. Gli autori eseguiti dall’organico sono numerosissimi e spaziano dal ‘500 fino ai giorni nostri. L’orchestra, come già rilevato, coinvolge solisti di fama internazionale, tra i quali sono da menzionare il celebre violoncellista Massimo Amfitheatrof, il flautista Severino Gazzelloni, il violinista Salvatore Accardo, la pianista Ornella Puliti Santoliquido, il violinista Uto Ughi, e via dicendo. Uno dei momenti che testimoniano il prestigio dell’orchestra e del suo direttore è il concerto che ha visto come solista il violoncellista Massimo Amfitheatrof. “Con un programma dedicato preferibilmente ai compositori del ‘600 e del ‘700, l’archetto di Amfitheatrof, noto nei maggiori teatri del mondo, manda in visibilio il pubblico presente, sol-

levando vivo entusiasmo soprattutto in alcuni passaggi di ardua maestria: il suo violoncello canta, ora sommesso, ora seducente, ma sempre in perfetta armonia con l’orchestra e nella magia avvolgente di Serdoz la cui direzione mette in chiaro la tecnica brillante, la preziosità dei suoni, la chiarezza dei disegni, l’armonia sublime dell’insieme”.

Suonare davanti alla regina d’Olanda Nel secondo centenario della morte di Giuseppe Tartini, il maestro Serdoz non venne meno all’appello e presentò in repertorio suggestive composizioni dell’autore istriano, tra le quali anche trascrizioni per archi di alcuni brani. Un’operazione tecnica, questa, che rivela un se-

rio impegno artistico e una profonda competenza musicale. La stagione 1978-’79 si chiuse con un eccellente concerto del Trio d’Archi “Rondò“ che vide in veste di solista il violista fiumano Francesco Squarcia, protagonista di altri concerti memorabili. Uno degli eventi di maggior rilievo nella ricca storia dell’Orchestra “Tartini“ è il concerto a Porto Ercole: “Una folla enorme, cinquecento e seicento persone; è presente anche la regina d’Olanda. Il concerto rivela una ineccepibile preparazione che non conosce difficoltà tecniche, un affiatamento encomiabile tra gli strumentisti, una preparazione superba dell’oboista Gianfranco Pardelli e una direzione chiara, autorevole, brillante: quella del maestro Nino Serdoz“.

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mano Giovanni Nino Serdoz, in una monografia edita dalla Società di studi fiumani di Roma

ini», l’anima di Fiume che riviveva in esilio

«Un’impeccabile dosatura delle sonorità e del ritmo, una fusione perfetta, una musicalità frutto di impegni interpretativi validi perché ogni strumento sa sottomettere il proprio estro alle esigenze di un perfetto equilibrio artistico»

Giovanni Nino Serdoz si spense il 10 ottobre del 2004.

Il racconto monografico di una vita all’insegna della musica

La monografia annovera pure una breve intervista, svolta sempre dal presidente della Società di studi fiumani, Amleto Ballarini, con il figlio del maestro Serdoz, Roberto. Si susseguono quindi pagine che illustrano la fervida attività del complesso diretto da Serdoz, i ricordi commoventi di musicisti con i quali collaborò, quindi articoli di tante testate che testimoniano il grande successo dell’orchestra.

Si ispirò alla prestigiosa Società di Concerti di Fiume

Segue un testo scritto dal maestro stesso in occasione del 40.esimo della fondazione dell’Orchestra “Tartini“, nel quale ricorda gli inizi modesti del complesso, che nacque da un quartetto d’archi e crebbe con il tempo per diventare una prestigiosa orchestra. Numerose sono le fotografie che testimoniano l’attività della “Tartini“, mentre un capitolo della monografia è dedicata ai numerosi solisti di fama internazionale che collaborarono con il maestro Serdoz. Vi è incluso pure un elenco, seppure incompleto, delle composizioni eseguite dall’orchestra nel corso degli anni. Infine, è giusto concludere con le parole dello stesso maestro, scritte

in occasione del quarantesimo della fondazione dell’Orchestra “Tartini“, nelle quali ricorda il ruolo imprescindibile della prestigiosissima Società di Concerti di Fiume che – come rileva lo stesso maestro – fu presa come modello per l’Associazione Musicale “Giuseppe Tartini“.

D’Annunzio: «A Fiume la musica è un’istituzione statuale»

“Allo stato attuale emerge una particolarità: il vibrare di sentimenti di una propaggine, la ‘Tartini’, saldati ad antiche radici culturali verso la lontana immagine di ciò che fu un tempo la Società di Concerti di Fiume. Ispirarsi a quel prestigioso modello, dal quale riesumare per talea, non sbiadita invero, una mnemonica carta carbone nel contesto di una continuità ideale, questo, sì, è stato l’humus smisurato di stimoli che ha portato la ‘Tartini’ al 40.esimo appuntamento annuo con la musica. In una lettera indirizzata ad Arturo Toscanini, Gabriele D’Annunzio, parlando di Fiume, scriveva: ‘ una città dove la musica è un’istituzione statuale...’. Ed era vero. Fiume, città di frontiera, era il punto d’incontro dei maggiori esponenti del concertismo internazionale mittel ed est europeo; mostri di sapere e di dire musica, dei loro concerti gli anziani ricorderanno la ‘completezza’ tecnica e la ‘totalità’ del suono che scaturivano dai loro preziosi strumenti in programmi emergenti dalla profondità della loro letteratura musicale“.

«La direzione di Serdoz mette in chiaro la tecnica brillante, la preziosità dei suoni, la chiarezza dei disegni, l’armonia sublime dell’insieme», così la critica

L’affettuoso ricordo di Francesco Squarcia Il noto violista connazionale Francesco Squarcia ebbe occasione di suonare sotto la bacchetta del Maestro Serdoz e di Lui conserva ancora un vivissimo ricordo: “’Cantate... cantate!’ era la ricorrente sollecitazione che il Maestro, Giovanni Nino Serdoz, mentre scandiva il tempo con la bacchetta, pronunciava con voce calda e partecipe, rivolgendosi ai musicisti interpreti, durante lo svolgersi delle sessioni di concertazione e preparazione agli innumerevoli concerti con la Sua orchestra d’archi “Giuseppe Tartini” che prendeva

appunto il nome dall’omonima associazione musicale fondata da lui a Roma. […] Davvero l’Associazione Musicale “Giuseppe Tartini” è stata a Roma, per molti decenni, un punto di riferimento costante e di primissimo piano nel panorama musicale della città. Vi hanno collaborato i più prestigiosi solisti ed interpreti vari del mondo italiano e non ed il Maestro Serdoz con un repertorio a vasto raggio ha saputo valorizzare anche autori meno noti, ma non per questo meno importanti. Mi considero un privilegiato

per aver avuto l’opportunità di collaborare e dare il mio contributo all’Associazione sia come membro dell’insieme strumentale che come solista; ne sono orgoglioso e davvero ancora riconoscente anche per aver trovato in quell’ambito un angolo di autentica “fiumanità”. […] Le pagine di storia musicale che il caro Nino Serdoz ha scritto sono indelebilmente scolpite nella realtà di Roma capitale e lasciano oltre ad un congruo patrimonio di cultura, anche un unicum fatto di schietta, sincera, profonda, affettuosa umanità.”

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ARS ANTIQUA Qualche esempio d’interpretazione moderna delle fonti di musica me

Pregiudizi e storture esecutive di un ra patrimonio tutto da riscoprire di Nicoletta Gossen

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Altre interpretazioni non si ac- mentale che restituisce il testo mocontentano di questo, ma cercano nodico in forma ornamentata. Un di arricchire la ballata aggiungendo flauto dolce di bambù è chiamato ad voci strumentali o allungando la du- ornare la monodia originale. È inrata del brano con pre-, inter- o po- dubbio che la scelta dello strumento stludi strumentali, come ad esempio solista dipenda dalle idee dell’internella registrazione del gruppo Mi- prete sul medioevo. Forse involontariamente l’effetto prodotto è quelcrologus del 1988. Su un accompagnamento di per- lo di certe musiche di meditazione in cussioni, cerca di emergere una voce voga negli anni Ottanta (New Age). forte e un po’ monotona. Durante Un’interpretazione simile rafforza tutto il brano, il tamburo riproduce nell’uditore l’idea di un medioevo Pregiudizi rispetto una pulsazione regolare. Le finezze mistico e meditativo. L’esecuziodell’originale mensurale vengono ne lascia anche pensare alla musica al medioevo letteralmente “abbattute” dall’uni- giapponese o indiana, creando ancora un ponte fra musica medievale e Sia gli interpreti, sia il pubbli- formità del nuovo ritmo. co hanno un’immagine preconcetta dell’epoca che noi, in mancanza di un termine più preciso, chiamiamo “medioevo”. Dall’umanesimo in avanti, attraverso l’illuminismo, il romanticismo francese o tedesco e i movimenti di revival del medioevo che si sono avvicendati fino ai giorni nostri, molto è stato detto e scritto sul medioevo. E tutto questo ha lasciato le sue tracce sul fruitore odierno, che eredita i cliché di un medioevo primitivo, mistico, crudele, ingenuo e “oscuro”, come viene più sovente aggettivato. Più di una volta mi è stato chiesto, ad esempio: “Ma nel medioevo, esisteva già la musica?”. E se nel 2003 su un giornale svizzero un lettore dichiarò che era ora di finirla con questa “tecnologia medievale dell’energia nucleare”, va da sé che il termine “medioevo”, per estensione, venga ormai associato a tutto ciò che suona inadeguato ai tempi, vetusto, persino ridicolo. I fruitori della musica medievale, L’ Amor Cortese cioè interpreti, pubblico e l’industria la cosiddetta world music. Questa discografica possiedono una propria La «rumoreggiante» incisione mette in rilievo due aspetti immagine del medioevo, proprie musica popolare dell’immagine moderna del medioaspettative su ciò che immaginano evo: l’aspetto mistico-meditativo e essere la musica medievale e questa del Trecento l’aspetto esotico, tralasciando cometerogeneità di immagine si rifletLa sonorità di questa incisione pletamente l’elemento fondamentate sulla pratica musicale attuale. Lo stesso brano può presentarsi in un evoca quella di certa musica popo- le: il testo. Adattamenti al gusto moderno modo completamente diverso a se- lare. L’associazione musica medioeNel 1995, il gruppo “Microloconda delle scelte del gruppo che lo vale-musica popolare è molto diffuesegue. Paradigmatico è il caso del- sa, poiché si tenta di trovare nella se- gus” riprese “Lucente stella” facenla ballata monodica “Lucente stella conda ciò che si ignora nella prima, do precedere la melodia originale da che’l mio cor desfay”, tramandata- ossia come suonava. Specie nell’am- un brano strumentale, inventando un ci da un’unica fonte, sul folio 22 del bito dell’interpretazione della musi- contrappunto ritmicamente monocosiddetto Codice Rossi (Bibliote- ca italiana del Trecento è diffuso un tono e un postludio assai lungo alla ca Vaticana, Rossi 215), risalente al simile orientamento. Nella musico- fine. Invece della recitazione mo1370 circa, che contiene musica ita- logia questo fenomeno ha una lun- nodica di una poesia, si ascolta una liana anonima profana, monodica e ga tradizione. Durante il suo discor- composizione polifonica contemso di rettorato a Göttingen nel 1930, poraneo-medievale, neo-medievapolifonica. Ludwig osservò: “Accan- le. Il ritmo mensurale dell’originaCanto monodico come Friedrich to alla gracile e raffinata arte polifo- le viene semplificato in un modello nica dei madrigalisti italiani, un’im- ritmico ripetitivo dell’accompagnarecitazione poetica petuosa corrente di canto popolare- mento strumentale. La tipica forma Il testo di “Lucente stella” si in- sco religioso rumoreggia nell’Italia della ballata in cinque parti – ripreserisce stilisticamente nella tradizio- del Trecento”. È di quella “corrente sa, due piedi, volta e seconda ripresa ne del Dolce Stil Novo. Nel secon- di canto” che si nutrono le interpre- – diventa un modello tripartito: indo piede della ballata “gli atti tuoi tazioni quando non si tratta di gra- troduzione, parte principale, postluprometton salute a chi si specchia cile polifonia ma appunto di musi- dio, una sorta di forma classica, più nel tuo bel viso”, la donna idealiz- ca monodica del Trecento. Ludwig a familiare agli uditori. Invece di prozata porta salute e quindi conoscen- sua volta si appoggiava ad una certa porre una delle immagini stereotipaza a chi si riconosce nel suo viso. tradizione. Già Raphael Georg Kie- te del medioevo, l’esecuzione adatta L’amore come via della salute. Que- sewetter nel 1838 alludeva alle “me- il brano al gusto moderno, offrendo sta è l’idea fondamentale dell’amor lodie popolareggianti” dei trovie- all’uditore un modello di riferimencortese. In questo senso “Lucente ri francesi del Duecento e chiamò i to a lui più vicino, quello classico. Le tre interpretazioni che abbiastella”, nonostante le inflessioni ve- canti dei trovatori “veri canti poponeziane rivelate dal testo, non è po- lari”. Se oggi la musica medievale mo sentito mostrano tre idee diffeesia popolare. È importante ricorda- è interpretata in chiave popolareg- renti dello stesso brano originale. re che il canto monodico nel corso giante, però, non lo si deve né a Lu- La libertà nella scelta si spiega con del medioevo è prima di tutto una dwig né a Kiesewetter, ma alle com- le lacune sulla pratica musicale del recitazione poetica e questo impli- parazioni fra melodie popolaresche Trecento. Certuni hanno però la tenca che l’interpretazione musicale si moderne di varie regioni e un certo denza ad esagerare queste lacune per orienti sul testo. Un’interpretazione repertorio medievale. È facile im- giustificare le proprie scelte stilistiche si basa sul manoscritto, che non maginarsi quanto questo possa risul- che. Vorrei citare ad esempio alcune frasi di un’intervista rilasciata da è nient’altro che una linea melodica tare problematico. Nel 1991 il gruppo “Alla France- una suonatrice di viella: “Suonare su un testo poetico, si preoccuperà di declamare il testo nella maniera più sca” incise la ballata “Lucente stel- una canzone esoterica di un trovala” in una versione puramente stru- tore, non partendo da musica scritta, intelligibile e rispettosa possibile.

musicisti che si interessano al repertorio medievale hanno ormai gli strumenti necessari per studiarlo e conoscerlo a fondo. Tuttavia, il tipo di esecuzione non dipenderà solo da quanto essa sia informata storicamente ma anche dai gusti estetici personali, spesso piegati all’organico a disposizione al momento e al pubblico, quindi al mercato.

ma solo da una poesia criptica, difficile da capire, pone numerose difficoltà perché si è costretti a prendere delle decisioni e comporre una parte”. In questa dichiarazione l’arte trobadorica viene etichettata come “esoterica”, e si suggerisce erroneamente l’idea che di questo repertorio non esista alcuna traccia scritta. In realtà, sono trasmesse quasi 300 melodie. In confronto a una produzione totale di circa 2500 poesie trobadoriche non è molto, certo, ma sempre meglio di niente. Più avanti si afferma che la poesia sia difficile da capire, il che è vero se non la si affronta seriamente. A partire da questi presupposti si è legittimati a comporre qualcosa di completamente nuovo! L’ignoranza viene esagerata al di là del vero, al fine di acquistare totale libertà sull’interpretazione. È la stessa strumentista a dichiarare più avanti che: “suonare musica medievale è come cucinare senza ricetta”.

La volontà di soddisfare le aspettative del pubblico Ciascuna delle interpretazioni esprime delle idee personali sul medioevo o tenta di familiarizzare il pubblico con un repertorio assai remoto. È comprensibile che gli ensemble cerchino repertori meno noti ma accattivanti per il pubblico – in questo caso la musica medievale. Al contempo è evidente la preoccupazione di tenere conto delle abitudini d’ascolto odierne e di riproporre al pubblico ciò che risponde alle sue aspettative di ‘sound’ medievale, quel ‘sound’ a cui è stato educato negli ultimi cinquant’anni di prassi esecutiva di quella musica. L’ascoltatore si attende un organico variegato e un po’ esotico o un bordone permanente che fa da sottofondo all’intero brano. Questo sì che è medievale! È chiaro che non è il pubblico

ad aver stabilito questi criteri stilistici, ma sono i vari ensemble. Cito dal sito internet di un gruppo di musica medievale: “Il medioevo, l’epoca in cui si sprofondava nel fango, che odorava di lana bagnata e in cui mancava la carta igienica. Ma c’era di più della miseria e della peste bubbonica. Quell’epoca era piena di musica, di suoni e strumenti che oggi sono quasi dimenticati. Il nostro obiettivo è di presentare la musica del medioevo nella maniera più autentica possibile, mantenendo sempre l’aspetto più importante – vale a dire lo “Swing”!. Così si creano le aspettative: la musica medievale si basa sullo “swing”: viene ritmizzata in modo da interessare un certo pubblico. Immagino che le interpretazioni di questo gruppo facciano onore a queste premesse…

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affinato

Concessioni all’industria musicale, al pubblico, al mercato Il programma di un CD con musica medievale viene confezionato come una scatola di cioccolatini, assortito con un po’ di tutto ma non troppo. Se un brano è troppo corto, si canta due o tre volte di seguito. Ma chi ne ha determinato la durata? L’industria musicale coi titoli “tre minuti” per la radio. D’altra parte, se possiede molte strofe (il più lungo di cui ho conoscenza è di Guillaume de Machaut, con 36 strofe), allora non si canterà tutto ma si comincerà a tagliare per arrivare alla durata “ideale”, procedimento però che non si adatta in tutti i casi. Tutte queste modificazioni sono concessioni al pubblico, al mercato. Mettendo al centro dell’interesse la musica stessa e non le aspettative del

pubblico, non è necessario scegliere strumenti esotici o aggiungere linee, introduzioni o postludi neo-medievali. Non si deve rimediare a una presunta deficienza di questa musica che nasce dal presupposto che il testo tràdito non contenga che una piccola parte delle informazioni occorrenti per una soddisfacente esecuzione. Lontana da me l’idea di postulare un purismo sterile e di pretendere che solo l’interpretazione monodica senza accompagnamento sia lecita. Questa forma di esecuzione ha però due grossi vantaggi: si ascolta quello che è trasmesso nel manoscritto, percependone l’origine poetica. I rifacimenti nello stile del secondo esempio, con Micrologus, suggeriscono all’uditore un originale fittizio (questa versione è due volte più lunga delle altre), che può esser copiato da un altro gruppo come vero origina-

le, come è successo con questo brano. L’uditore crede dunque di ascoltare un originale medievale, quando in realtà si tratta di una composizione nuova che da numerosi punti di vista non può ritenersi soddisfacente. Mi spiego. Non sono composizioni veramente contemporanee, ma nient’altro che timidi compromessi in stile medievale, paragonabili a un capanno di caccia neogotica. Questo è il risultato di una certa paura dell’anacronismo, in cui si tenta di diminuire la distanza temporale fra quella musica e l’uditore odierno. Ma queste nuove composizioni in molti casi non raggiungono la qualità dell’originale, creando uno squilibrio all’interno delle singole parti dell’esecuzione, e tra un pezzo e l’altro. Una composizione moderna è sempre concepita per una determinato organico. Nella musica medievale mancano informazioni inequivocabili a questo riguardo. Il risultato è sovente un certo eclettismo, una globalizzazione infelice e arbitraria nella scelta dei mezzi – al fine di piacere al pubblico e di vivacizzare un programma altrimenti “noioso” – che né esteticamente né storicamente riesce a convincere. Per l’interprete di musica medievale non si tratta di ritirarsi dal mercato, di rinchiudersi in una torre eburnea e mangiare pappa di miglio invece del BigMac, ma di non proporre al pubblico un repertorio precotto e pronto al consumo. Ci vuole coraggio per infrangere le consuetudini della storia della prassi esecutiva, che spesso ha celebrato oppure banalizzato la musica medievale invece di comprenderla come fenomeno musicale al pari di altri e presentarla di conseguenza.

Liberarsi dei luoghi comuni Credo sia giunto il momento di liberarsi di certi retaggi degli ultimi decenni e di ripensare a tutte le concessioni fatte al pubblico. Solo allora sapremo se l’astrazione della fonte grafica potrà essere vivificata per mezzo dell’esecuzione sonora, senza tentare di adattare il brano al pubblico, ma al contrario, cercando quasi di adattare il pubblico alla musica, avvicinandoci a questa con

i mezzi oggi disponibili, accettando l’inevitabile anacronismo e sottoponendo le vecchie abitudini ad uno sguardo critico, poiché questi «fenomeni logori» – come dice Queneau – impediscono di veder chiaro l’oggetto. Le prime riproposizioni della musica medievale all’inizio del Ventesimo secolo furono degli arrangiamenti estremi, come ad esempio la strumentazione di un organum del XIII secolo per grande orchestra e coro. Si riteneva che la musica medievale, seppur storicamente interessante, fosse composta in maniera ‘primitiva’. Oggi si dice di avere una maggiore stima di questa musica (basti leggere il programma di un CD), ma molte interpretazioni mostrano una grande sfiducia negli originali. Questo dubbio non viene espresso, ma è implicito nell’esecuzione. Siamo meno sinceri dei pionieri della musica medievale del primo Novecento e meno coerenti degli storici dell’Ottocento come un Viollet-le-Duc, che dopo aver studiato l’architettura gotica a fondo, lavorò con la ghisa per rimediare alle presunte debolezze delle costruzioni originali. Gli interpreti moderni rinforzano i loro brani con preludi, interludi o postludi e non con la ghisa, ma non dicono di farlo perché non si fidano dell’originale. Al contrario: diranno che si tratta di musica molto preziosa e la presenteranno come se questi brani fossero difettosi ed essi fossero stati costretti a intervenire a loro modo.

Riscoprire la raffinata musica medievale Il pericolo è che la prassi esecutiva della musica medievale finisca in una via senza uscita, perché verrà il giorno in cui l’interesse per un flauto di bambù sarà svanito e il bordone avrà perso il suo profumo medievale. D’altra parte, delle composizioni dei maestri del medioevo non abbiamo scoperto le infinite ricchezze che ancora celano, ma abbiamo grattato solo in superficie. Tutte queste opere stupende, prodotto di un’arte altamente raffinata, sono da ripensare, da riscoprire, anche da parte di noi musicologi! Le condizioni di lavoro non sono mai sta-

te così favorevoli, considerato che possiamo disporre di ottime edizioni critiche, di stupendi facsimili, di eccellenti studi musicologici e iconografici e via dicendo. Non è più necessario fingere che non si sappia abbastanza e che si sia costretti a copiare quello che si è fatto durante i cinquant’ anni passati. Queste interpretazioni, già diventate storiche, hanno una loro legittimità e sono da rispettare e intendere come prodotti del loro tempo, ma non possono costituire un modello interpretativo, oggi. Non nego che ci siano ancora molti aspetti della pratica che rimangono oscuri, ma questo non ci legittima a sfigurare la musica del Medioevo con delle aggiunte doppiamente anacronistiche e musicalmente mediocri. Il musicista ben informato ha il dovere di cercare e proporre una forma della rappresentazione artisticamente autentica (non parlo chiaramente di autenticità assoluta, poiché la ricostruzione precisa di un originale non sarà mai possibile), cioè un’interpretazione che sarebbe soddisfacente anche se non si trattasse di musica di un’epoca così remota come il medioevo. Intenzionalmente critico qui la mediocrità di coloro che diffondono questo repertorio, che al contrario esigerebbe ottimi interpreti, considerato l’alto grado di astrazione. Questa musica è quasi come la poesia (trattandosi perlopiù di un repertorio vocale) e pretende l’interpretazione di un poeta che si limita all’essenziale e non fa impiego di versi superflui. Per amore del vero, devo anche dire che ci sono giovani interpreti che lavorano già in questa direzione e lasciano ben sperare che il mercato non sia il criterio assoluto per le loro scelte interpretative: non incoraggiano, ad esempio, la diffusione di vecchi cliché, come l’associazione musica medievale = musica popolare, impiegando quindi strumenti esotici o un bordone perpetuo. Il lavoro di questi ensemble preconizza la bella «strada lattea del cielo», per citare un celebre madrigale di Johannes Ciconia, che condurrà finalmente alla comprensione profonda di questa poesia musicale così affascinante.

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DONNE IN MUSICA Maddalena Casulana, Francesca Caccini, Leonora Baroni e

L’ispirato apporto delle donne composit Q

a cura di Clio Rostand

uale parte ha avuto la donna nell’ ambito musicale nel corso dei secoli, e in quale misura l’elemento femminile ha dato il suo contributo alla storia dell’arte e della musica? Cantanti, liutiste, clavicembaliste, attrici, danzatrici di alto livello hanno costellato il percorso della musica; eppure nel campo della composizione, la componente muliebrerisulta decisamente limitata rispetto a quella maschile. Le cause andrebbero forse ricercate nelle scarse possibilità di accedere ad una buona educazione musicale, come pure al ruolo sociale femminile legato principalmente alla cura della famiglia? O ancora i motivi andrebbero visti, secondo alcuni, nelle specifiche caratteristiche psicologiche della donna, la quale sarebbe portata ad altre forme di creatività, che non siano la composizione e le scienze esatte? Nel medioevo santa Ita Killeed (vissuta fra la fine del V e l’inizio del VI secolo) raccolse inni, mentre la badessa santa Hildegarda von Bingen (1098-1179), personaggio di straordinaria valenza intellettuale, scrisse messe, inni, responsori e addirittura una sacra rappresentazione; le sue musiche hanno anche punti di contatto con la futura musica dei minnesanger. Ci furono donne fra i trovatori, come Beatrix da Dia, ed è noto che alcune sapevano suonare strumenti a plettro o a fiato. A proposito di melodramma, una statura superiore, forse la prima vera musicista della storia, assume Francesca Caccini detta “la Caccina”, figlia del grande Giulio Caccini e interprete autorevole dei primi melodrammi della Camerata fiorentina, ai primi del seicento. Ed è proprio sulle compositrici del Rinascimento e del Barocco italiano che intendiamo soffermarci, onde metter in luce alcuni nomi che certamente meritano di essere ricordati per la vena creatrice feconda e persino potente da cui furono animate. Ammirata da Orlando di Lasso Maddalena Casulana, compositrice e cantante italiana (15441590) del tardo rinascimento, viene ricordata per essere stata la prima donna compositrice ad aver pubblicato nella storia della musica occidentale. Estremamente poco è noto riguardo alla sua vita di ciò che non sia estrapolabile dalle dediche e lettere scritte nella sua collezione dimadrigali. Probabilmente nacque a Casole d’Elsa, vicino a Siena, come si evince dal suo nome. Il suo primo lavoro è datato 1566; quattro madrigali in una collezione, Il Desiderio, che lei produsse a Firenze. Due anni dopo pubblicò a Venezia il suo primo vero libro di madrigali per quartetto di voci, Il primo libro di madrigali, che fu la prima composizione pubblicata da una donna nella storia della musica occidentale. Quello stesso anno Orlando di Lasso condusse un’opera della Casulana alla corte di Alberto di Baviera a Monaco, ma quella di composizione non ci è giunta traccia. Fu probabilmente vicina a Isabella de’ Medici, e le dedicò alcune sue. Nel 1570, 1583 e 1586 pubblicò altri libri di madrigali, sempre a Venezia. Durante questo periodo sposò un uomo di nome Me-

zari, ma non ci sono giunte informazioni riguardo a lui, né dove vissero. Basandosi sulle informazioni contenute nelle dediche alle sue opere, probabilmente lei visitò Verona, Milano e Firenze, e sicuramente andò a Venezia, poiché la sua musica fu pubblicata lì e numerosi veneziani commentarono le sue capacità. Nella dedica del suo primo libro di madrigali ad Isabella de’ Medici ella dichiarò orgogliosamente il suo desiderio di mostrare al mondo il vanitoso errore degli uomini di possedere essi soli doti intellettuali, e di non credere possibile che possano esserne dotate anche le donne. Il suo stile è moderatamente contrappuntistico e caratterizzato da cromatismi, reminiscenza di qualche lavoro del Marenzio e dei molti madrigali di Philippe de Monte, ma evita le sperimentazioni estreme dei compositori della scuola di Ferrara come Luzzaschi eGesualdo. Le sue linee melodiche sono cantabili e piuttosto accurate al testo. Altri compositori del tempo, come Philippe de Monte, ebbero una grande considerazione di lei; Orlando di Lasso condusse una sua composizione nuziale in Baviera rima-

nendo impressionato per la sua bravura. Ci sono giunti un totale di 66 madrigali della Casulana.

Francesca Caccini, musa medicea

Personaggio di grande spicco fu Francesca Caccini (Firenze, 18 settembre 1587 – 1640), compositrice, clavicembalista, liustista, pedagoga e soprano italiana, figlia del grande Giulio Caccini, è considerata una fra le donne che maggiormente contribuirono all’evolversi della nascente musica barocca all’inizio del ‘600. Fu la prima donna a scrivere un’opera teatrale. Le date di nascita e di morte sono incerte. Ricevette una vasta educazione umanistica, apprendendo il greco e il latino, le lingue moderne le matematiche. Apprezzata per la sue doti musicali, non meno che per l’avvenenza, Francesca Caccini divenSuor Isabella Leonarda, si confrontò anche con la sola scrittune popolarmente nota con il dira strumentale, come è documentato da un volume di sonate minutivo toscano di “Cecchina”, che, oltre ad una sonata per violino e basso continuo, ne comtanto usuale da essere tradotto in prende ben undici per due violini, violone e organo latino nell’iscrizione didascalica “CECHINE PULCHRITUDINIS IMMORTALITATI”, posta sul spigliosi a Pistoia. Svolse anche una donna di alto ingegno e di medaglione marmoreo con la sua l’attività di liutista e clavicembali- grande cultura, che emersero aneffigie, esistente nel palazzo Ro- sta a Firenze, presso i Medici, e fu che nella sua attività di poetessa. Affrontò il debutto, all’età di tredici, anni nell’Euridice composta dal padre. Già ne Le nuove musiche, Giulio Caccini – teorizzando il favellare in armonia – spiegava come tutti i componenti della sua famiglia, dalla moglie ai figli, fossero dediti al canto. Così Francesca portò avanti assieme alle sorelle Settimia e Margherita, oltre al fratello Pompeo, (veri e propri musicisti professionistiante litteram) un proprio discorso musicale autonomo, componendo e suonando al servizio della corte medicea, fatta eccezione per un soggiorno di pochi mesi con la famiglia alla corte francese di Maria de’ Medici. Una volta rientrata a Firenze, sposò il compositore G.B. Signorini-Malaspina, da cui ebbe una figlia Margherita.

«La liberazione di Ruggiero»

Leonora Baroni, coltissima frequentava la società aristocratica e mondana della Roma del XVII secolo. Si mise in evidenza negli ambienti intellettuali romani: frequentò l’Accademia degli Umoristi, godette fra l’altro dell’amicizia di Milton, che le dedicò tre epigrammi in latino (1638-39) e del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX

Si ritiene che la sua feconda e vivace produzione non fosse minore a quella di Jacopo Peri e di Marco da Gagliano. Nell’inverno del 1625 Francesca Caccini compose le musiche per la commediaballetto La liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina, che fu rappresentata in occasione della visita del principe ereditario polacco Ladislao Sigismondo. Queste pagine rivelano non solo un’intensità emozionale, ma pure un alto grado di conoscenza e abilità nell’usare le tecniche e gli effetti della musica teatrale dell’epoca. La commedia piacque tanto al principe da indurlo a rappresentarla a Varsavia nel 1628. La liberazione di Ruggiero dimostra la grandissima cura che l’autrice dedicava all’aderenza tra testo e musica, la corrispondenza metrica tra sillaba e ritmo, la meticolosa cura nel notare gli abbellimenti e i melismi vocali fluidi e di ampio respiro, l’attenzione al fraseggio. Sebbene le sue composizioni non abbondino di dissonanze, a differenza del suo grande contemporaneo Monteverdi, Francesca Caccini si rivela maestra nel

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Suor Isabella Leonarda, protagoniste di primo piano della musica del ’500 e ’600

rici del Rinascimento e Barocco italiano Maddalena Casulana volle mostrare al mondo il vanitoso errore degli uomini di possedere essi soli doti intellettuali, e di non credere possibile che possano esserne dotate anche le donne

Francesca Caccini, di ampia e articolata cultura, si ritiene che la sua feconda e vivace produzione non fosse minore a quella di Jacopo Peri e di Marco da Gagliano sorprendere drammaticamente tramite l’armonia; e più che il linguaggio contrappuntistico, è l’armonia, l’accordalità a farsi portatrice della verità degli affetti. Francesca Caccini compose le musiche di scena per circa sedici spettacoli su testi di Michelangelo il Giovane (nipote del grande scultore) che si ritiene siano andate perdute. Nel 1618 diede alle stampe una raccolta di trentasei canzoni „Ill Primo Libro delle Musiche a una e due voci”, un compendio stilistico espressivo della canzone del tempo. Dopo la morte del secondo marito, il nobile lucchese Tommaso Raffaelli, ritornò alla corte dei Medici come insegnante di musica, componendo ed eseguendo pure musica d’intrattenimento e da camera per la corte delle dame. Fu attiva fino al 1641. Le è stato dedicato un cratere di 38,1 di km diametro sul pianeta Venere. Virtuosa della viola e potessa Eleonora Baroni, o Leonora o Lionora, detta anche l’Adrianella o l’Adrianetta (Mantova, dicembre 1611 – Roma, 6 aprile 1670), è stata apprezzatissima liutista, compositrice e cantante italiana, figlia di Muzio Baroni, un nobile calabrese, e della cantante Adriana Basile, sorella del poeta e letterato napoletano Giambattista Basile. Il nome di battesimo le venne dato in onore di Eleonora de’ Medici, consorte del principe di Mantova Vincenzo Gonzaga, mentre il soprannome “Adrianella” le derivò dalla madre, detta per la sua avvenenza “la bella Adriana”. Dotata di ottima voce, ricevette verosimilmente la prima educazione musicale da lei, divenendo presto talmente abile da oscurarne la

fama. Nel 1633 la famiglia Baroni si trasferì a Roma, dove ottenne la protezione del cardinale Antonio Barberini. Eleonora conosceva molte lingue e componeva sia musica che versi; era a suo agio nella società aristocratica e mondana della Roma del XVII secolo. Si mise

pertanto in evidenza negli ambienti intellettuali romani: frequentò l’Accademia degli Umoristi, godette fra l’altro dell’amicizia di Milton, che le dedicò tre epigrammi in latino (1638-39) e del cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX. La sua fama come cantante era tale

Maddalena Casulana fu la prima donna compositrice ad aver pubblicato nella storia della musica occidentale

Francesca Caccini al liuto

che nel 1639 fu pubblicata un’antologia a lei dedicata, contenente composizioni poetiche di autori quali Fulvio Testi,Francesco Bracciolini, Lelio Guidiccioni e Claudio Achillini Nel 1640 Eleonora Baroni sposò Giulio Cesare Castellani, segretario del cardinale Francesco Barberini. Nel febbraio 1644 venne chiamata a Parigi dal cardinale Mazzarino, probabilmente dopo la critica positiva del violinista André Maugars al “nuovo stile recitativo” della Baroni. Eleonora Baroni rimase col marito presso la corte di Anna d’Austria per un solo anno. Tornata a Roma, vi rimase per il resto della sua vita. Ebbe un ruolo molto importante, anche in politica, con l’ascesa al trono di Clemente IX (1667-1669), a cui sopravvisse solo pochi mesi. Suor Isabella Leonarda prima autrice di musiche strumentali profane Non solo dall’ambiente secolare emersero musiciste di vaglia; la musa ispiratrice si rivolse pure alle donne consacrate. E’ il caso di suor Isabella Leonarda (1620 – 1704), conosciuta come La Musa Novarese, che fu la prima donna a pubblicare nel seicento musica puramente strumentale, non liturgica. Benchè il suo genere predominante fosse il mottetto, sono le sonate, con la loro inusuale struttura formale, ad assumere grande rilievo nel panorama musicale dell’epoca. Nata a Novara da nobile e illustre famiglia, dal 1636 segue la sua vocazione religiosa entrando nel locale Collegio delle Orsoline; qui trascorre tutta la sua vita monastica, dedicandosi alla cura del convento ed alla composizione.

Alcuni scritti, conservati agli atti delle visite pastorali del tempo, documentano gli apprezzamenti di cui beneficiava suor Isabella, descrivendola come “abile a cantare, scrivere, computare e comporre musica”. Il suo stile musicale è adeguato alle necessità della pratica musicale nei conventi femminili dove, a quei tempi, erano vietate le forme di polifonia e l’uso di strumenti diversi dall’organo. Nell’ambito della sua vasta produzione, interamente dedicata alle composizioni sacre, è prevalente il mottetto per voce solista con accompagnamento dell’organo o, in qualche caso, di pochi strumenti; tuttavia, Isabella Leonarda si confronta anche con la sola scrittura strumentale, come è documentato da un volume di sonate che, oltre ad una sonata per violino e basso continuo, ne comprende ben undici per due violini, violone e organo. Queste sonate, peraltro, nella struttura e nella forma sono del tutto lontane dalla sonata da chiesa già codificata da Corelli nei quattro movimenti e con l’alternanza dei tempi lento-veloce-lento-veloce; alcune di esse, anche se in quattro tempi, non rispettano quell’ordine, altre ancora hanno un numero di movimenti ben diverso, arrivando addirittura a tredici nella sonata n. 4. Delle quasi 200 composizioni, pubblicate in venti raccolte tra il 1640 e il 1700, oggi più della metà sono conservate a Bologna, le altre a Venezia e Milano. Suor Isabella Leonarda era solita apporre due dediche alle sua composizioni, una per la Vergine Maria ed una per una persona altolocata, probabilmente scelta tra i benefattori del convento.

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MUSICA SACRA Il più celebre «Panis angelicus» quello di Cesar Franck

Il Pane degli angeli secondo San Tommaso d’Aquino «P

anis Angelicus» è il primo verso della penultima strofa dell’inno latino “Sacris solemniis”, composto da San Tommaso d’Aquino. L’inno fa parte di una liturgia completa da lui scritta per la solennità del Corpus Domini, sia per la Messa che per l’Ufficio. Il fenomeno per cui una strofa di Sacris solemniis è stata presa separatamente dal resto del canto è accaduto anche con altri inni dell’Aquinate per il Corpus Domini: Verbum supernum prodiens (le cui ultime due strofe iniziano con O salutaris Hostia) e Pange lingua (le cui ultime due strofe iniziano con Tantum ergo). La strofa che comincia con le parole Panis angelicus (“pane degli angeli”) è stata spesso musicata separatamente dal resto dell’inno. La versione più famosa è quella di César Franck, che nel 1872 scrisse una partitura per tenore, organo, arpa, violoncello e contrabbasso; in seguito incorporò l’inno nella sua Messe à troi voix (Op. 12). La sua esecuzione più celebre fu quella di John McCormack al Phoenix Park di Dublino, ma l’inno è stato cantato, tra gli altri, da Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, Roberto Alagna, come anche dai soprani Magda Olivero e Renata Tebaldi.

« Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis. Te, trina Deitas unaque, poscimus: sic nos tu visita, sicut te colimus; per tuas semitas duc nos quo tendimus, ad lucem quam inhabitas. Amen. » d’Aquino, Sacris Solemniis, strofe 6-7)

VOCI STORICHE Adelina Patti una delle maggiori soprano dell’Ottocento

Eccentrica artista che conquistò il suo tempo Adelina Patti (Madrid, 19 febbraio 1843 – Craig-y-Nos, 27 settembre 1919) è considerata uno dei più grandi soprani di coloratura del XX secolo. Adela Juana María Patti, nome con il quale venne battezzata l’8 aprile 1843, nacque a Madrid, città dove all’epoca lavoravano entrambi i genitori. Il padre era il tenore di forza siciliano Salvatore Patti (1800-1869), la madre il soprano Caterina Chiesa Barilli (deceduta nel 1870) al secondo matrimonio (dal primo, con l’organista, compositore e insegnante di canto romano Francesco Barilli, Caterina aveva avuto quattro figli: l’acclamato soprano Clotilde Barilli, il baritono Ettore, il basso profondo Antonio e il basso cantante Nicolò).

Famiglia d’artisti

Adelina, ultimogenita, non fu l’unica dei figli della coppia a seguire la carriera artistica: le sorelle maggiori Carlotta (1835-1889) e Amalia (1831-1915, che divenne moglie del pianista Maurice Strakosch) furono stimate cantanti, mentre il fratello Carlo (1842-1873) fu violinista e direttore d’orchestra. Nel 1844 la famiglia si trasferì a New York, dove il padre lavorò dapprima alla Palmo’s Opera House (demolita nel 1876) e in seguito (dal 1849 al 1852) come secondo tenore nella compagnia dell’Astor Place Opera House, guidata all’epoca dal compositore e impresario austriaco Max Maretzek. Le famiglie Maretzek e Patti, oltre ad essere vicine di casa, erano legate da rapporti di amicizia e la piccola Adelina, che si contraddistinse fin da piccola per capacità canore e memoria musicale, era spesso incentivata a cantare (in cambio di spiccioli o dolciumi) in occasioni dei raduni delle due famiglie. La sua formazione canora si deve al fratellastro, Ettore, e al cognato Maurice Strakosch. Si racconta che nel 1850, dopo aver assi-

stito ad un concerto di Jenny Lind, al ritorno a casa fu in grado di ripetere alla perfezione i brani cantati dal soprano svedese. La prima apparizione pubblica risale al 1852, in occasione di un concerto del violinista Michael Hauser, a cui seguirono numerose tournée negli Stati Uniti e Cuba (dove accompagnò il pianista e compositore Louis Moreau Gottschalk). Il suo debutto operistico risale al 24 novembre 1859 alla New York’s Academy of Music, quando la sua interpretazione di Lucia di Lammermoor di Donizetti, assieme al tenore Pasquale Brignoli, incontrò il favore della critica.

ca; il suo aspetto fanciullesco le conferiva un’ottima presenza scenica. Nella sua giovinezza, secondo le testimonianze, la voce straordinariamente limpida le consentì di eccellere nei ruoli di Zerlina nel Don Giovanni, Rosina ne Il barbiere di Siviglia (versione per soprano), nonché soprattutto nei ruoli di coloratura di Lucia di Lammermoor e La sonnambula, che saranno sempre i suoi cavalli di battaglia, cimentandosi anche in ruoli più lirici quali Margherita del Faust e Giulietta di Romeo e Giulietta, entrambe di Charles Gounod. Sua celeberrima antagonista fu il soprano ungherese Etelka Gerster.

Alla conquista del mondo

Conclusa la stagione a New York, si recò a Londra, accompagnata dal padre, dove fu ingaggiata dal manager del Covent Garden Theatre e debuttò il 14 maggio 1861 nel ruolo di Amina ne La sonnambula di Vincenzo Bellini, riscuotendo notevole successo. Si esibì quindi in Germania, nei Paesi Bassi, in Belgio e, nell’autunno dello stesso anno, al Théâtre Italien di Parigi, nuovamente nel ruolo di Amina (16 novembre 1861). In Italia debuttò nella stagione 1865-66. Nel 1862 si esibì alla Casa Bianca cantando Home! Sweet Home!, un brano composto da John Howard Payne per l’opera Clari-The Maid of Milan, commuovendo Abramo Lincoln e la moglie (in lutto per la recente perdita del figlio Willie). Adelina rimase legata al brano che divenne uno dei bis più frequenti ai suoi concerti, accanto alla canzone popolare Comin’ Thro’ the Rye, riveduta nel XVIII secolo da Robert Burns. La sua carriera proseguì di successo in successo. Cantò negli Stati Uniti, in Europa, in Russia e in Sud America, suscitando ovunque l’entusiasmo del pubblico e della criti-

La Patti era considerata una cantante poco incline alla sperimentazione, il programma dei suoi concerti includeva invariabilmente le stesse arie. D’altro canto fu un’attrice convincente in ruoli patetici come Gilda nel Rigoletto, Leonora nel Trovatore e Violetta nella Traviata. Quando la sua voce maturò, si cimentò in ruoli di maggior peso, in opere come L’Africaine, Les Huguenots e Aida. Nel 1885 giunse a interpretare Carmen al Covent Garden, raccogliendo uno dei rari insuccessi della sua carriera. Si sposò tre volte: nel 1868 con il marchese di Caux, da cui divorziò nel 1885; nel 1886 con il tenore Ernest Nicolini, che fu suo compagno anche sulla scena e che morì nel 1898; nel 1899 con il barone svedese Rolf Caderström, di 27 anni più giovane di lei. Le è stato dedicato un cratere di 47 km di diametro sul pianeta Venere.

Vocalità e personalità interpretativa

Come Rosina nel “Barbiere di Siviglia”

Dotata di una voce non potente ma limpida e di splendido timbro nonché di straordinaria estensione e agilità, fu una delle più autentiche dive teatrali del suo tempo e come tale si concesse ogni genere di libertà nell’adattare gli spartiti ai suoi mezzi vocali. Si narra che un giorno, esibendosi nell’aria del Barbiere di Siviglia “Una voce poco fa” accompagnata al pianoforte dall’anziano Rossini, aggiunse una tale quantità di abbellimenti che il compositore, dopo essersi congratulato, le chiese con perfidia chi avesse scritto l’aria.

Come Carmen Ritiratasi in un grandioso castello di sua proprietà presso Craig-yNos, in Galles, la Patti continuò ad esibirsi privatamente nel piccolo teatro del palazzo. Tra il 1903 e il 1906, ormai sessantenne, decise di incidere la propria voce grazie agli apparecchi della Gramophone Company, che proprio in quel periodo era alla ricerca di cantanti di fama per arricchire il proprio catalogo. Con la Gramophone la Patti incide una ventina di pezzi, spaziando dalle arie d’opera (Casta diva da Norma, Ah non credea mirarti da La sonnambula, ecc.), ad alcune canzoni popolari inglesi in voga alla fine dell’Ottocento. Nonostante l’età la sua voce si mostrava ancora duttile ed armoniosa, il che unito all’antichità della tecnica vocale ha reso le sue registrazioni particolarmente apprezzate ancora oggi da parte degli appassionati del canto pre-verista.

Anno VII / n. 60 del 27 giugno 2012

“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina

Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: MUSICA [email protected] Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Vanja Dubravčić Collaboratori: Helena Labus Bačić, Clio Rostand, Nicoletta Gossen Foto: Archivio