ANESIMO MINIMALE DI ENZO BIANCHI - August Turak

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ANESIMO MINIMALE DI ENZO BIANCHI. Scalfari e Spinelli si fa profeta di una nuova chiesa dello Spirito. Contro Roma e gli atei devoti. Agli “atei devoti che ...
ANNO XIV NUMERO 99 - PAG VII

IL FOGLIO QUOTIDIANO

SABATO 25 APRILE 2009

ANESIMO MINIMALE DI ENZO BIANCHI Scalfari e Spinelli si fa profeta di una nuova chiesa dello Spirito. Contro Roma e gli atei devoti del Signore”. Una Nuova Era dello Spirito? Non viene specificato, però, nella Regola di Bose si legge che “Nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati”. E certo colpisce questo continuo evocare, anche se non fino in fondo, la contrapposizione tra una chiesa istituzionale, vecchia e una chiesa spirituale, nuova. Il tutto sottolineato da una sezione del sito Web della comunità che si intitola “Pneumatofori”, portatori dello Spirito, in cui si dice: “Sono passati tra noi” seguono 19 nomi per poi concludere “lasciandoci il loro spirito”. Nell’attesa, le “comunità alternative” sono chiamate a evitare di porre

Quelli dell’Ora et labora La formula del successo economico è nella regola monastica

L

“Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà”, dice citando Zagrebelsky Cristo al centro del proprio agire sociale. Niente leggi che sappiano di sacrestia: l’Altro, lo Straniero siano la regola, il nascondimento sia il mezzo, l’umanizzazione, e non la salvezza, sia il fine. Dunque, in “Per un’etica condivisa”, Bianchi spiega che gli ripugna un mondo in cui “le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei servizi necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però un riconoscimento del proprio ruolo”. Per non parlare dei cosiddetti “atei devoti che oggi pontificano”. Ai quali Bianchi manda a dire che “non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali. Alla larga da “un progetto che vede le chiese correre in aiuto e supporto alla società per fornire e alimentare valori

Agli “atei devoti che oggi pontifcano” dice che “non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario” di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio”. In un colpo solo, fratel Enzo fa fuori gli atei devoti e san Tommaso d’Aquino. Il Dottore Angelico, nella “Summa” spiega l’utilità delle leggi dello stato e della repressione penale, che servono ad “abituare a evitare il male e a compiere il bene per timore della pena, in modo che poi esso sia compiuto spontaneamente”. Ma è chiaro che, per dei puri destinati a vivere nel nascondimento e nella carità perfetta, la fatica di produrre leggi che conducano gli uomini al bene, in-

Il priore di Bose, Enzo Bianchi, 66 anni

vece che benedetta, appare blasfema. E’ difficile non far risalire tutto questo a una sottovalutazione dell’Incarnazione di Cristo, da cui scende direttamente l’impegno del cristiano nella vita quotidiana. La Civitas Dei di sant’Agostino, alla quale appartiene il cristiano, non è un luogo impalpabile e neppure una comunità separata che diventi esempio per la società. L’appartenente alla Civitas Dei ha il dovere di mettere mano anche alla città dell’uomo, e il suo impegno è essenzialmente milizia. Ma se l’impegno è debole, di solito, la cristologia è debole. Il Priore, quando cita Cristo, si affretta a spiegare che è colui che “ha narrato Dio agli uomini”. Linguaggio opaco che produce la sensazione di trovarsi davanti a una vicenda incompleta. Sensazione alimentata da Bianchi con un libretto per bambini intitolato “Gesù. Il profeta che raccontava Dio agli uomini”. E’ vero che dentro dice che Gesù è Figlio di Dio. Ma poi spiega ai suoi piccoli lettori: “Gesù (…) era un bambino come noi che viveva con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, in una piccola cittadina della Galilea. Quando aveva dodici anni ha sentito una chiamata più forte. (…)

Gesù è stato inviato, mandato, è divenuto un testimone, cioè uno che raccontava Dio agli uomini”. Forse, sta qui la ragione del cristianesimo minimale di Bianchi, che ha un precedente illustre in Giuseppe Dossetti, passato dalla militanza nella Dc alla scelta monastica. Non a caso, il priore di Bose ha un posto fisso nel Consiglio di amministrazione della dossettiana Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Come quello di Dossetti, il monachesimo di Bianchi è anomalo. Non sceglie la via della solitudine per lodare e adorare Dio, ma per caricarsi di carisma profetico con il fine ultimo di trasformare la chiesa e renderla più spirituale e democratica attraverso le alchimie della politica. Un ribaltamento di orizzonte che passa dall’influsso della chiesa sulla società a quello della società sulla chiesa. L’unica differenza tra Dossetti e Bianchi sta nel partner. Il monaco bolognese, tra gli artefici della Costituzione repubblicana, fece della sua creatura il luogo d’elezione per l’incontro con il Pci di Togliatti. Pensò la carta costituzionale come piattaforma utopica per un progetto che trasfor-

masse la vita politica italiana e, quindi, anche la chiesa. Dal che discese una visione ideologica della Costituzione in nome della quale Dossetti prima combattè Craxi e poi lasciò il suo romitaggio per fronteggiare il cavaliere nero Berlusconi. Bianchi, oggi, ha a che fare con gli

Il suo monachesimo è come quello di Dossetti. Dall’influsso della chiesa sulla società a quello della società sulla chiesa eredi di un Pci putrefatto, una sorta di partito radicale di massa in cui convive tutto e il contrario di tutto, da Rosy Bindi a Massimo Cacciari passando per Dario Franceschini: come dire il nulla, l’ideale per le profezie minimali del Priore. Ma l’obiettivo non è cambiato, nel mirino c’è sempre la chiesa romana e la sua concezione costantiniana. Il che fa tirare una boccata d’ossigeno a Eugenio Scalfari, che, alla Fiera del libro del 2005 disse: “Se tutti i cattolici fossero come Enzo Bianchi io sarei molto rassicurato”. Come dargli torto?

a filastrocca dello stato che con magistrale bacchettata moralizza il sistema economico è sinceramente venuta a noia. Nei lunghi mesi di crisi abbiamo sostanzialmente assistito alla fiaccolata delle ammende e dei propositi: i banchieri hanno fatto ammenda, gli imprenditori hanno fatto ammenda, gli stati hanno fatto ammenda per avere permesso a banchieri e imprenditori di fare le cose per cui poi hanno fatto ammenda. Ora siamo nella fase dei propositi: l’economia ha bisogno di nuove regole, si dice; ma forse per districarsi con profitto dall’ingorgo economico bisognerebbe dimenticare le regole e fissarsi sulla Regola. Sì, quella di san Benedetto. Da circa 1.500 anni la civiltà occidentale convive con il business model più efficace e duraturo che la storia economica abbia prodotto, il monastero. Nell’ora et labora si nasconde l’alchimia degli elementi per costruire un’impresa di successo. Non solo, il monastero unisce ciò che il mondo divide e il patrono d’Europa aveva previsto opportune norme interne che anticipavano di molto i burocratici istituti che oggi danno solenne prova di debolezza di fronte alla crisi. La Regola è insieme Federal Reserve, Banca centrale, Authority, si occupa della previdenza sociale, della selezione del personale e funge da stato che si autoimpone quella che gli economisti del Quinto secolo avrebbero chiamato “regulation”, se soltanto fosse esistito il medio inglese. August Turak è un imprenditore del North Carolina, ora in pensione. Valide ragioni spirituali lo hanno spinto a frequentare diversi periodi nel corso di dodici anni con i monaci trappisti dell’abbazia americana di Mepkin. “Ho lavorato per tutta la vita come manager – spiega Turak al Foglio – prima a Mtv, poi all’Arts Entertainment, finché non ho avuto la possibilità di aprire un’azienda assieme ad alcuni amici, ma mi sono sempre considerato una persona religiosa a cui è successo di gestire un’impresa, mai il contrario”. L’occhio interiore del cenobita non ha offuscato quello disincantato dell’imprenditore di successo, e nel corso dell’ufficio quotidiano Turak non ha potuto fare a meno di notare che il monastero non è soltanto una comunità isolata e autosufficiente ma un modello imprenditoriale efficiente. Soltanto che i criteri dell’economia monastica non si studiano nelle università, negli Mba, non sono considerati dai manager e dagli amministratori delegati, generalmente convinti che il monaco sia un ometto tarchiato che tira avanti a salmi e birra. E – errore nell’errore – quando dice birra pensa alla Beck’s. “Gli affari dei monaci – spiega Turak nel primo di una serie di articoli apparsi su Forbes – sono sempre basati su quei beni a basso margine e alta-

me di un relativismo etsi Ecclesia non daretur le)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la Bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur. “Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al “come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano frecciatine piuttosto velenose ai cattolici, al centrodestra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione,

Mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, la famiglia, l’eutanasia, la sessualità

la fecondazione artificiale, le famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte. A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi un credente, e leggessi, per cercarvi una parola di verità, il libro di Bianchi, arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice sempre un’amica pro life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile, della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che la novella, il messaggio, è importante?). Francesco Agnoli Monaci trappisti dell’abbazia di Mepkin, South Carolina (Stati Uniti)

mente competitivi che qualunque studente del primo anno di Mba cancellerebbe il più presto possibile”, ma, continua, “i prodotti dei monaci hanno quella flessibilità di prezzo solitamente associata ai brand dominanti del mercato”. Il monastero non solo si sostiene ma genera concorrenza. In termini laici ora et labora significa che i monaci lavorano part-time. Turak sostiene che “le organizzazioni non riescono a rendere al massimo perché perdono tempo a guardare al passato, mentre i monaci quando lavorano sono totalmente impegnati nella mansione che stanno svolgendo in quel preciso momento”. In quanto parte integrante della Regola, il lavoro del monaco raggiunge livelli di efficienza altissimi. “Se rimaniamo impressionati dai monaci – dice Turak – perché riescono ad ottenere questi risultati nonostante la loro dedizione univoca alla missione, commettiamo un errore cardinale. E’ proprio in virtù della dedizione alla missione che i monaci reggono un business da milioni dollari con un alto grado di efficienza”. L’aspetto fondamentale dell’economia monastica consiste nell’avere una missione dominante e nel caso dei monaci è chiaro che lo scopo dell’attività non è il profitto. Il monaco è libero dall’assillo della riuscita economica, la sua unica occupazione è cercare Dio. Lo ha ricordato magnificamente Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini: “Non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio”. Da 1500 anni l’economia monastica è florida per il semplice motivo che la Regola favorisce il riposizionamento delle priorità, tenendo il profitto come portato quasi incidentale di obiettivi più elevati. Dalla regulation alla Regola, dalla mission alla missione. August Turak spiega al Foglio che “oggi manca l’idea di una missione comune”, ma che, quasi per paradosso, la crisi può offrire l’occasione per “generare una nuova crescita nella coscienza economica, e sono convinto che il modello dei monaci possa essere adattato a molte aziende”. E Turak non trattiene un moto di gioia quando viene a sapere che il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti, trova più risposte alla crisi nella Bibbia che nei libri di economia: “Sono completamente d’accordo. Vale per me un criterio generale: ogni problema non può essere risolto stando allo stesso grado in cui si pone. L’economia non si risolve con l’economia, per risolverla bisogna approdare a un livello di riflessione più alto”. Un esempio di aziendalismo puro, ferreo, praticamente monastico. Mattia Ferraresi