Formato pdf - Le reti di Dedalus

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letto i libri di Liala o Neera o Brunella Gasperini e viceversa. Ma oggi è come se quell'Italia cosiddetta 'profonda' (profonda? mah!) sia venuta tutta allo scoperto, ...
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NOSTRA SIGNORA DEL COMUNISMO PERDUTO Noterelle ‘random’ su, attraverso e intorno al libro “La ragazza del secolo scorso” della fondatrice del “manifesto”. Un’autobiografia sui generis che ripercorre, principalmente, gli anni della militanza nel Pci fino alla radiazione nel ’69 e rigetta, in modi anche controversi, una imbalsamazione mitizzante della propria storia. ****** di Marco Palladini 1. La diluviale chiacchiera post-elettorale sembra vertere tutta sulla supposta spaccatura verticale dell’Italia. Ma forse il Bel(non)Paese più che in due è diviso almeno in tre o in quattro e, magari, in cinque. Quante che siano le linee di frattura, esse ci sono e non mi paiono a breve-medio termine sanabili. Ne ho avuta quasi una plastica evidenza qualche settimana prima della tornata elettorale, entrando a Roma nella libreria Melbook Store a via Nazionale: i grandi display che calavano dal soffitto informavano, secondo in un ossessivo loop, sulle classifiche del mercato editoriale, e non poteva non farmi effetto constatare che alle spalle del romanzetto di Federico Moccia Ho voglia di te ci fosse La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda. Impossibile non vedere che i lettori dell’uno e dell’altro volume fossero la proiezione di due segmenti d’Italia agli antipodi, prima ancora che politicamente, direi nella loro substantia antropologico-culturale. Certo, mi sono detto, anche in passato è stato così, chi leggeva Gramsci o Pasolini o Sanguineti mai avrebbe acquistato e letto i libri di Liala o Neera o Brunella Gasperini e viceversa. Ma oggi è come se quell’Italia cosiddetta ‘profonda’ (profonda? mah!) sia venuta tutta allo scoperto, anzi grazie al concomitante dominio mediatico-popolare della tivù-spazzatura si sia posta al centro della scena, non si senta affatto sottocultura o serie B o serie Z. Nella neo-società di massa sur-moderna la regola è Moccia, è Rossanda l’eccezione. Il successo di vendite del libro di memorie di una pubblicista comunista, ultra-ottantenne e non pentita, chissà se è l’ennesima riprova ed astuzia dell’ipermarket globalizzato che trangugia indifferentemente qualunque cosa, o è il segnale che, nonostante tutto, non tutto è ancora perduto. 2. Ho citato prima Pasolini. Ecco mi ha colpito che nel libro della Rossanda il poeta friulano sia nominato appena di sfuggita. Per una che è stata negli anni ’60 del secolo scorso a capo della Commissione Cultura del Pci e che, quindi, allora manteneva e gestiva i rapporti e i raccordi con gli intellettuali ‘d’area’, il fatto che ignori quasi completamente l’artista e l’intellettuale di sinistra filomarxista più noto e in vista di quel decennio, la dice lunga sulle divaricazioni e diffidenze che correvano tra il ‘partito’ e gli uomini di cultura che ad esso facevano riferimento. Certo, la storia dei rapporti tra Pasolini e il Pci è ricca più di incomprensioni e di rotture che di coincidenze e di collaborazioni. E le traiettorie eterodosse, ‘luterane’ del pensiero dell’autore delle Ceneri di Gramsci erano, comunque, troppo contraddittorie e perturbanti per poter essere captate e accolte da una ingraiana-togliattiana che ancora non aveva maturato il suo endogeno dissenso di sinistra radicale. Ma anche dopo, tra la ‘disperata vitalità’ e i toni apocalittico-pessimisti dello scrittore e le ottimistiche strategie del gruppo del Manifesto che proclamava l’attualità storico-politica del comunismo non ci fu alcun vero incontro. Non solo l’Italia, ma pure la sinistra italiana è sempre

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2 stata profondamente e anche aspramente divisa in più parti e indirizzi, e il volume rossandiano non fa nulla, giustamente, per occultarlo. 3. Rossanda vista da vicino. Era l’autunno del 1974 e dirigevo la sezione degli studenti universitari romani di Avanguardia Operaia, un gruppo marxista-leninista che in quel momento cercava di praticare tattiche unitarie con le altre formazioni della sinistra extraparlamentare. Con i compagni del Manifesto avevamo organizzato alla Casa dello Studente di via Cesare De Lollis un seminario di discussione sulla riforma dell’università. La Rossanda era l’invitata d’onore, avrebbe chiuso i lavori. Quando arrivò nel pomeriggio, le andai incontro con i responsabili del Manifesto. Fino a quel momento l’avevo vista a qualche convegno o assemblea, ma sempre di lontano, lei carismatica sul palco, io anonimo tra i tanti in platea. Fu la prima e, se non erro, penultima volta che le parlai direttamente. Per quel che ricordo, credo che fossi abbastanza emozionato ed impacciato. Per i militanti del Manifesto lei era poco meno di un mito, io non sentivo di avere mitologie da riverire, ma ero pur sempre un ventenne sedicente militante rivoluzionario che si trovava al cospetto di una donna adulta, riservata, severa, distante che imponeva con la sua sola presenza rispetto e soggezione e a cui non veniva affatto naturale dare del tu. Scarpe col tacco basso, gonna al ginocchio, golfino da signora perbene, giacca tre quarti di buon taglio, la Rossanda non faceva nessunissima concessione al giovanilismo esteriore e neppure al folklore femminista: appariva austera e rigorosa sino al grigiore, al punto che, rifiutando di tingersi, a soli cinquant’anni aveva tutti i capelli imbiancati, ciò che la faceva sembrare ai miei occhi tardo-adolescenti ben più anziana di quel che fosse: neppure una genitrice, bensì una nonna del comunismo rivoluzionario. Dietro il suo sguardo vagamente malinconico, si intuiva comunque una disciplina di ferro, la disciplina dura e pura di una militante che veniva da lontano (come recitava un famoso motto del Pci). Così, lei ascoltò quel giorno con attenzione e con interesse non simulati tutti gli interventi, anche quelli più disarticolati e scalcagnati, e infine prese la parola, senza alterigia, dandoci una lezione di sapienza politica, di logica argomentativa, di sottigliezza dialettica. Noi balbettavamo slogan e rimasticavamo frasi fatte, lei svolgeva acutamente un pensiero in atto. Questo, almeno, lo capii e, forse, mi resi conto che non avrei mai saputo attingere il suo livello politico. Certo, col senno di poi si può dire che tutta questa abbondante produzione di intelligenza e di analisi critica è servita a nulla, eppure credo che per me quella lontana lezione di rigore, di eleganza, di volontarismo etico non sia passata invano. È stata ingrediente di quel percepirsi diversi che è la radice e la scaturigine della mia visione di scrittore. 4. Dicevo dell’aura mitica che circonfondeva trent’anni fa la figura di Rossana Rossanda. Lo rammenta lei stessa nel risvolto di copertina del suo libro, per ribattere: «Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due». E infatti la sua autobiografia è tutto meno che una ‘automitografia’. Il suo intrecciarsi con la vicenda del comunismo nazionale e internazionale è tutt’altro che pacificato e cristallino, risulta ancora pieno di conflitti irrisolti e di oscurità e di rimozioni. Il libro si interroga e ci interroga su una soggettività di sinistra che ha attraversato le tempeste del Novecento “al fuoco di ogni controversia” (Mario Luzi dixit) ed è approdata sul bagnasciuga del XXI secolo priva di certezze, senza alcuna credibile strategia. E, forse, è questo il suo vero punto di forza e di attrazione. Il successo di vendite del libro non è, probabilmente, dovuto al fatto che chi l’ha scritto emana un mito rassicurante, bensì perché riflette suo malgrado un mito traballante, eppure resistente. In questo traballare e, tuttavia, ostinarsi a non cedere (del tutto) si identifica attualmente un pubblico di lettori per i quali l’essere di sinistra corrisponde più che a un orizzonte ideale ad uno stato sentimentale. Una condizione anche di confusione e di frustrazione in cui si insinua permanente quel disagio magnificamente espresso e sintetizzato da Pasolini, poco prima di morire: «Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario, mi trovo imbarazzato, sorpreso, ferito per una irata sensazione di peggioramento, di cui non so parlare né so fare domande…».

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3 5. La ragazza del secolo scorso è una memoria autobiografica, certamente, ma forse è ancor di più un omaggio e un tributo al Pci. Non solo e non tanto a quello che storicamente è stato e ha rappresentato, quanto all’idea alta e nobile di partito che esso ha saputo incarnare. Un’idea protonovecentesca di partito pedagogico, di partito-chiesa, di partito-madre in cui identificare il senso di tutta una vita, di una scelta esistenziale destinale. Ci sono pagine e pagine della Rossanda dove leggiamo che nonostante i ricorrenti dubbi, le oscillazioni, le perplessità su quella o quell’altra decisione politica, nonostante tutto mai viene messa in causa realmente l’opzione della militanza. A partire dalla adesione fattiva a diciannove anni alla Resistenza e, poi, via via lungo tutti gli anni ’40, i durissimi anni ’50, i quasi palingenetici anni ’60, è indiscutibile per Rossanda la scelta forte di appartenenza, la scelta di fare corpo unico con il partito, la volontà di identificarsi con tutta l’anima con una vicenda politica che a Milano e, in generale, nel nord significava un riferimento concreto e costante al lavoro di fabbrica, all’agire degli operai, anzi al farsi della classe operaia centro e motore di una spinta al mutamento radicale del modo di produzione, al sovvertimento politico della società. Ed è il partito a raccogliere questa spinta, a darle un linguaggio, una prospettiva, a trovare le giuste mediazioni tra base e avanguardia. Funzionaria e, poi, dirigente al tempo della Federazione comunista milanese, la Rossanda vive in diretta tutti i cruciali passaggi storici: la ricostruzione postbellica, l’esaurirsi dell’unità resistenziale antifascista, lo scoppio della ‘guerra fredda’, la sconfitta alle elezioni del ’48, il lungo periodo dell’egemonia democristiana, la caduta del governo Tambroni, il primo centrosinistra, il ripartire delle lotte nelle fabbriche, l’esplosione multipolare degli anni ’60. Ma soprattutto si conferma nell’idea che soltanto dentro la visione ideologica, la ‘scienza della lotta di classe’ di cui è portatore il Pci si possa dare a lei, intellettuale di provenienza borghese, un ruolo autentico nella storia di emancipazione dell’umanità, e di contro fornire a milioni di proletari una chiave di lettura storica capace di riscattare le proprie vite infami, l’emigrazione, il lavoro alla catena, lo sfruttamento e la povertà. È questo che difende, testimonia e rivendica la Rossanda: che nel bene e nel male il Pci ha dato voce, sostegno e coscienza politica a masse di lavoratori, figli di chi per secoli è stato senza voce, senza cultura, senza speranza, incapace di pensare la propria esistenza come inscritta in un movimento sovraindividuale di liberazione. E soltanto nel lavoro di partito l’intellettuale borghese poteva superare i suoi limiti e privilegi di nascita e farsi, gramscianamente, intellettuale organico, sacerdote politico, missionario del verbo rivoluzionario. È a questo che la Rossanda si è conservata fedele tutta la vita, anche quando il Pci l’ha radiata dalle sue fila. Anche quando, anzi tanto più quando il Pci ha conchiuso la sua parabola, diventando nel post-’89 il Pds, mutando assieme al nome pelle e natura, trasformandosi in un'altra ‘cosa’, in un partito non più ‘diverso’ dagli altri (e la Rossanda tuttora inveisce contro gli “Attila della Bolognina”, in primis Occhetto e D’Alema). 6. Per più di un verso il libro di Rossanda è prezioso perché fornisce, sotto forma di testimonianza personale, un piccola storia del clima, degli umori, dei moventi e dei movimenti profondi del gruppo dirigente del Pci. In particolare, è interessante la ricostruzione ‘da dentro’ dell’atmosfera in cui maturò, esplose e si decise all’XI congresso del ’66 il capitale scontro tra Amendola e Ingrao. Con il primo vòlto ad esprimere (bisogna dire ante-litteram) la vocazione socialdemocratica all’europea del Pci, ma al contempo determinato a conservare un forte, autoritario controllo burocratico sull’apparato di partito e una formale sottomissione al legame con l’Urss – rammenta Rossanda che una volta Amendola provò, durante un comitato centrale, a reclamare una maggiore autonomia da Mosca, Togliatti lo zittì bruscamente e la cosa morì lì, Amendola non ci provò più. Dall’altra parte Ingrao, per cui Rossanda tifava, dirigente che appariva più dubbioso, aperto, problematico, ma afflitto da un permanente amletismo che lo conduceva ad una irresolutezza prigioniera del centralismo democratico e di una pedissequa logica di fedeltà di appartenenza (right or wrong is my party). Una fedeltà pressocché cieca, quella di Ingrao, durata in pratica sino al 1994, quando il Pci non esisteva più da un quadriennio e il Pds aveva già subito la scissione a sinistra con la nascita di Rifondazione. Il paradosso Ingrao, leader e punto di riferimento degli eretici di sinistra del Manifesto, si appalesò ancor più nel novembre del ’69 quando non esitò a votare a favore della 3

4 radiazione dei suoi stessi seguaci. In pratica, è come se, per spirito di fedeltà al partito, Ingrao acconsentisse alla sua autocastrazione. Insomma, il paradosso Ingrao è l’emblema del fallimento e del nullismo delle istanze della sinistra comunista dentro il Pci – ma questo lo dico io, non lo dice per antico affetto e immutata amicizia la Rossanda. Tutto questo è, peraltro, assai paradigmatico della dimensione chiesastica, curiale del dibattito e dei comportamenti politici all’interno delle sfere dirigenti del Pci, i continui rinvii davanti alle questioni spinose, le autocensure, le elusioni, le cautele ossessive, gli accenni critici iper-criptici negli interventi al comitato centrale, il ripetere per decenni tutta una liturgia di discorsi formulaici sino allo spegnimento progressivo degli anni ’80 e al collasso terminale, dopo la caduta del Muro di Berlino, di una intera tradizione politico-culturale, senza una vera serrata meditazione autocritica. Degna di interesse è, qui, pure la rievocazione di come fu ‘artificialmente’ inventata la designazione di Berlinguer a nuovo segretario generale del partito, di fatto nella sostanza ad erede di Togliatti, essendo del tutto ovvio che quella di Luigi Longo fu una segreteria-ponte dopo la morte nel ’64 del ‘Migliore’. La scelta cadde su un giovane dirigente stimato, ma largamente misconosciuto sinanche all’interno del Pci. Ricorda Rossanda che rari erano in comitato centrale gli interventi di Berlinguer e di minimo peso politico. Il merito della scelta fu tutto, ancora una volta, di Giorgio Amendola che manovrò con abilità, convincendo Ingrao ad evitare la contrapposizione per “non spaccare il partito”. Cose, forse, note, ma che servono tuttora a comprendere come è a metà degli anni ’60 che il Pci perse l’ultimo treno storico per tentare di elaborare una ‘via italiana al socialismo’ lontana dal modello sovietico e non improntata al moderatismo socialdemocratico e al rispetto delle compatibilità capitalistiche. Se Togliatti con le sue furbizie da ‘doppio binario’ aveva tenuto le posizioni e aveva ambiguamente lasciato dischiusa la porta della ‘rivoluzione italiana’, però incatenata e sottomessa agli esiti della ‘guerra fredda’, il Pci di Berlinguer sorpreso e investito dall’incandescente biennio movimentista ’68-’69, intimorito dalla reazione della borghesia e delle forze di destra con la ‘strategia della tensione’, troncò ogni bamboleggiamento e ogni doppiezza, alzò le mani davanti al ‘fattore K’ e con il ‘compromesso storico’ imboccò una strada, apparentemente saggia e vincente, che alla lunga si dimostrò un tunnel senza ritorno. 7. Mi accorgo che ragionando sui temi, gli spunti, le sollecitazioni fornite dal libro della Rossanda, finisco spesso per smarginare verso gli anni ’70, ’80 et ultra. Ciò, forse, dimostra quanto sia innaturale e illogico che La ragazza del secolo scorso si arresti praticamente al 1969, ovvero con la defenestrazione del gruppo del Manifesto (in primis Rossanda, Aldo Natoli, Luigi Pintor, e poi Magris, la Castellina, Parlato etc.) dal partito. Perché in una memoria autobiografica di questo spessore e di tale impegno fermarsi a 37 anni fa? Mi pare che la Rossanda abbia risposto in una intervista che lei fino a quel punto ha le idee chiare, su quanto (e non è poco) è avvenuto in seguito ha le idee molto più confuse e perciò non ne ha scritto. Mi sembra una risposta di comodo. Anche ammesso che le sue idee siano confuse, la sua confusione sarebbe probabilmente assai stimolante per provare a decifrare quanto è accaduto nell’ultimo trentennio, contrassegnato da un trapasso epocale nella cui onda lunga tutt’oggi viviamo come surfers di fine/inizio millenio. Tra l’altro, Rossanda dichiara nel libro, en passant, che lei si considera “in scacco”, politicamente fallita soltanto da una ventina d’anni e cioè non dalla cacciata dal Pci, ma più o meno dal crollo del Muro nell’89 e dalla liquefazione del Pci e dei vari regimi del ‘socialismo reale’. Dunque, è forse qui la remora psicologica. Il libro vuole, dalla prospettiva rossandiana, raccontare gli anni felici, che per la signora di Pola coincidono con la sua giovinezza e prima maturità, dai 19 ai 45 anni, interamente trascorse con appassionato slancio dentro la militanza politico-intellettuale di partito. Dopo il ’69, ancorché effervescenti e tumultuosi, incominciano gli anni ‘non felici’. L’omissione di un intero e così importante tratto della sua vita, disvela che Rossanda non è mai uscita idealmente, psicologicamente dal Pci. Lei è ancora là, l’intera sua traiettoria è stata ed è rimasta incardinata al comunismo ufficiale. Come oscuramente percepii in quel mio incontro, sopra rievocato, nel ’74, lei si trovava nell’evenienza della lotta politica a frequentare noi giovani ‘gruppettari’, ma non c’entrava nulla con noi, persino su un piano eidetico ed estetico. Lei era di un’altra generazione e 4

5 rimaneva una militante fatta e forgiata dal Pci. Ammesso che le posizioni sue e dei suoi compagni ‘manifestini’ fossero veramente eretiche, è poi del tutto evidente che l’eretico in tanto può esistere in quanto è il rovescio della chiesa ufficiale, è la sua inseparabile ombra. Defunta la chiesa l’eretico non ha più senso di esistere, va avanti per mera forza di inerzia, è in stato di confusione, di smarrimento − perché il partito-chiesa è, comunque, anche in negativo un preciso punto di riferimento, un saldo ancoraggio per orientarsi. L’eretico, insomma, non può ricostituire lui l’ortodossia. Come ebbe a dire Aldo Natoli si può essere comunisti senza una tessera, ma non si può continuare ad essere comunisti senza un partito, sia pure opposto, di riferimento. E questo partito era e poteva essere soltanto il Pci, Rifondazione Comunista e il Pdci di Cossutta e Diliberto non contano, sono solamente due revenants di una storia virtualmente finita. Non per caso, qualche tempo fa, la Rossanda si spinse a dichiarare che non si sarebbe opposta a togliere la dicitura “quotidiano comunista” sotto la testata del quotidiano il manifesto da lei cofondato nel ’71. Magari è la spia che il giornale ormai non lo sente più ‘veramente’ suo o magari è la sottile consapevolezza che ostinarsi a conservare un’etichetta è, appunto, una scelta conservatrice, rivolta al passato, non più incubatrice di futuro. Senza partito pure il mito della ‘diversità’ tenacemente coltivato appare più che agonizzante, un autentico ‘spettro di Marx’, forse agli occhi medesimi della iper-elitaria Rossanda. Lei che da una parte ammette tranquillamente che «la modestia non è mai stata una delle mie virtù», ma dall’altra non nasconde di essersi sentita talora «una donnetta − ero emancipata in un mondo di relazioni… ero deputato, ero colta e pensante… ma se mi arrivavano d’improvviso all’orecchio le note di Sophisticated Lady o The Man I Love, ecco affiorare le fantasie inconfessate da ragazza − avanzavo fasciata di lamé in sale improbabili, in mano una sigaretta nell’altra il Tractatus di Wittgenstein, in mente l’agenda delle riunioni mondiali, circonfusa dall’amore dei popoli. Se è vero che siamo della materia dei sogni, quelli dell’adolescenza sono i più tenaci. Il dubbio di essere sfuggita dal diventare grande, cioè moglie e madre, si affacciava e me ne ritraevo. In fin dei conti era più semplice restare sulla scena pubblica. Ormai le donne entravano dappertutto, e quelle che non vi entravano non le vedevo». Qui c’è il nucleo contradditorio della personalità rossandiana, che fu duramente messa sotto accusa negli anni ’70 dalle femministe insorgenti. Il suo evidente sprezzo per chi nutre sentimenti comuni, per i tratti tradizionali di debolezza e di narcisismo femminile, la sua lontananza da chi aspira ad una vita coniugale ‘normale’ con figli etc., sono cose che le leader femministe le hanno sempre rimproverato diffidando profondamente di lei (oggi Rossanda dice “a ragione”), percependo non solo e non tanto il suo reciso rifiuto del “pensiero della differenza”, ma vieppiù il suo pensare con una testa da donna-maschio intransigente e insofferente verso i vezzi, i modi, le tipologie comunicative e comportamentali delle donne. Che se da un lato sono il prodotto di secoli di egemonia maschile e maschilista, dall’altro lato costituiscono pure elementi distintivi dell’identità sessuale delle donne e armi strategiche e connotanti di fascino e di controdominio dell’eterno femminino. Ciò sfugge alla Rossanda che in modo disarmante confessa di non aver mai voluto essere altro da una donna, ma al contempo di sentire assai debolmente la solidarietà verso le sue ‘sorelle’ di sesso. 8. Del resto di elusioni, reticenze, domande inevase, rimozioni e quant’altro è pieno questo libro dedicato in esergo “All’Orso”. Verosimilmente il suo compagno di vita K.S. Karol, comunista polacco-francese, anti-stalinista fin dal ’45 che, a proposito della deriva totalitaria dei regimi dell’Est europeo, si informava giustamente inquieto: «Ma in Italia non vi chiedevate niente? Almeno su Tito? Che hai detto? Che hai scritto?». E Rossanda serafica: «Non ho scritto niente, né pro né contro». Perché nel Pci del dopoguerra usava così, vietato fare domande scomode, vietato dubitare del sole sovietico dell’avvenire, testa bassa e unità contro tutto e tutti, e andare a scuola di reticenza. Una scuola efficacissima, tale che la reticenza sembra essere diventata più che un rifugio, una seconda natura, una facoltà intrinseca del pensiero. Anche a babbo morto (e Baffone stramorto). Così, in questo libro, per esempio, su Cuba e Fidel, sulla Rivoluzione Culturale cinese a quarant’anni di distanza il giudizio appare ancora sfumato, sfuggente, appunto reticente. Come se 5

6 non si volesse o non si fosse capaci di affrontare la questione decisiva: perché ovunque il comunismo è andato al potere si sono generati regimi totalitari, oppressivi, spesso paranoici e polizieschi, ad alto tasso mortifero? A forza di difendere il proprio coté di eretismo comunista brillante e un poco snob, colto e settario, una sofisticata intellettuale come Rossanda sembra non vedere o non voler vedere che il comunismo realizzato o meglio affermato come sistema di potere e di comando sociale è stato nel corso del Novecento una tragedia insopportabile per molti popoli. Non è difficile intuire la radice di ciò: è inscritto nella medesima anche fulgida storia dei comunisti che si sono plasmati durante il secondo conflitto mondiale, dentro la Resistenza ai nazi-fascisti, nell’asperrima contrapposizione della ‘guerra fredda’. Ne è derivata una ossatura militante tetragona e spietata, indispensabile in tempi di fuoco e acciaio, che ha in sé un fondo non scalfibile di durezza, di ostinazione volontaristica, insensibile a qualunque obiezione perinde ac cadaver. In tal senso la Rossanda è realmente, letteralmente una “ragazza del secolo scorso”, perfettamente uniformata ad una visione tutta politica, anzi real-politika dell’operare storico, che inevitabilmente trascina con sé quel tanto di cinismo e di indifferenza verso i ‘danni collaterali’ dell’ideologia. Non stupisce, quindi, che affermi, oggi, di aver rivisto in senso positivo il suo giudizio su Togliatti che, d’altronde, la stimava assai chiamandola a Roma, a Botteghe Oscure, prima nella redazione di Rinascita e poi alla testa della Commissione Cultura nazionale. La ricostruzione che c’è nel libro del famoso dissidio tra Gramsci e Togliatti nel 1929, sarà pure interessante ai fini storiografici con le ammiccanti e finto-benevolenti ammissioni del ‘Migliore’ − in sostanza, Gramsci aveva ragione, ma aveva torto −, ma tutta questa ammirazione retrospettiva circa le capacità di cabotaggio politico, di navigazione a vista del grande Segretario Generale ancora una volta eludono la questione principale. Che Togliatti fu protagonista, forse in seconda fila e, comunque, oggettivamente complice di una stagione politica dell’Urss e dell’Internazionale comunista sanguinosa e spaventosa, una stagione di terrore che oggi non si può non chiamare col suo nome: ovvero una pura torsione criminale del potere assoluto in nome del comunismo. E se è inaccettabile e intellettualmente disonesto fare di Hitler l’unico responsabile e capro espiatorio delle aberrazioni del nazismo, è altrettanto inaccettabile e intellettualmente disonesto fare di Stalin l’unico colpevole delle aberrazioni dello stalinismo. Persino di fronte alla celebre relazione di Krusciov al XX congresso del Pcus nel ’56 che avviò la cosiddetta ‘destalinizzazione’, Togliatti per “non turbare il partito, per salvaguardare la sua unità” provò a far finta di nulla, a dire il meno possibile, a filtrare, a purgare, a censurare, evitando qualsiasi seria discussione interna nel merito di quelle che Krusciov, in modo eufemistico, definiva “le gravi violazioni della legalità socialista”. Non si doveva realmente discutere, perché magari a qualcuno poteva venire in mente di chiedere (ipotesi fantapolitica, lo ammetto) al ‘Migliore’: ma scusa tu non stavi allora a Mosca? Non eri il numero due della Terza Internazionale? E non sapevi nulla? Non ti accorgevi di nulla? Sparivano ogni giorno persone, compagni, dirigenti e tu ti voltavi dall’altra parte, ti facevi i fatti tuoi? Magari Togliatti avrebbe risposto: compagni, la priorità era salvare la pelle. Ma se, per non diventare vittima, si continua a stare accanto al carnefice e, vieppiù, a lodarlo e a difenderlo, allora si diventa a propria volta moralmente carnefici. Perciò, rivalutare a posteriori uno come Togliatti non mi pare proprio possibile, anzi di più mi pare indecente. 9. Al di là dei dissensi su alcuni specifici contenuti del testo, va comunque rimarcato che La ragazza del secolo scorso è un magnifico libro, sorretto da una scrittura controllatissima e smagliante, che soprattutto nella prima parte assume un evidente spessore letterario. I primi cinque, sei capitoli riservati al racconto familiare, tra l’infanzia istriana, l’adolescenza veneziana, il rapporto con i genitori e la sorellina Marina, i rovesci professionali del padre, l’acuta descrizione di ambienti e persone, l’insospettabile perizia nel citare le varietà naturali di fiori e alberi, tratteggiano una struggente, ma sobria recherche du temps perdu che disvela una scrittrice di sicuro talento, forse una narratrice mancata, che risalta in certe lampeggianti attenzioni ad ameni dettagli aneddotici − per esempio, quando riferisce dei suoi frequenti viaggi politico-diplomatici all’estero ospite dei partiti ‘fratelli’ est-europei, in nutrite delegazioni dove spesso le occorreva di essere l’unica donna: 6

7 «Era inteso che alle ventuno io andavo ai concerti e loro scorrazzavano in città con l’interprete o senza, qualche filo era già stato tirato. Il maschio italiano, anche il più colto, è irrefrenabile nel dispiegamento dei suoi vezzi. Non so cosa combinassero e non lo volevo sapere. Ma alla partenza qualche fanciulla più o meno in età ci salutava con gli occhi rossi». (Qui non so se è più gustoso il ricordo dell’impenitente ‘gallismo’ o dongiovannismo dei dirigenti comunisti italioti o la pruderie della puritana intellettuale di partito che “non vuole sapere” e scuote la testa di fronte all’evidenza che i suoi connazionali maschi sono tutti uguali, di fronte al sesso non c’è ideologia che conti). 10. La recherche lungo le vie della memoria privata si arresta in pratica al tempo della guerra quando una ragazza meno che ventenne, spoliticizzata, afascista (né pro né contro, appunto), viene di rimbalzo colpita dal crollo del regime mussoliniano, dai disastri bellici dei comandi italiani, dalla invasione punitiva delle armate tedesche. Lì la ragazza del Novecento in Stahlgewittern, nella bufera (Montale dixit) che spezza in due il ‘secolo breve’ si trova a diventare comunista e rimane tale, in modi certo critici, problematici, sino ad oggi, in un presente che segnala la generale, planetaria disfatta delle istanze utopiche comuniste, anche se lei continua a pensare (forse non a torto) che Marx è quasi più attuale adesso di quando veniva brandito e citato come un testo sacro. A partire dal dopoguerra per la rossa Rossanda il peso del pubblico sovrasta il privato, quando incomincia il racconto degli anni della militanza politica il privato si eclissa. Ci sono soltanto alcuni fuggevoli accenni al matrimonio con Rodolfo Banfi (figlio del filosofo Antonio, maestro della Rossanda, colui che la avviò alla Resistenza e la iniziò alla conoscenza del marxismo-leninismo) e poi alla separazione dal marito, al legame con Karol, ai dolori privati (la morte della madre prima e, poi, della amata zia Luisa). E poco altro. La persona pubblica non parla della sua vita privata, è una scelta etica, forse anche di modestia: di un soggetto impegnato in politica contano le idee, le battaglie, le azioni concrete, non i fatti personali, il piccolo-grande egotismo della sua esistenza quotidiana o sentimentale. La Rossanda ha già annunciato che non scriverà il seguito della sua storia. È ancora troppo presa dai suoi compiti di notista politica, troppo invischiata nelle polemiche quotidiane − proprio di recente Giuliano Ferrara sul Foglio l’ha aggredita definendola la “Caimana” della sinistra antagonista. Noi speriamo ci ripensi e che si possa leggere la seconda puntata della sua autobiografia, quella sulla signora del secolo corrente.

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