I mulini sul Po

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I mulini sul Po a Panarella. La ruota del tempo. I ricordi di Dino Renato Felisati, figlio di mugnaio. Il Po ormai sembra indifferente, torbido, e solitario. Ma se lo ...
I mulini sul Po a Panarella

La ruota del tempo I ricordi di Dino Renato Felisati, figlio di mugnaio Il Po ormai sembra indifferente, torbido, e solitario. Ma se lo sguardo dell’osservatore di oggi, invece che in qualche pomeriggio assonnato del 2006, si posasse su una mattina dell’alba del secolo scorso, cambierebbe idea. A quei tempi il Po era molto più frequentato di oggi. Barche con le vele colorate e i movimenti fluidi lo solcavano, e c’erano molti mulini, almeno nei primi trent’anni del ‘900. Costruzioni anche secolari in legno di rovere o larice erano poste distanti dalla riva anche venti metri. Ognuna era costituita di due barche, il sandón grando e il sandón picolo o sandonelo, tra le quali era piazzata la ruota. Tutti i mulini prendevano la corrente di petto, come quelle genti facevano con la vita. Erano raggruppati in file di due o tre, che insieme formavano una piarda: c’erano tre piarde da La Mòia alle Ca’ Matte e tra la fornace di Camisotti ai Sabbioni altre quattro. Erano trattenuti agli argini da una corda e a non lasciarli portar via dall’impeto del Fiume aiutava la burga, un cesto pieno di sassi. Le albe di inizio secolo in quel di Panarella erano rumorose. I mugnai, destatisi dal loro giaciglio spartano, la letiera, uscivano intorno alle quattro o alle cinque dalla capanna in legno col tetto in canna dentro cui dormivano: la piccola costruzione era adagiata sul sandón grando. Al suo interno stavano le macine, croce e delizia dei mugnai di tutti i tempi: erano due, di solito, una per il grano e una per il granoturco. Ciascuna era composta di due palmenti, le grosse ruote in granito che, posizionate in orizzontale, compivano la magia di

trasformare i cereali in farina. La distanza tra loro era regolata dal mugnaio, a seconda del grado di raffinatura richiesto. Ogni dieci o, al massimo, quindici giorni egli doveva battere le ruote liberando le scanalature dalla farina pressata: si serviva di piccoli martelli per bocciardarle, e le polveri di ferro che si staccavano da questi, unite a minuscole scaglie di granito, potevano penetrare nella sua pelle colorandola di un’insolita tonalità nero-bluastra sul naso e sugli zigomi che avrebbe stupito il nostro osservatore moderno, abituato a udire, purtroppo, di ben altre polveri sottili. In quelle mattine c’era un gran viavai: i mugnai erano in attività, passava qualche burchio da cui si richiedeva loro di sollevare la corda che li legava all’argine per farli passare. In effetti, i mulini dovevano stare al centro del fiume, dove la corrente è più impetuosa, mentre i barcari, quando dovevano risalire, cercavano il molente, la corrente più molle, appunto, o per lo meno il luogo dove la spinta avversa fosse minore. Inoltre, vicino alla riva si poteva godere dell’aiuto dei cavalli sulla restara, il sentiero ad essi preposto, quando non si doveva scendere dalla barca e mettersi in prima persona a tirarla. Nei pressi dei mulini passavano i venditori di grappa, che all’alba servivano liquore con un misurino, e i carrettieri che, accompagnati da un mulo, un asino o un cavallo, si occupavano di consegnare la farina macinata e procurarsi del nuovo grano da lavorare. Insomma, si trattava di “infrastrutture” umane, che per certi tratti fungevano anche da messaggeri: trasportavano le notizie locali, facendole arrivare sul Po e di lì distribuendole. I mugnai stessi avevano degli attendenti, normalmente i figli, che trasportavano materiale facendo “il giro del mugnaio” ai vari indirizzi: si recavano a Baricetta, poi a Volta Scirocco, e così via per le terre del Fiume. Questi aiutanti portavano anche i sacchi dall’argine al mulino e viceversa attraverso una barchetta di collegamento. Oltre a ciò, avevano il compito di portare i pasti all’uomo sull’acqua. Quando, per qualche ragione, questo non succedeva, i munari non erano senza risorse: di norma pescavano qualche pesce per poi friggerlo, o usavano la farina, il loro bene fondamentale. Questa, infatti, oltre ad essere la loro unica moneta di scambio ( non pagavano in denaro né all’osteria né ai venditori di grappa), era ciò che gli permetteva di non rischiare mai di morire di fame.

Nelle sere d’inverno, quando restavano soli con se stessi guardando l’immagine di Sant’Antonio Abate, il protettore presente in ogni mulino, si facevano la pinza del munaro sulla bogara, un recipiente posto su di un piedistallo all’interno dell’unica stanza sul sandón grando, di solito non più grande di sette metri per quattro circa. Si prendeva un po’ di acqua di Po, una goccia dell’olio con cui ardeva la fiamma di Sant’Antonio, si mescolava e si accorpava un po’ do farina. Se il mugnaio, invece, magari d’estate, veniva visitato da qualche nipotino, preparava, sulla stessa fogara, i galìti, gli odierni pop-corn. Per prepararli ottimi esisteva un particolare tipo di pannocchia: era piccola, rosso-violacea, e qualcuno ne coltivava qualche piantina appositamente.

La pinza alla munara

I mugnai restavano a mulìn ventiquattro ore al giorno, generalmente sei giorni su sette. Se e quando si assentavano, il meno possibile, chiedevano a un collega di controllare e eventualmente di occuparsi del mulino, ma più volentieri lasciavano l’impegno a un familiare, timorosi che sotto l’occhio “vigile” di un vicino qualche sacco “facesse le gambe”. La giornata del mugnaio non era dominata da ritmi serrati. La macina rullava mentre egli normalmente eseguiva piccoli interventi di manutenzione, magari mettendo le fodere dove c’era qualche buco. Si riempiva di stoffa e si inchiodava il tutto. La mente dell’osservatore di oggi non disegna più la sagoma interessante del mugnaio. Come i barcari, si tratta di figure dalla mentalità peculiare che nel caso dei mugnai si ricopre quasi di valenze archetipiche.

In effetti, essa ha rappresentato per la gente del Polesine, per secoli, un individuo furbo e un po’ imbroglione. A tratti, addirittura magico. Innanzi tutto, quegli uomini erano solitari. È vero, essi frequentavano qualche osteria, di cui le nostre zone erano piene: basti anche solo pensare a quella alla Mòia, alle Cà Matte, da Tancredi dove qualche volta ci si ubriacava pure. A Santa Maria, che si raggiungeva col traghetto di Gervasi, ogni anno si faceva festa il 17 gennaio, in occasione del già menzionato Santo Antonio Abate, con canti, balli, risate. Qualche volta i mugnai si riunivano per giocare a carte, perchè vigeva una certa solidarietà per i momenti di crisi: durante i temporali se c’era qualche burga da piantare sul fondo, nonostante i già citati mutui sospetti. Tuttavia, ricevevano poche visite, preferivano non avere bambini attorno al lavoro e nemmeno le mogli erano presenze comuni, al contrario che sulle barche. Nel mulino si era lontani notte e giorno dalla terra e quasi tutta la settimana da casa. Fondamentale è che quegli uomini godevano di tempi morti in cui riflettere ed accrescere la propria saggezza, che avrebbe impressionato i contadini rendendoli ai loro occhi più misteriosi, come i pastori di tanta letteratura. Sapevano studiare il tempo e i venti, le correnti quindi, in modo da posizionare sempre la ruota nel modo più consono. Il fatto stesso di avere a che fare con persone, per motivi fattuali, meno avvezze a molti usi del mondo come i braccianti aumentava il loro senso di astuzia. Ad esempio, facevano il polentìn: In altre parole, aggiungevano circa due litri d’acqua per ogni quintale di farina, mescolando bene per aumentare il peso e guadagnare di più. Ma non era soltanto questo a farli vedere come personaggi in qualche modo diversi. Il mulino è un’immagine mitica nella storia: si pensi anche solo alle favole. Tra l’altro, è un’invenzione di cui non si ravvisa un’origine certa. Chi lo manovra non soltanto ha che fare con elementi basilari della vita come l’acqua e il grano ma, grazie all’uso di una tecnologia che sostituisce il lavoro umano, maneggia strane trasformazioni, quasi due “miracoli” nel senso latino della parola: meraviglioso e quasi spaventevole. Trasforma il grano maschile nella farina femminile. Qual èla c’la roba, insegnava l’indovinello, c’la va via òmo e la la vien casa dòna? E parché la róda dla cariola c’la va al mulìn la siga? Piange perché tra poco il grano sarà castrato. Con quel prodotto, poi, permette di compiere un’altra modificazione per molto tempo interrogativa, la lievitazione. Se a questi elementi di sapore antropologico si aggiunge la strana religiosità del mugnaio, per altro condivisa dal barcaro, che non andava quasi mai in chiesa ma adorava fervidamente un santo tanto da tenerne l’immagine sempre luminosa nel proprio mulino, chiamando quest’ultimo “Dio Ti Salvi” esattamente come tutti gli altri, la personalità enigmatica del mugnaio si delinea. Non era arrogante, però: umilmente, temeva i fulmini che avrebbero potuto, assieme alla foghera, incendiare la sua proprietà fatta di legno e più di tutti temeva il Po, le sue piene e le sue gelate, che avrebbero potuto rovinare lui e la sua famiglia in pochi giorni. Così, in effetti, successe. L’epoca dei mulini tramontò principalmente con la gelata del ’29. Il ghiaccio distrusse le ultime vestigia di una società che stava perdendo se stessa: una legge impediva a chi avesse

perduto un mulino di ricostruirlo, per incoraggiare la macina sulla terra e lo sfruttamento di altre energie. Fu una politica che oggi si ricoprirebbe di fama di poca sostenibilità ambientale, ma che a quel tempo profumava di progresso, e probabilmente di denaro. I munari si convertirono al trasporto fluviale, ma l’avanzata automobilistica atrofizzò anche quello non più di trent’anni dopo. Quell’inverno del ’29 fu data una luccicante festa da ballo sul Po ghiacciato, un’enorme ganzega che, forse, a noi oggi appare quasi un solstizio. Oggi, che il Po è un vecchio dio lasciato indietro sulla strada della modernità, sembra quasi il crepuscolo della particolare, complessa e vivace cultura dei mulini sul Po.

Dino Renato Felisati

Francesca Forza (Grafica: Giorgia Stocco)