CESARE PAVESE - Poche righe

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anela. Tutta l'opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell'equilibrio tra ... bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del disamore e ...
CESARE PAVESE By Pocherighe Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri, gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità. E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente, noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e anelo di possesso. Lo spirito umano –

che Pavese chiama “spirito non

santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio, quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di

lettura e scrittura che pervadono le numerosissime pagine che Pavese ha scritto e che a noi tocca leggere, fare nostre e non dimenticare. Umiltà e contemplazione sono due parole ricorrenti nell’opera di Pavese - e forse sono le più inascoltate dai suoi lettori (perchè sono da lui solo suggerite, mai imposte, pur in

quella sua caparbia coscienza che

“repetita iuvant”). Ecco direi che sono piene di umiltà e di pura contemplazione Paesi tuoi o La luna e i falò, Il Compagno, La spiaggia, La bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del disamore e Lavorare stanca o I dialoghi con Leucò o La casa in collina e perfino Tra donne sole, ma anche i suoi racconti, i saggi, gli articoli e quella sua meravigliosa corrispondenza piena di umore, di forza e di intelligenza, rapida a volte, a volte frettolosa, a volte lentissima ed esauriente, mai sciatta o imprecisa. L’umiltà Pavese la raggiunge attraverso il realismo con cui guarda se stesso e gli altri: è l’umiltà che nasce dall’ovvia evidenza del limite della persona umana. E, come succede a tutti, all’umiltà anche Pavese vi arriva per mezzo di umiliazioni non cercate. L’esperienza dell’umiliazione ci può sembrare quasi esagerata in lui, appunto un eccesso, un po’ come se ci trovassimo di fronte a un Jacopone da Todi del Nord, che parla in quel suo privato e speciale dialetto però del secolo ventesimo. Scrive Pavese a Billi Fantini: “Si convinca che fuori dei libri scritti, io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo” (20 luglio 1950). C’è una certa sottilissima ironia, propria di Pavese, ma c’è anche tanta profonda serietà in queste parole e non certo è a caso che va a un ricordo biblico, precisamente a Geremia nel capitolo 2, quando Dio si rivolge al profeta chiamandolo appunto “vermiciattolo”.

Se l’umiltà gli è costata cara, non è stato più a buon mercato che ha raggiunto quella capacità di contemplazione pura che stupisce e lo rende unico. Scrive a Piero Calamandrei il 21 agosto 1950: “Quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunce nella mia vita che oggi ne sono tramortito”. E vorrei a questo punto suggerire una domanda: in che modo dobbiamo leggere tutte queste sue pagine, così dense, mai fatue, di una poesia che quando non toglie il fiato spezza comunque il cuore? Cerco di rispondere, partendo da come l’ho letto e lo leggo io, cioè dalla mia esperienza diretta. Per leggere bene questi che lui definisce “i miei libretti”, dobbiamo metterci nella stessa umiltà e nella stessa contemplazione con cui lui parla e scrive, osserva e trascrive, sente e trasmette: mi sembra che sia questa la chiave di lettura più sanamente generatrice per accogliere quel cavallo di razza che è stato Pavese, per farcelo “conoscere” in una più giusta e più esaustiva dimensione. Umiltà e contemplazione sono due virtù (cioè due forze), come abbiamo visto, che non sono facili da raggiungere

e che

costano care. Lui scrive il nome di queste due virtù (col dolore, con l’erudizione, con la curiosità, con la sua durezza, senza peli sulla lingua, ma mai con malvagità) su una specie di gigante lavagna, per così spingerci a farle nostre e a lasciar perdere quell’illusorio viottolo dell’equilibrio che vorremmo percorre, e indurci invece a cambiare strada. Pavese ci obbliga quasi, con la violenza propria dei timidi, a prendere la nostra croce umana e a camminare a piedi nudi verso sù, per una viuzza seminascosta, acciottolata e ripida, da cui vedremo un panormana che è anticipo di verità. E in mezzo alla vigna o mangiando ciliegie davanti alla notte,

Pavese si offre come una primizia dell’uomo del secolo ventesimo che percorre questa viuzza in salita, dove ogni passo si nutre di una sempre più intima e inesorabile passione per il vero. Dopo una settimana di intenso lavoro, di incontri, di poche ore di sonno, arriva finalmente il sabato pomeriggio, per riposare, magari di fronte al mare o a una bella collina o una serie di orti coltivati a verzura e colorati di fiori: qui, in questo silenzio che accompagna il riposo, ognuno di noi ce la fa sicuramente a leggere l’abitabile Pratolini, quello “schietto narratore” (3 ottobre del 44) che era il Boiardo, o si può leggere Boccaccio, l’Ariosto, persino Tolstoi (tanto odiato da Pavese) o quell’adolescente di Svevo (come lui lo definiva). Ma sicuramente nessuno ce la fa a leggere Pavese, a meno che non decida di rinunciare al riposo e rimettersi al lavoro. Per poter entrare nella profondità e ampiezza di domande e di contraddizioni che Pavese offre, il nostro spirito non può essere in riposo: dev’ essere vigile, sveglio, pronto alla lotta. Ci si annoia subito con Pavese, se non ci si impegna sul serio ad ascoltarlo e a lottare con lui o contro di lui. Pavese è solo per lettori vigilanti, disposti a non lasciarsi soffocare dalla realtà che questo inusuale scrittore ci racconta senza difese e senza reti protettive. Insomma, Pavese è per lettori che vogliano diventare lettori di razza. Pavese va letto lentamente: non è cibo da buffet o da fast food. Va letto piano piano anche quando – come succede soprattutto nelle sue poesie – uno vorrebbe mangiarsele tutte d’un fiato. Ma se si vince l’ imprudente tentazione di leggerlo in fretta e ci si dona all’arte della lenta lettura e dell’ascolto puro, ecco che a poco a poco il palato diventa regale e si può

assaporare tutta la ricchezza di un gusto mai provato prima, ci si nutre di un miele a volte dolcissimo a volte molto amaro, sempre in grado di suscitare domande ed emozioni importantissime e inevitabili. Con Pavese, dunque, s’impara a leggere lentamente e così, invece di mangiarli o metterli via, ci lasceremo interrogare dai suoi libri, e sarà un’esperienza di grande maturazione umana e letteraria. Quando aveva solo diciottanni, in una lettera al suo amico Mario Sturani, Pavese indica qual è il vero motivo per cui scrive. Lo dice in uno dei suoi primi tentativi di poesia, non certo riuscito però chiarissimo: “Logoro, disilluso, disperato/ di mai riuscire a suscitare nell’anima/degli uomini una vampa di passione/con un’arte ben mia, così vivo/triste nei lunghi giorni...eppure a tratti/mi sento traboccare di una vita/ caldissima, potente, che se mai/ riuscissi a esprimere, sarebbe colma/ tutta la mia esistenza!” Sotto la lamina del sottile gelido inverno del suo temperamento piemontese, c’è dunque un’anima che vibra intensamente e noi dobbiamo prendere in mano queste braci, se vogliamo incontrare quella scintilla che purifica ogni banalità. Abbiamo detto che il primo passo è leggerlo lentamente

per

incontrare qualcosa che va al di là di quella barriera che Pavese frappone tra lui e noi – nonostante tutte le confidenze di cui pure è capace. Incontrare la porticina scavata in questo muro e trapassarla, entrando così in quell’inusuale suo lucidissimo sguardo sul mondo, è un passo non facile ma ne vale la pena: basta solo deciderlo e poi camminare. Dobbiamo dimenticarci di noi stessi che stiamo leggendo Pavese. Dobbiamo dimenticarci dell’autore e di tutto quello che di lui abbiamo ascoltato o sentito dire. Dobbiamo fare una sola cosa: lasciarci amare da quelle poesie,

da quei racconti, da quelle lettere, da quegli articoli, da quei saggi e da quelle novelle: perché Pavese è vivo e con lui dobbiamo instaurare un dialogo degno di un interlocutore che non spreca parole, che non riempie pagine a casaccio e che non intende ingannarci. Lo so che non è facile lasciarsi amare così, e d’altra parte lasciarsi amare è ancor più difficile che amare, e forse è per questo che Pavese, nel nostro mondo un po’ volgare, un po’ fatuo e un po’ distratto – che tanto assomiglia al rospo che si gonfia di vanità per due nozioni di psicologia imparate sulle riviste di moda o dagli oroscopi gratuiti – è notissimo di nome e sconosciuto di fatto. Ma io insisto nel dire che vale la pena trapassare quella soglia ed entrare direttamente in un dialogo personalissimo con lui, perché se di una cosa sono sicura è che, leggendo bene Pavese, uno diventa più uomo. Per questo, è sempre piuttosto deludente e a volte fa rabbia e a volte fa pena e sempre risulta ingiusto quello che tanti ne han fatto e ne fanno di lui: un personaggio di cui si raccontano, con piacere o con dolore, con malizia o compagnoneria, le più tristi banalità o i più privati presunti segreti. Non voglio dire che di Pavese si siano scritte o dette cose solo superficiali o inutili: anzi. Molti lo hanno amato, come “lo scrittore” che ha avuto il coraggio di dire tutto di se stesso, attraverso il diario e le lettere, e che ha avuto la debolezza di non prendere in mano il fucile al tempo della battaglia e di aver ammazzato se stesso invece che altri, ma in troppi sono caduti nella trappola di ridurlo in fin dei conti a un oggetto di pettegolezzo, proprio come lui chiedeva di non fare, ben sapendo che di pettegolezzi s’immiserisce tutta l’umanità. E– detto tutto questo – aggiungo che Pavese non è per me né un idolo né un personaggio mitico. E’ un grandissimo scrittore già classico, un punto di non ritorno per la letteratura italiana ed è, ripeto, un cavallo di

razza, e va letto come lui stesso ci invita a fare con ogni libro che ci troviamo tra le mani. Cito da un articolo di Pavese pubblicato su “L’Unità” di Torino il 20 giugno del 1945: “Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della nostra pigrizia. In questo, l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, di inconsapevole forza – la sola che valga – che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta.” Poi continua così: “E questo vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato.” Se leggiamo Pavese con questa umile forza di chi non è uno scriba, cioé un sapientone già avvezzo ai libri, di chi non lo scruta al di qua dalla sottile lamina di metallo di cui parlavamo prima, i suoi libri ci serviranno, dunque, per imparare ad amare gli uomini. Perché, se amiamo i libri e non amiamo gli uomini, lui dice, siamo “fatui o dannati”, due parole molto forti che certamente dirige a se stesso, per quel senso di niente che aveva di sè, come spesso succede alle anime davvero grandi. Di Pavese bisognerebbe leggere tutto e avere una mente come quella di Pico della Mirandola, per ricordare ogni parola e citare tutto a memoria. Ma questo purtroppo è per me impossibile. Mi limito dunque a cogliere alcuni punti in quel mare di materiale che ci ha lasciato e che è passibile

appunto di varie ipotesi di lettura. Io ne ho sempre scelta

una,

sopratuttutto perchè ho avuto in sorte di leggerlo per la prima volta in un tempo in cui non c’erano né Google né Wikipedia né l’ossessione delle biografie e di lui quindi sapevo solo che si era suicidato, perchè me l’aveva detto mia sorella maggiore e non ricordavo bene se poi a suicidarsi fosse stato lui o Luigi Tenco, perchè ero ancora poco più che una bambina. Per me c’erano sole le sue parole, quello che leggevo di nascosto appunto dallo sguardo vigile di mia sorella e sentivo che lui doveva aver sudato per scrivere così, in un mitico nuovo raccontare, né potevo riconoscere in quelle righe, che mi tenevano incatenata a lui, alcun cenno biografico. Con stupore, incontravo un uomo che mi parlava e cercavo di immaginare che volto avesse, se era bello o brutto, alto o basso, magro o grasso. E procedendo nella lettura mi dimenticavo poi di queste curiosità futili, perché trovavo un uomo che mi apriva la mente, che mi puliva da tante adolescenzialità, che mi faceva respirare a un ritmo diverso da come respiravo quando ancora non lo conoscevo e, insieme a tutto questo, debbo riconoscerlo, trovavo un uomo che mi faceva molta soggezione, perché decisamente era troppo intelligente e troppo colto. Nessuna caduta sentimentale, nessuna asprezza fuori luogo: quel raccontare fin nel dettaglio e pur sempre inesauriente, così che uno potesse metterci dentro il proprio personale lavoro, la propria personale creazione e poi quelle domande, sul tempo, la storia, il destino; duemila anni di convivenza tra la cultura greca e la cultura cristiana, il senza tempo dell’uomo, quell’eterno selvaggio che sacrifica al dio sconociuto una primizia, per garantire il buon raccolto, erano condensati in libretti che parlavano un linguaggio tutto suo, preso dai classici e dai campi. E poi quello sguardo che mi insegnava come guardare un fiume, un vigneto, un sentiero in collina, una catapecchia, una

finestra, una notte; che mi insegnava a riconoscere la pioggia e a sapere che nella mente degli altri è sempre in atto un dialogo interiore che li isola e al contempo li accomuna. Che mi faceva capire che il lavoro è un dovere che si paga caro. Che anche le parole hanno scritto “più in là”, come dice Montale. Ah, tutto questo mi è entrato nelle vene, ha liberato la mia mente, ha riempito di carità (che non è l’elemosina) quel mondo di gente che buttava via la vita, quando non se la toglieva, perchè il dio restava sconosciuto. In Pavese inoltre trovavo un punto molto alto e nello stesso tempo molto profondo che me lo faceva amare e preferire a tanti altri scrittori che pure mi appassionavano e di cui divoravo – sempre di nascosto - i romanzi che mia sorella teneva chiusi a chiave in una vetrinetta. E per cercare di trasmettervi questo punto molto alto e molto profondo per me, uso il metodo del confronto, che è un’astuzia che uso sempre quando cerco di esprimere qualcosa che mi risulta complicato esprimere. C’ è uno scrittore francese che si chiama Léon Bloy. Stupendo scrittore dei primi del novecento, che aveva tutta la forza di un mistico. Vi consiglio di leggere le lettere che scrisse alla sua fidanzata, la protestante Jeanne Molbeck e, fra i suoi romanzi, il suo capolavoro, che si intitola: La donna povera. Romanzo bellissimo, che caldamente appunto vi consiglio. Léon Bloy lo definiscono “il pellegrino dell’assoluto”.

Bloy era stato

impietosamente obbligato, da quel Mistero che abita l’umana esistenza, a varcare la soglia che dal dolore individuale conduce al dolore universale, un dolore che non fa rumore, durissimo da portare, impossibile da evitare. Bloy avrebbe dato volentieri la sua vita per strapparsi questo dolore, ma gli era impossibile, non gli appartenevano né la vita né il dolore e aveva solo un’arma per riuscire a convivere con questa sofferenza: la preghiera che

diventava parola, quindi romanzo. Vi si abbandonó, dunque,come un bambino che, alla fine, non ha altra scelta che obbedire a mamma e a papà. Solo talvolta, la pace e la gioia di una verità che gli si rivelava e che riusciva a trasmettere, lo alleviavano per un momento, qualche ora, un giorno, da quella durissima sofferenza interiore. Voglio chiarire: Bloy non è uno scrittore dolorifico o lacrimoso, al contrario. E’ uno scrittore, direbbe san paolo, molto carnale, di sangue e di violenta carità. Credo che sia stato un uomo con una vocazione speciale, quella di guardare e sperimentare al posto nostro quel parto che permette alla realtà di esistere. Il suo è molto vicino al dolore che hanno provato certi santi, come Teresa del Bambino Gesù o san Giovanni della Croce o Teresa la grande. Nell’economia che sembra vigere non solo nelle case di noi poveri, ma anche nella storia dell’umanità, è come se alcuni debbano soffrire al posto di altri, per permettere che questi altri non siano schiacciati da una croce troppo pesante. Ed è dovere di questi tipi umani, delle persone che hanno questa vocazione, trovare un senso al dolore e farcelo sapere. Notevolissimo scrittore, di cui i francesi vanno molto orgogliosi, attorno a Bloy si costruì un giro di intellettuali che Raissa Maritain, un’ebrea convertita al cristianesimo e sposa del famosissimo filosofo Jacques Maritain, immortalerà nel suo libro I grandi amici. In Pavese, io ho trovato lo stesso tipo di dolore che ho incontrato in Bloy. Sono uomini della stessa stoffa. Scrive Pavese nel suo diario del 26 di marzo del 1938: “Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci crede: è naturale. E forse è questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.” Parla dell’amore per una donna come sapete, ma c’è un più in là, che noi tutti avvertiamo come assenza di quell’Assoluto che avrebbe potuto sanare

ogni cellula del suo corpo. E’ lui a dirlo in alcune pagine del suo diario del 1944, annata che lui stesso definisce “strana, ricca. Cominciata e finita con Dio” e poi aggiunge parlando a se stesso: “potrebbe essere la più importante che hai vissuto”. Cito sono un frammento brevissimo: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione...Si arriva ad augurarsi il dolore” (1 febbraio). E il 2 dicembre: “Di nuovo l’esperienza che si desidera il dolore per avvicinarsi a Dio”. Non sono dunque suo nucleo di fondo e centrale i dolori psicologici né sono

le mancanze affettive quelle che si nascondono dietro le lucide

creazioni di questi due geni della sofferenza che furono Bloy e Pavese: è qualcosa che ha a che vedere con l’eterno, e con una vita più forte del vivere stesso, cioè con l’Assoluto. I due scrittori lo esprimono in forme molto diverse, entrambi comunque frutto di un paziente lavoro di identità tra ciò che vedono e ciò che sentono e di adeguazione della loro parola all’orecchio di chi li ascolterà con attenzione. E’ il loro un dolore che normalmente li sorprende, non lo vorrebbero, non cercano se non dopo una lunga formazione ad esso, contro cui spesso combattono, che li lascia soli con un desiderio molto puro di abbraccio della verità, evento che non può venire nè dall’abbraccio della donna nè dal successo. E questo loro dolore, con cui io mi scontravo essendo molto giovane e abbastanza superficiale, sentivo però che mi commuoveva profondamente anche perchè era difficile ammetterlo ma riconoscevo che, se mi fosse stato dato di conoscere personalmente Pavese o Bloy, non avrei saputo in alcun modo camminare al loro livello. A me Pavese al massimo avrebbe potuto dire quello che scrisse a Pierina, quella ragazza di Bocca di Magra che

troviamo nelle sue lettere: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due, che le mie stesse parole mi ritornano in bocca e mi feriscono” (agosto del 50). Mentre invece, Jeanne Molbek, la giovane che si prese cura di Bloy, che lo amò e lo sposò, se non ebbe certo vita facile, era però anche lei

di tempra eccezionale come il suo sposo e non c’era fra loro

sproporzione. Nello stesso tempo, quel dolore che trovavo identico nel religiosissimo Bloy e nel presuntamente ateo Pavese, aprivano a me un orizzonte nuovo sul divino, che poi era anche per me l’unica cosa che importasse veramente. Cominciavo a conoscere un’esperienza molto diversa dalla mia, che avevo in dio un amico sempre feldele e che mi dava sempre ragione (come direbbe Simone de Beauvoir):

vedevo cioè che dio – così lo chiamiamo per

tradizione; d’altra parte è un nome comune, non un nome proprio – abita dentro l’uomo, se entri in te lo trovi, ma non sempre, non per tutti è un dio che consola o che ti dà sempre ragione. E mi piaceva moltissimo che Pavese, come del resto Bloy, non avessero mai tentato, come fecero invece gli amici di Giobbe, di “giustificare” questo Dio che a volte non consola, che a volte sembra distantissimo e ingiusto, che sempre sembra anche voler riaffermare la sua alterità rispetto all’uomo, pur quando gli concede la vicinanza del dialogo. Né Bloy né Pavese hanno mai cercato – parafrasando il poeta messicano Julio Hubard – di “salvare colui che ci salva”. Ad alcuni, questo dio sembra infatti riservare un cammino del tutto speciale e particolarmente doloroso, inesplicabile con il racconto di pur drammatici eventi esterni. E Pavese si trovò ad accettare già in giovanissima età (e cito parole sue) di “fare lo scoglio non più l’onda”. Quello di Bloy era consumare la propria vita perchè altri avessero lo Spirito, che per lui era santo. Pur detto con parole differenti, identico era il compito di due scrittori tanto

diversi e pur con tanti punti ideali di contatto. Nessuno dei due si protegge dietro una morale da pochi soldi o di luoghi comuni, quei luoghi comuni che ci danno tanta sicurezza e che però sviliscono un poco il mondo che con noi continua. Nessuno dei due si preoccupa di formulare un definitivo e sicuro sistema di pensiero capace di far tacere l’ansia di semplice assoluto che hanno dentro. Lo scrive con molta grazia e umorismo Pavese, 19 febbraio 1938, ne Il mestiere di vivere: “Quei filosofi che credono all’assoluto logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna”. Entrambi rifiutano il decadente nichianesimo dell’ultima ora (atteggiamento che esplicitamente Pavese rifiuta e disprezza) e avrebbero trovato semplicemente insalubre il cinismo di Sartre. Pavese come Bloy sa che la risposta verrà dall’esterno e l’attende con la disponibilità di cambiare davvero rotta. Scrive il 29 gennaio del 1944: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di divinità. E`questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui: in questo tremito del “se fosse vero!”. Se davvero fosse vero....” Ma quel dio che in lui abita tace molto spesso, come tacevano i suoi antenati, come tacevano lui e suo cugino camminando in collina. E’ un dio che però sempre riappare, simile alla balena di Moby Dick, nella sua forza cosmica, nel suo sangue che non significa mai morte ma sempre vita che nuota in un oceano che l’uomo vorrebbe racchiudere in un bicchiere, per vincerne la paura ma anche per poterlo accarezzare.

Sia Pavese che Bloy lavoravano come monaci. E’ proprio Pavese che scrive, ancora nel suo Diario: “Gli artisti sono i monaci dell’etá borghese. In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di contatto con l’eterno, quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel monaco”. Léon Bloy, poverissimo, con moglie e figli, dettava in miseria i suoi romanzi e si manteneva grazie all’aiuto di alcuni estranei benefattori e facendo un pazientissimo e faticosissimo lavoro di miniaturista. Pavese anche lui lavora indefessamente, gioisce di un paio di scarpe nuove sotto la pioggia di Roma, ma non si concede mai un profondo totale svago. I suoi occhi guardano al posto nostro per guidarci come si fa coi ciechi, riservando per sè tutto il dolore possibile, sempre timoroso di essere lui un cieco che guida altri ciechi. Lui sa che vuole guidarci allo stupore e alla meraviglia, più che al dolore e all’ingiustizia, tanto che scrive nel Diario (11 maggio del 1938): “Indiscutibile, essendo che tutta l’arte mira alla “meraviglia”: meglio, a “insegnare la meraviglia”. Stupendosi del “come” e non del “che” ci si potrà stupire poi, sempre che si voglia.” Infatti, mi domando: questo suo dolore che troviamo ad ogni pagina, perchè in qualche maniera tempera e non acuisce il dolore che troviamo anche dentro di noi? E`che, nonostante e forse grazie proprio a questo involontario dolore, non si spegne mai in lui la “corrente di simpatia” (come la chiama il 26 maggio 1938, ne Il mestiere di vivere) che esisteva tra lui e le cose e questa corrente di simpatia entra in noi, ci apre i polmoni, ci dona un respiro più ampio, meno affannato e brancolante. E scriverà cinque giorni dopo: “Almeno le cose bisogna amarle, per creare qualcosa. Ma per amare le cose, bisogna amare anche le persone. Non si scappa.”

Terreno dove si giocano passioni non volute, sicuramente subite, analizzate, raccontate, che diceva di “stare in guardia da chi non si è mai irritato” (22 luglio 1938, ne Il mestiere di vivere) l’anima di Pavese arriva a dire quella bellissima frase che me lo ha fatto amare ancora di più (e cito): “E’ una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi, retorica. Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di meno dagli uomini. Da chi non è pronto – non dico a sacrificarti il suo sangue, che è cosa fulminea e facile – ma a legarsi con te per tutta la vita (rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti accettare neanche una sigaretta”. (11 giugno 1938 – Il mestiere di vivere). E qualche mese prima aveva scritto: “Se Dio non c’è tutto è permesso. Basta con la morale. Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostojevskij, tutto il resto sono balle” (26 gennaio 1938 – Il mestiere di vivere). E sia Bloy che Pavese erano coscienti di avere il compito di salvare la loro generazione. Pavese lo scrive il 23 gennaio del 1950, con molta serietà a Mario Motta che negava l’esistenza della poesia nel suo tempo e cito: “Bada che io la difendo, questa poesia, anche senza tener conto che c’è uscito Lavora stanca, libro che basta (non scherzo) a salvare una generazione”. Per Pavese, la poesia non era infatti un passatempo o uno sfogo, era davvero il dio che parla. Spero non vi scandalizziate troppo se il “mio” Pavese vi risulta un po’ diverso da quello che trovate descritto da altri. Ma dobbiamo riconoscere che è molto povero il monumento che gli è stato edificato, ed è un vestito stretto quello che gli hanno cucito addosso. Non possiamo amare Pavese se non cogliamo il senso profondo di trascendenza, il suo desiderio di trascendenza, la sua ansia di trascendenza, perchè egli era della razza che

dice: “E’ inutile, in tutti i tempi, di moderne veramente, non c’è che le persone di buon senso”. E chi ha buon senso non nega mai il mistero. Lui scrive questo ne - Il mestiere di vivere, 16 febbraio 1938 - un anno fecondo per la sua vita, un anno in cui riconosce di essere privo di ciò che tutti al mondo sembrano sviluppare fin dall’infanzia: vale a dire “l’astuzia”. Sicuramente proprio per questa mancanza di astuzia era un uomo solo, che ha generato personaggi che sono soli. “Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia...” (6 novembre 1938). Forse perché non aveva attorno a sè nessuno che potesse dialogare con lui al livello di cui il suo spirito avrebbe avuto bisogno. Prima di fare il suo viaggio nel regno dei morti (così definisce il suo suicidio, in una lettera a Davide Lajolo), Pavese scrive a sua sorella Maria – era il 17 agosto del 1950 - e cito: “Ecco 5000 Lire per il parroco di Castellazzo, così continuerà a predicare storielle – speriamo che ci creda almeno lui”. Ecco, a parte i dialoghi con questo parroco – per il quale è evidente che aveva affetto ma il cui vangelo era una storiella inadeguata alla cultura e al dramma di Pavese, Cesare non ebbe nessuno attorno a lui con cui parlare a fondo e bene, fino alle radici ultime, del Mistero che salva. Per questo Pavese è anche un simbolo del nostro tempo, in cui sono pochi quelli che incontrano un altro con cui poter parlare (e la parola è creazione) di ciò che veramente ha valore. Léon Bloy aveva vicino a sè Jeanne Molbeck e il gruppo dei suoi alunni che cercavano Dio. Ma Pavese era circondato dalle vigne, dai colli che amava, da qualche amico altrettanto silenzioso e parco di risposte, e dalla vanità. C’ erano le da lui odiatissime avanguardie, c’erano i da lui odiatissimi salotti romani, e c’erano i libri, e sempre e solo i libri, quelli che venivano dai paesi lontani e i libri di religione, visto che curava due collane da Einaudi: le traduzioni e la collana di libri religiosi. Per lui, “un’aquila in

gabbia”, come lui stesso si definisce, c’erano il Po, le Langhe, i dialoghi in silenzio in cui attendere che un dio parli, e poi ancora solo i libri e i lettori. Scrive a Calamandrei: “La sua lettera è venuta come una brezza nel deserto. Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro(...) Spero di superare queste secche e lavorando dell’altro darle ragione fino in fondo.” Vediamo che fino all’ultimo Pavese – che si ucciderà cinque giorni dopo aver scritto questa lettera (una lettera che dunque supera quel “non scriverò più” delle sue ultime parole del diario) – aveva per quel giorno la speranza di poter riprendere, di potercela fare a contnuare con la sua vocazione di guidare un mondo di ciechi. Pavese avrebbe meritato amici più religiosi, cioé più disposti a vincolare, con l’azione e il pensiero, la loro vita in senso profondo e libero con il Mistero che salva. Ma era invece attorniato da chiesette o da fatuità. Solo i suoi lettori, nel silenzio della lettura individuale, nelle recensioni (anche se alcune, a volte, erano interessate), gli garantivano che aveva lavorato, che aveva “dato poesia al mondo”, alle volte come si danno le perle ai porci, alle volte come si dà da mangiare agli affamati. Per Pavese, come per Montale, abbiamo detto, “tutte le immagini portano scritto: “più in là”. I greci e i latini hanno dato a Pavese questo senso acutissimo del destino: Socrate beve la cicuta perché così paga il prezzo che deve alla patria per non averne rispettato le leggi, ma anche perchè sa che o un dio viene a rivelargli quello che la ragione non raggiunge, o non resta che morire per andare a vedere come stanno davvero le cose.

Ma secoli di cristianesimo non sono passati invano nemmeno per Pavese. E’ forse venuto il dio che ha rivelato all’uomo quello che la ragione non può raggiungere da sola? E se questo dio si è rivelato, ha davvero chiarito qualcosa che prima non era chiaro? E questo si domanderà poi Antonio De Petro in tutta la sua opera e darà una risposta ragionevole ed esauriente (almeno per me). Noi troviamo nel diario di Pavese questa congiunzione inevitabile, per un uomo di seria cultura, tra le domande poste dai greci e le risposte offerte dal cristianesimo: tra “la saggezza greca e il paradosso cristiano”. La domanda centrale è sul volto che ha il destino, la moira, il fato. E’ esso buono o cattivo? Dalla risposta a questa domanda, dipende tutta la vita di una persona. Perchè Pavese sa bene di non aver scelto sua madre, di non averle saputo nemmeno corrispondere: lo spazio che è dato all’uomo per costruire il proprio destino è molto limitato. Non abbiamo scelto quasi nulla di quello che conta: il carattere, la storia, il paese, la lingua che ci viene naturale parlare, le domande che abbiamo dentro....Se la maggior parte di quello che siamo e viviamo lo abbiamo ricevuto,è fondamentale domandarsi se il destino – o dio – che ci ha dato tutto questo è buono o cattivo. E ci sono molte pagine del Mestiere di vivere in cui Pavese chiaramente affronta questo tema, il tema degli dei, che occorre tenere buoni perchè sanno essere molto crudeli e ottengono sempre quel che vogliono e cito: “La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. Di qui il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le norme magiche, i tabù o i destini, che devono essere osservati; di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dover essere” (Il mestiere di vivere, 26 settembre del 42).

E uno dei temi che più mi sembra di poter dire che lo affascinano è il tema del sacrificio, di cui abbiamo parlato a lungo con gli studenti del corso di letteratura di questo semestre. Sacrificio nella sua etimologia significa “rendere sacro”, restituire a chi è il sacro dei sacri (cioè al Mistero) diventerà

poi la forma normale di intenderlo, fino al significato più

quotidiano di “fare fatica”. Tutti ricordano che è proprio Agamennone che accetta di sacrificare la bella e giovane figlia Ifigenia, per calmare l’ira degli dei e vincere la guerra. Sappiamo che i greci avrebbero meritato delle divinitá

migliori, ma dovevano proteggersi comunque da loro. Anche

Pavese lo fa: ricorda in una lettera che quando andava a scuola e doveva fare gli esami, si sforzava al massimo di essere buono per tutta la settimana, di non fare nessuna cosa che non andava fatta, per poter così riuscire bene nell’esame. E’ la superstizione naturale, quella che ci viene dal concepire dio non come colui che di sè parla a Giobbe ma come un bottegaio che ci vende il prosciutto solo se abbiamo in tasca i soldi per pagarlo. Questo concetto del sacrificio tanto pagano – cioè del popolo – noi lo ritroviamo chiaramente in Paesi tuoi. Gisella è la primizia, il primo fiore che spicca diverso nel giardino selvaggio ed è a lei che tocca la parte dell’Ifigenia sacrificata una e più volte da un Talino geloso, iroso e pazzamente deciso a servirsi di tutti, proprio come Agamennone. L’uno vestito di pompa reale; l’altro col suo fazzoletto a quadri con cui asciuga un maleodorante sudore: sempre siamo di fronte a un re che decide la morte per salvarsi il futuro. E per la gente che vive attorno a Talino, Gisella, che ha il sapore delle mele, non può sfuggire a questa legge: sarà concime per il raccolto che non deve mai venire meno. Per vedere se ho ragione o mi sbaglio, potreste leggere contemporaneamente Paesi tuoi di Pavese, Uomini e topi di Steinbeck e Los

santos inocentes di Miguel Delibes. L’ambiente è comune ai tre miti. E vedrete che Pavese parla del sacrificio necessario, Delibes del povero che fa giustizia e Steinbeck ci racconta la parabola di Lennie, il cui sacrificio rende più vuoto e inabitale il mondo. Sono tre miti appunto, tre parabole che ci permettono di camminare nella selva umana con un cuore capace di quella compassione senza la quale ogni atto é male. E forse – ma non ne sono completamente sicura – dobbiamo guardare come possibili vittime sacrificali tutte le morti, volontarie e involontarie, che abitano le novelle di Pavese. E mi chiedo se anche la sua di morte non sia da collegare al concetto pagano del sacrificio che garantisce il buon esito del raccolto. Non so. Come giustamente è stato detto in una delle conferenze dei giorni scorsi, Pavese sembra anche aver riconosciuto da sempre e alla fine abbia perciò abbracciato la morte che il destino aveva pensato per lui. Cito dal suo diario (26 di marzo del 1938). “La lotta ora non è più tra il sopravvivere o il decidermi al salto. E`tra il decidermi al salto da solo come sono sempre vissuto o portare con me una vittima – perchè il mondo se ne ricordi.” Questo cammino di Pavese per andare oltre il sacrificio, oltre le apparenze, per abbracciare il tipo di morte che gli era stata destinata è un altro degli aspetti che varrebbe la pena approfondire e documentare in tutta la sua opera. Perchè servirebbe molto al nostro tempo, in cui cominciano a suicidarsi ragazzini delle elementari. Pavese era di quelli che davanti alle navi che salpano– per citare sempre Montale – si fermano a terra, perchè poi ritornare è ben diverso da ciò che si pensava al momento di partire. “Andare al confino è niente; tornare di là è atroce” (25 dicembre 37).

E sulla sua morte, solo ricordo quella nota, così poco chiara eppure così interrogante che troviamo nel diario sempre del 1938, l’8 gennaio: “Voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia una suprema scelta, un atto inconfondibile”. Fu dunque il suo un gesto di ubris (“L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto” – dice Pavese 18 ottobre del 42) o di umile accettazione? Lo sapremo sicuramente alla fine dei tempi, se allora saremo tuttavia interessati alle vicende di questa vita terrena. E dunque, tutto questo nostro discorrere su di lui, con lui e per noi, c’entra qualcosa con la non-violenza? Forse no. E’ che quel mio titolo – Pavese e la non violenza - è nato dal tremendo fatto che ha colpito Javier Sicilia, dal suo grido per la pace, che speriamo possa davvero risultare un grido personale e collettivo, silenzioso, pacifico e trasformatore, con la marcia che comincia domani nella voglia di tutti di un mondo più giusto e umano. Pavese non era in sè un non violento: non amava – come risulta dal Diario - né Tolstoy, né Gandhi, i maestri della non violenza. Pavese dice: “O con amore o con odio, ma sempre con violenza” (25 dicembre del 37). Perché dei violenti è il regno dei cieli: lo dice anche il Vangelo. Ma si tratta della violenza di chi lava i piedi ai propri fratelli: cioè tutt’altra cosa dalla violenza che subiamo o commettiamo. E la non-violenza di Pavese io la ritrovo non tanto in quello che ha detto, quanto in quello che ci ha insegnato. Ci ha insegnato almeno a desiderare di arrivare ad essere una carità vivente e su questo ci sono pagine sue bellissime, sia nelle lettere sia nel diario sia nel colloquio con se stesso che fa nei Dialoghi con Leucò. Cito quasi a caso: Scrive: “Ti piacciono le cose assolute? Non puoi costruire un

amore totalitario; costruisci una bontà totalitaria” ma “La bontà che nasce dalla stanchezza di soffrire è un orrorre peggio che la sofferenza” (16 e 20 febbraio 1938, Il mestiere di vivere). Sulla forza con cui, attraverso le parole, la sincerità e l’umiltà e la pura contemplazione dei ricordi, Pavese vuole costruirsi come uomo, non c’ è dubbio alcuno. Sul suo amore agli uomini e alle cose – sul quale “volano i petali dei meli e dei peri” (18 aprile del 45) – non c’è dubbio. Ma non era un uomo “politico” nel senso con cui usiamo normalmente questa parola. Non avrebbe mai voluto fare il deputato o la resistenza armata o il presidente di un sindacato. Con gli operai ci andava, insieme al suo gruppo di Strabarriera, nelle bettole di Torino, e li contemplava e a suo modo li amava e ne succhiava la selvaggia naturalità e la nodosa ritrosìa. Anche se fu mandato al confine, anche se scriveva sull’Unità ed era un comunista, per obbligo di coscienza, in Pavese non incontriamo un rivoluzionario o un leader sociale o uno stratega che mette al servizio dei suoi un’inetteligenza che permetta loro di arrivare più in fretta al potere. Tutto questo è estraneo al nostro Pavese il cui pensiero insegue il colore dei mari della Tasmania e l’Orca bianca che domina fuggente l’oceano. Però appunto ha formato una generazione di giovani ad amare la pace e la libertà. Anche se mi costa un po’ citarla, il ricordo che di Pavese fece Fernanda Pivano quando già era molto anziana, durante un’intervista, credo renda ragione di quanto sto dicendo: “Ero poco piu' che una bambina, diciamo un'adolescente, quando Cesare Pavese, il destino lo ringrazi per tutto quello che ha fatto per me, per noi, mi ha dato questo libro (parla dell’ Antología di Spoon River) dicendomi: "Sono sicuro che lei capira' cosa vuol dire". (…). E' la fiducia di Cesare Pavese che mi ha fatto andare avanti tutti questi anni. Chi lo sa se questo libro l'ho capito, ma non

ho mai smesso di amarlo e di pensare che stava cambiando il pensiero dei ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo, verso la liberta', verso la fiducia nei valori morali che cercava di impadronirsi delle nostre anime minacciate di allora. (…).” Pavese vediamo che regalava ai suoi giovani amici dei libri che invitavano alla libertà e alla pace. Continua la Pivano: “In fondo veniva fuori che era un modo come un altro di legarci di piu' ad autori misteriosi che mostravano un esempio di come si puo' aiutare folle di giovani a cambiare, letteralmente cambiare, le basi ideologiche della vita. Pavese mi ha cambiato per sempre la vita facendomi leggere Ernest Hemingway, Sherwood Anderson, Walt Whitman e questo poeta poco piu' che conosciuto di nome come era ancora Edgar Lee Masters. Erano (le voci) vietate di una piccola rivista preziosa che si chiamava "La cultura", forse la prima rivista a presentare Pavese per quello che era, un antifascista perseguitato, e coraggioso esponente di idee supervietate che stavano costruendo il nuovo mondo. Erano idee piu' precise e definitive di quelle che avevano portato mio padre alla sua rovina, con un futuro che pareva ormai senza luci. E il mondo era cosi' anche per Pavese, e io ero li', bambina incapace di credere nel mondo che aveva distrutto mio padre e ansiosa di conoscere speranze di un mondo come quello che aveva distrutto Pavese. (…) Tra Melville e Hemingway mi faceva leggere i poeti che gli mandava il suo amico farmacista da New York; e mi spiegava, mi spiegava i loro sogni, mi spiegava le loro inafferrabili speranze.” (fine della citazione) Pavese era un uomo buono: la sua non violenza è tutta qui. Leggiamo nel diario del 27 maggio del 47: “Una persona che ti ripugni, va

sopportata. Dopo un po’ viene fuori – infallibile – qualcosa di non comune, di vero”. Anche per me questo è un modo vero, per tutti possibile, di fare qualcosa per cambiare il mondo.