Joseph Anton

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2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. Titolo dell'opera originale. Joseph Anton. I edizione settembre 2012. Dello stesso autore in edizione Mondadori.
Salman Rushdie

Joseph Anton Memoir

Traduzione di Lorenzo Flabbi

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Dello stesso autore in edizione Mondadori Grimus I figli della mezzanotte Furia La vergogna I versi satanici Harun e il Mar delle Storie Patrie immaginarie Est, Ovest Il Mago di Oz L’ultimo sospiro del Moro Shalimar il clown L’incantatrice di Firenze Luka e il Fuoco della vita La terra sotto i suoi piedi

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Joseph Anton di Salman Rushdie Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-61513-2 Copyright © 2012, Salman Rushdie All rights reserved © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale Joseph Anton I edizione settembre 2012

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Ai miei figli, Zafar e Milan, e alle loro madri, Clarissa ed Elizabeth, e a tutti quelli che hanno dato una mano

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E per tale destino stiamo per compiere un dramma, di cui ciò che è passato è il prologo e lo svolgimento dipende da ciò che eseguiremo tu ed io. william shakespeare, La tempesta

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Prologo

Il primo corvo

Tempo dopo, quando ormai il mondo gli stava esplodendo attorno e i corvi assassini si ammassavano sulle sbarre del castello nei giardinetti della scuola, se la prese con se stesso per essersi dimenticato il nome di quella giornalista della bbc che gli aveva annunciato la fine della sua vecchia vita e l’inizio di una nuova, oscura esistenza. Lo aveva chiamato direttamente a casa, senza spiegare come avesse avuto il numero. «Come ci si sente» gli aveva chiesto «a sapere di essere appena stati condannati a morte dall’ayatollah Khomeini?» Era un bel martedì di sole, quel giorno a Londra, ma la domanda fece di colpo calare il buio. «Per niente bene» aveva risposto, senza rendersi perfettamente conto di cosa stesse dicendo. Gli passò per la testa un pensiero: “Sono un uomo morto”. Si chiese quanti giorni gli restassero da vivere, e pensò che probabilmente li avrebbe potuti contare sulle dita di una mano. Riattaccò, si precipitò fuori dal suo studio in cima alla stretta casetta a schiera nel borgo di Islington dove abitava, e corse giù per le scale. Con un gesto assurdo, bloccò le imposte delle finestre del soggiorno, poi chiuse a chiave l’ingresso. Era San Valentino, ma anche quel giorno non erano mancati gli screzi con sua moglie, la scrittrice americana Marianne Wiggins. Sei giorni prima gli aveva comunicato quanto il loro matrimonio la rendesse infelice, dicendo che “non si sentiva più bene al suo fianco”, benché fossero sposati da appena un anno, e anche lui ormai sapeva che era stato un errore. Adesso era lì, a fissarlo, mentre lui si aggirava nervosamente per casa, tirava le tende e controllava i fermi delle finestre, il corpo elettrizzato dalla notizia come se avesse preso la scossa. Dovette spiegarle cosa stava suc9

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cedendo. Lei reagì bene, e cominciò a riflettere sul da farsi. Usò il termine “noi”. Un atto di coraggio. Un’auto inviata dalla cbs giunse davanti a casa. Lui aveva un appuntamento alla Bowater House di Knightsbridge, la sede londinese dell’emittente americana, per partecipare in diretta alla trasmissione del mattino, in collegamento via satellite. «È meglio che vada» disse. «È in diretta, non è che posso semplicemente non farmi vivo.» Più tardi nella mattinata si sarebbe celebrato il servizio funebre del suo amico Bruce Chatwin nella chiesa ortodossa di Moscow Road, a Bayswater. Non erano passati nemmeno due anni da quando avevano festeggiato insieme i suoi quarant’anni a Homer End, la casa che Bruce aveva nell’Oxfordshire. Ora Bruce era morto di aids, e la morte stava bussando anche alla sua porta. «E il funerale?» chiese sua moglie. Non seppe cosa risponderle. Riaprì la porta d’ingresso, uscì, salì in macchina e si allontanò. Lasciò l’abitazione dove aveva vissuto nei cinque anni precedenti senza che quel congedo fosse carico di alcun significato particolare; non sapeva che non vi sarebbe più tornato per tre anni, e che a quel punto non sarebbe più stata casa sua. In una classe di Bodega Bay, in California, i bambini cantano una filastrocca. Si pettinava una volta all’anno, risseldy rosseldy mau mau mau. Fuori dalla scuola soffia un vento freddo. Un corvo solitario scende dal cielo e va a posarsi sulle sbarre del castello nel parco giochi. La canzone dei bimbi ha un ritornello che si ripete incessantemente, inizia ma non finisce. Ricomincia ogni volta daccapo. A ogni spazzolata una lacrima versata, risseldy rosseldy, hey-bombosity, gnicchete-gnacchete, retroqua-qualità, willoby-wallaby, mau, mau, mau. Ci sono quattro corvi sulle sbarre del castello, ne arriva un quinto. Nella scuola i bimbi continuano a cantare. Ora sopra le sbarre ci sono centinaia di corvi e migliaia di altri uccelli riempiono il cielo, come una piaga d’Egitto. È iniziata una canzone, una canzone che non ha fine. Quando il primo corvo va ad appollaiarsi sul castello sembra un fenomeno isolato, particolare, specifico. Non è necessario dedurre dalla sua presenza una teoria generale, uno schema più ampio. Con il senno di poi, dopo che la piaga ha avuto inizio, è facile interpretarlo come un presagio. Ma quando va a posarsi da solo sopra le sbarre non è nient’altro che un singolo uccello. Sognerà questa scena negli anni a venire, e capirà che la sua storia è una sorta di prologo: il racconto del momento in cui arriva il primo corvo. All’inizio riguarda soltanto lui: una vicenda isolata, particolare, specifica. Nessuno sente di 10

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dover trarre da essa alcuna conclusione. Ci vorranno più di dodici anni prima che la storia cresca fino a riempire il cielo, come l’arcangelo Gabriele che si staglia all’orizzonte, come un paio di aeroplani che volano dentro grattacieli, come la piaga degli uccelli assassini nel grande film di Hitchcock. Agli uffici della cbs si accorse di essere diventato la notizia del giorno. In redazione e sui vari monitor tutti stavano già pronunciando la parola che presto gli sarebbe stata incatenata al piede come una palla di ferro. La utilizzavano come un sinonimo di “pena di morte” e lui, pignolo, voleva puntualizzare che in realtà voleva dire ben altro. Ma a partire da quel giorno il suo significato sarebbe stato quello per la maggior parte delle persone in tutto il mondo. E anche per lui. “Fatwa.” “Informo il fiero popolo musulmano del mondo che nei confronti dell’autore dei Versi satanici, che è contro l’Islam, il Profeta e il Corano, e nei confronti di tutte le persone coinvolte nella pubblicazione del libro che ne conoscevano il contenuto è proclamata la condanna a morte. Chiedo a tutti i musulmani di giustiziarli ovunque si trovino.” Mentre lo scortavano verso lo studio televisivo per l’intervista, qualcuno gli diede una stampata del testo. Il suo vecchio sé provò l’impulso di puntualizzare ancora, in questo caso a proposito del termine “condanna”. Era una sentenza pronunciata da una corte che non riconosceva, e che non aveva nessuna giurisdizione su di lui. Si trattava dell’editto di un uomo in là con gli anni, crudele e morente. Ma sapeva anche che le abitudini di quel suo vecchio sé erano ormai inutili. Ora aveva un nuovo sé. Era l’uomo nell’occhio del ciclone, non più il “Salman” che i suoi amici conoscevano, ma il “Rushdie” autore dei Versi satanici, un titolo sottilmente distorto dall’omissione dell’articolo iniziale. I versi satanici era un romanzo. Versi satanici, invece, dei versi che erano satanici, e lui ne era il satanico autore, “Satan Rushdy”, la creatura cornuta sui cartelli dei manifestanti innalzati lungo le strade di una città lontana, l’uomo impiccato con la rossa lingua sporgente che compariva nei loro rudimentali disegni. “Impiccate Satan Rushdy.” Con che facilità si cancellava il passato di un uomo e se ne costruiva una nuova, travolgente versione contro cui sembrava impossibile lottare. Re Carlo I aveva negato la legittimità della condanna che pendeva sul suo capo. Ciò non aveva impedito a Cromwell di farlo decapitare. E lui non era un re. Era l’autore di un libro. 11

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Osservò un giornalista che lo stava fissando e si chiese se fosse quello il modo in cui la gente guardava chi viene portato alla forca, alla sedia elettrica, alla ghigliottina. Un corrispondente straniero si avvicinò con fare amichevole. Lui gli chiese cosa pensasse di ciò che aveva detto Khomeini. Avrebbe dovuto prendere la cosa sul serio? Riteneva si trattasse più che altro di una provocazione plateale e retorica o di qualcosa di realmente pericoloso? «Oh, non si preoccupi troppo» rispose il giornalista. «Khomeini condanna a morte il presidente degli Stati Uniti ogni venerdì pomeriggio.» In diretta, quando gli fu chiesto di replicare a quella minaccia, disse: «Vorrei aver scritto un libro più critico». Fu orgoglioso di quell’affermazione, lo fu allora e lo restò sempre. Era la verità. Non credeva che il suo romanzo fosse particolarmente critico nei confronti dell’islam, ma, come disse alla televisione americana quella mattina, qualche critica non poteva che fare bene a una religione i cui capi si comportavano in quella maniera. Terminata l’intervista, gli comunicarono che sua moglie aveva chiamato. Telefonò a casa. «Non tornare qui» disse lei. «Ci sono duecento giornalisti sul marciapiede che ti aspettano.» «Allora andrò in agenzia» rispose. «Fai una valigia e raggiungimi lì.» La Wylie, Aitken & Stone, la sua agenzia letteraria, aveva gli uffici in un palazzo con decorazioni di stucco bianco sulla Fernshaw Road, a Chelsea. Davanti all’ingresso non si era accampato nessun giornalista – evidentemente la stampa mondiale aveva ritenuto inverosimile che andasse a trovare il suo agente in un giorno come quello – ma quando entrò tutti i telefoni dell’edificio stavano squillando contemporaneamente, e ogni chiamata riguardava lui. Gillon Aitken, il suo agente letterario per l’Inghilterra, lo guardò sbigottito. Era al telefono con Keith Vaz, il parlamentare anglo­indiano rappresentante della circoscrizione di Leicester East. Coprì la cornetta con la mano e sussurrò: «Ci vuoi parlare?». Al telefono Vaz disse che quanto era successo era “esecrabile, assolutamente esecrabile”, e gli promise il suo “totale appoggio”. Poche settimane dopo, quello stesso parlamentare sarebbe stato tra i principali oratori in una manifestazione contro I versi satanici a cui parteciparono più di tremila musulmani, e avrebbe definito quella protesta “un grande giorno per la storia dell’Islam e della Gran Bretagna”. Lui si accorse di non essere in grado di pensare al futuro, di non avere 12

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nessuna idea di quale forma avrebbe preso la sua vita, assolutamente incapace di fare progetti. Riusciva a concentrarsi soltanto sull’immediato, e in quel momento l’immediato erano le esequie di Bruce Chatwin. «Caro mio» gli chiese Gillon, «credi sia il caso di andare?» Prese la sua decisione. Bruce era stato un amico vero. «Fanculo» disse. «Andiamo.» Quando Marianne arrivò, c’era un luccichio di leggera follia nel suo sguardo; era infuriata perché i fotografi l’avevano assalita non appena aveva messo il naso fuori di casa al 41 di St Peter’s Street. Il giorno successivo la sua espressione sarebbe stata sulla prima pagina di tutti i giornali del Paese. Un quotidiano diede a quello sguardo anche un nome, stampato a caratteri cubitali: il volto della paura. Marianne non disse quasi nulla. Nessuno dei due lo fece. Salirono in macchina, una Saab nera, e lui si mise alla guida. Attraversarono il parco per andare a Bayswater. Gillon Aitken li accompagnò, l’espressione preoccupata, il corpo allampanato rattrappito sul sedile posteriore. La madre e la sorella minore vivevano a Karachi. Che cosa sarebbe successo a loro? La sorella di mezzo, che si era da tempo allontanata dalla famiglia, abitava a Berkeley, in California. Sarebbe stata al sicuro? La più grande, Sameen, nata nel suo stesso anno solare, viveva con la famiglia nella periferia nord di Londra, a Wembley, non lontano dal celebre stadio. Cosa si doveva fare per proteggerli? Il figlio, Zafar, di appena nove anni e otto mesi, era con la madre, Clarissa, nella loro casa al 60 di Burma Road, appena fuori da Green Lanes, vicino a Clissold Park. In quel momento, il decimo compleanno di Zafar sembrava un evento lontanissimo. «Papà» gli aveva chiesto una volta, «perché non scrivi libri che posso leggere anch’io?» Gli aveva fatto pensare a un verso di St Judy’s Comet, una canzone che Paul Simon aveva scritto come ninnananna per il suo bambino. “Se non riesco a far addormentare il mio bimbo cantando, be’, allora il tuo famoso papà ci fa proprio la figura dello scemo.” «Buona domanda» aveva replicato. «Lasciami soltanto finire il libro a cui sto lavorando adesso, e poi ne scriverò uno per te. Affare fatto?» «Affare fatto.» Così aveva portato a termine quel romanzo, lo aveva pubblicato, e adesso forse non avrebbe più avuto il tempo di scriverne un altro. “Non bisognerebbe mai venir meno a una promessa fatta a un bambino” pensò, ma nel convulso turbinio che aveva in testa prese forma una clausola idiota: “Ma se l’autore muore è giustificato?”. 13

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I pensieri continuavano a girare attorno alla condanna a morte. Cinque anni prima aveva viaggiato con Bruce Chatwin nel “centro rosso” dell’Australia; si era annotato un graffito letto a Alice Springs che recitava arrenditi, uomo bianco, la tua città è circondata e si era arrampicato a fatica sul massiccio dell’Ayers Rock mentre Bruce, ancora tutto fiero della sua fresca conquista del campo base dell’Everest, procedeva saltellando come se stesse passeggiando sul più dolce dei declivi; aveva ascoltato i racconti dei locali sul caso del cosiddetto “dingo baby” e aveva alloggiato in una bettola di infima categoria chiamata Inland Motel, dove l’anno precedente un camionista trentaseienne di nome Douglas Crabbe che si era visto rifiutare da bere perché era già fin troppo ubriaco aveva cominciato a inveire contro il personale e, dopo essere stato buttato fuori, aveva lanciato il suo camion a tutta velocità contro il locale, uccidendo cinque persone. Crabbe stava deponendo in un’aula del tribunale di Alice Springs e loro erano andati ad assistere. L’autista era vestito in modo tradizionale, teneva gli occhi a terra, parlava con voce bassa e monotona. Aveva ripetuto di non essere il tipo di persona che avrebbe fatto una cosa del genere, e quando gli avevano chiesto come potesse esserne tanto sicuro, aveva risposto che guidava camion da molti anni e per tutto quel tempo li aveva sempre trattati “come se fossero miei…” (a quel punto aveva esitato per un attimo, e il silenzio avrebbe potuto essere riempito dalla parola “figli”), e sfasciare un automezzo era una cosa assolutamente estranea al suo carattere. A quelle parole i membri della giuria si erano visibilmente irrigiditi, ed era stato chiaro a tutti che la sua causa era irrimediabilmente persa. «Quel che è certo» aveva mormorato Bruce «è che sta dicendo l’assoluta verità.» Nella mente di quell’assassino i camion erano più preziosi degli esseri umani. Ora, a cinque anni di distanza, potevano esserci persone che si apprestavano a uccidere uno scrittore per le sue parole blasfeme, e la fede religiosa, o per lo meno una sua particolare interpretazione, era il camion che amavano più della vita umana. Si ricordò che non era la prima volta che un suo gesto veniva considerato blasfemo. Anche la sua ascesa con Bruce all’Ayers Rock ora sarebbe stata proibita. Il promontorio, tornato di proprietà degli aborigeni e rinominato con l’antico nome di Uluru, era territorio sacro, e le arrampicate non erano più permesse. Era stato sul volo verso casa dall’Australia, nel 1984, che aveva cominciato a capire come scrivere I versi satanici. Il servizio funebre nella chiesa greco-ortodossa di Santa Sofia dell’arcidiocesi di Thyateria e Gran Bretagna, costruita e sontuosamente deco14

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rata centodieci anni prima in modo da sembrare una grande cattedrale dell’antica Costantinopoli, si svolse in un greco altisonante e misterioso, secondo l’elaborato rito bizantino. Bla bla bla Bruce Chatwin, intonarono i sacerdoti, bla bla Chatwin bla bla. Si alzarono, si sedettero, si inginocchiarono, si alzarono e si risedettero ancora. L’aria era satura di puzzo d’incenso. Ricordò che da bambino, a Bombay, suo padre l’aveva portato a pregare nel giorno di Id al-fitr. Là, all’Idgah, nel campo della preghiera, la liturgia era araba, ed era un continuo su e giù di fronti che battevano, uno star ritti in piedi con i palmi delle mani verso l’alto come a sorreggere un libro, e uno sterminato mormorio di parole sconosciute in una lingua che lui non parlava. «Fa’ quello che faccio io» aveva detto suo padre. La sua non era una famiglia religiosa, ed era raro che partecipassero a cerimonie di quel tipo. Non aveva mai imparato le orazioni a memoria, né sapeva cosa significassero. Tutta la sua esperienza si limitava a quel pregare occasionale per imitazione, quel mormorare meccanicamente ripetuto. Di conseguenza, gli sembrò familiare anche l’indecifrabile cerimonia nella chiesa di Moscow Road. Lui e Marianne erano seduti di fianco a Martin Amis e a sua moglie, Antonia Phillips. «Siamo preoccupati per te» disse Martin abbracciandolo. «Io sono preoccupato per me» replicò lui. Bla bla Chatwin bla Bruce bla. Il romanziere Paul Theroux era seduto sulla panca dietro la sua, e disse: «Mi sa tanto che saremo di nuovo tutti qui per te la settimana prossima, Salman». Quando era arrivato, sul marciapiede davanti alla chiesa c’erano appena un paio di fotografi. Gli scrittori di solito non attirano cortei di paparazzi. Col procedere della cerimonia, tuttavia, alcuni giornalisti cominciarono a entrare nella chiesa. Una religione incomprensibile stava ospitando un fatto di cronaca creato dall’offensiva incomprensibilmente violenta di un’altra religione. “Uno degli aspetti peggiori di quello che è successo” avrebbe scritto più tardi “è che l’incomprensibile si è fatto comprensibile, l’inimmaginabile è diventato immaginabile.” Terminata la funzione, i giornalisti si fecero strada verso di lui. Gillon, Marianne e Martin provarono a opporre resistenza. Un tale in grigio (tutto grigio: vestito grigio, capelli grigi, faccia grigia, voce grigia), che con particolare insistenza era riuscito a farsi largo tra la folla, gli sventolò in faccia un registratore e gli fece le domande più ovvie. «Guardi, mi deve scusare» replicò lui, «ma sono qui per il funerale di un amico, non per ri15

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lasciare interviste.» «Forse non mi sono spiegato» insistette perplesso il tizio grigio. «Io sono del “Daily Telegraph”. Mi hanno mandato qui come inviato speciale.» «Gillon, ho bisogno del tuo aiuto» disse lui. Gillon si curvò verso il reporter e dall’alto della sua immensa statura, rispolverando l’accento delle grandi occasioni, disse con fermezza: «Fuori dai coglioni». «Come si permette di rivolgersi a me in questo modo?» disse l’uomo del “Telegraph”. «Guardi che io ho frequentato una delle scuole più prestigiose del Regno Unito.» Dopodiché non ci furono altri siparietti. Quando uscì in Moscow Road c’erano giornalisti che sciamavano come fuchi alla ricerca della loro regina, fotografi che si arrampicavano uno sull’altro a formare instabili colonne luccicanti di flash. Lui restò allibito, sbattendo gli occhi, senza una direzione, per un attimo incapace di decidere sul da farsi. Sembrava non esserci via d’uscita. Non c’era nessuna possibilità di arrivare alla macchina, parcheggiata a un centinaio di metri in fondo alla strada, senza essere inseguito da torme di telecamere, microfoni e uomini che avevano frequentato varie tipologie di scuole spediti lì come inviati speciali. A salvarlo fu il suo amico Alan Yentob, regista e dirigente della bbc; si erano conosciuti otto anni prima durante le riprese di Arena, un documentario che Alan stava girando sul giovane autore di un romanzo di successo dal titolo I figli della mezzanotte. Spesso la gente sosteneva che Alan somigliasse a lui più ancora che al fratello gemello che effettivamente aveva. Poco importava che i diretti interessati non fossero affatto d’accordo, l’opinione aveva continuato a circolare, e forse per Alan quello non era propriamente il giorno migliore per essere scambiato per il suo “non gemello”. Alan giunse fin davanti alla cattedrale con la macchina della bbc. «Salta su» gli disse, e si allontanarono subito dalla calca vociante dei giornalisti. Continuarono a girare per un po’ attorno a Notting Hill finché la folla fuori dalla chiesa non si disperse. Dopodiché tornarono al punto in cui lui aveva parcheggiato la Saab. Salì sulla sua macchina insieme a Marianne, e improvvisamente si ritrovarono soli, oppressi da un pesante silenzio. Evitarono di accendere l’autoradio, ben sapendo che ne sarebbero uscite soltanto notizie odiose. 16

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«E adesso dove andiamo?» chiese lui, benché entrambi conoscessero già la risposta. Poco tempo prima, Marianne aveva preso in affittto un piccolo seminterrato all’angolo sud-ovest di Lonsdale Square, a Islington, non lontano dalla casa di St Peter’s Street, ufficialmente per adibirlo a studio, ma di fatto come conseguenza delle crescenti tensioni tra loro. Solo pochissime persone erano a conoscenza di quell’appartamentino. Avrebbe concesso loro un po’ di tempo, e spazio, per fare il punto della situazione e decidere il da farsi. In macchina non aprirono bocca per tutto il tragitto verso Islington. Sembrava non ci fosse niente da dire. Marianne era una brava scrittrice e una bella donna, ma nel corso del tempo lui ne aveva scoperto aspetti che non gli piacevano. Quando si era trasferita a casa sua aveva lasciato un messaggio sulla segreteria del suo amico Bill Buford, il direttore della rivista letteraria “Granta”, per comunicargli che aveva cambiato numero di telefono. «Può anche darsi che tu riconosca quello nuovo» gli aveva detto, e poi, dopo quella che Bill aveva interpretato come una pausa piuttosto allarmante, aveva aggiunto: «L’ho preso!». Lui le aveva chiesto di sposarla nel periodo di grave turbamento che aveva fatto seguito alla morte di suo padre, nel novembre del 1987, ma ben presto il rapporto si era deteriorato. Gli amici più intimi, quelli che gli erano sempre stati più vicini, ossia Bill Buford, Gillon Aitken, il suo collega americano Andrew Wylie, l’attrice e scrittrice guianese Pauline Melville e sua sorella Sameen, avevano tutti cominciato a confessargli di non andare matti per Marianne, ma lui sapeva di dover fare la tara a ciò che dicono le persone care quando qualcuno si sta separando. Restava il fatto che l’aveva sorpresa a mentirgli in più di un’occasione, e ne era rimasto turbato. Che cosa pensava sua moglie di lui? Sembrava spesso arrabbiata, e quando gli parlava aveva quel modo di fissare un punto alle sue spalle, come se si stesse rivolgendo a un fantasma. Era sempre stato affascinato dalla sua intelligenza e dal suo spirito, e continuava a esserlo, così come perdurava l’attrazione fisica, la cascata di capelli ramati, l’ampio, aperto sorriso americano. Ma col tempo Marianne era diventata misteriosa, e lui si era ritrovato a pensare di aver sposato una sconosciuta. Una donna in maschera. Era già metà pomeriggio, e quel giorno le questioni personali sembravano irrilevanti. Quel giorno per le strade di Teheran si erano riversate folle di manifestanti che innalzavano cartelli con la sua immagine, una faccia 17

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con due occhi sporgenti che lo facevano sembrare uno dei cadaveri degli Uccelli, le orbite nere e sanguinolente per i colpi di becco. Quel giorno il punto era uno solo: il San Valentino tutt’altro che divertente donatogli da uomini barbuti, donne velate e da un terribile, micidiale vecchio che, nel suo letto di morte, aveva fatto quell’ultimo omaggio inseguendo una qualche oscura gloria assassina. L’imam aveva già ucciso molti di coloro che l’avevano aiutato a salire al potere, e chiunque non gli andasse a genio. Sindacalisti, femministe, socialisti, comunisti, omosessuali, prostitute, e anche i suoi ex collaboratori. I versi satanici contenevano il ritratto di un imam di quel tipo, un imam diventato un mostro dalla bocca gigantesca che divorava la sua stessa rivoluzione. Il vero imam aveva trascinato la nazione di cui era a capo in una guerra inutile con lo Stato confinante, una guerra che era costata la vita a un’intera generazione di giovani, centinaia di migliaia di ragazzi del suo stesso Paese, prima che il vecchio leader ne decretasse la fine. Accettare la pace con l’Iraq, aveva dichiarato, era come ingoiare veleno. Ma l’aveva ingoiato. E allora i morti si erano sollevati contro l’imam, e la sua rivoluzione era diventata impopolare. Così aveva avuto bisogno di chiamare a raccolta i suoi seguaci, e aveva trovato un buon pretesto sotto forma di un libro e del suo autore. Un libro demoniaco, il cui autore era dunque il demonio, gli aveva dato il nemico che cercava: uno scrittore che ora se ne stava in un seminterrato di Islington, barricato insieme alla moglie con cui era in rotta. Ecco il demonio necessario all’imam morente. Nel frattempo era arrivata l’ora di chiusura della scuola, e lui doveva vedere suo figlio Zafar. Chiamò Pauline Melville per chiederle di venire a tenere compagnia a Marianne mentre lui era fuori. Quando abitava a Highbury Hill, all’inizio degli anni Ottanta, Pauline era stata sua vicina di casa; era un’attrice di sangue misto dagli occhi vivaci e un gesticolare teatrale, generosa, sempre piena di racconti sulla Guyana, come quello in cui un antenato della famiglia Melville aveva portato lo scrittore Evelyn Waugh in giro per il Paese, finendo per diventare il probabile modello del personaggio di Mr Todd in Una manciata di polvere, il vecchio pazzo che cattura Tony Last nella foresta pluviale e lo obbliga a continuare a leggere per sempre Dickens ad alta voce; o quello in cui lei aveva salvato suo marito Angus dalla Legione straniera picchettando i cancelli di un fortino e urlando a squarciagola che lo lasciassero andare; oppure quello in 18

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cui aveva recitato nel ruolo della madre di Adrian Edmondson nella fortunata serie televisiva The Young Ones. Pauline era anche una cabarettista e si era inventata un personaggio maschile che, diceva, “era diventato talmente pericoloso, e mi terrorizzava a tal punto, che ho dovuto smettere di portarlo in scena”. Gli aveva mostrato alcune delle storie sulla Guyana che aveva messo per iscritto: erano davvero molto buone e il libro che ne aveva tratto, Shape-Shifter, era stato acclamato dalla critica. Pauline era tosta, avveduta, leale, e lui si fidava ciecamente. E infatti, malgrado le riserve che nutriva su Marianne, li raggiunse senza alcuna esitazione nonostante quel giorno fosse il suo compleanno. Nel lasciare sua moglie nel seminterrato di Lonsdale Square, guidando verso Burma Road, si sentì sollevato. La splendida giornata di sole, la cui straordinaria radiosità invernale era parsa un rimprovero all’orrore delle notizie che si erano susseguite, era ormai giunta al termine. A Londra, in febbraio, quando i bambini escono da scuola è già buio. Appena arrivato alla casa di Clarissa e Zafar si accorse di essere stato preceduto dalla polizia. «Eccola qui» gli disse un agente. «Ci stavamo chiedendo dove fosse finito.» «Che cosa sta succedendo, papà?» L’espressione nello sguardo di suo figlio era di quelle che non dovrebbero mai comparire sul volto di un bambino di nove anni. Clarissa intervenne prontamente: «Gli stavo appunto dicendo che sarai protetto come si deve finché questa storia non finirà, e che andrà tutto bene». Poi lo abbracciò. Non accadeva da cinque anni, da quando il loro matrimonio era finito. Clarissa Mary Luard, la prima donna che avesse mai amato. L’aveva conosciuta il 26 dicembre 1969, a cinque giorni dalla fine degli anni Sessanta, quando lui aveva ventidue anni e lei ventuno. Aveva gambe lunghe e occhi verdi, e quel giorno indossava un montone hippy, un nastro a trattenerle i capelli ricci rosso ruggine, e il suo aspetto era così radioso da scaldare il cuore. Aveva amici nel mondo della pop music che la chiamavano Happily (e il vero happy end è che quel nomignolo non sopravvisse al bislacco decennio che l’aveva partorito), una madre che beveva troppo e un padre che, tornato traumatizzato dalla guerra dove era stato pilota esploratore, si era buttato da un palazzo quando lei aveva quindici anni. Aveva un beagle di nome Bauble che le pisciava nel letto. Sotto la patina della sua solarità si agitavano ben altre turbolenze; Clarissa non amava che le persone percepissero le sue ombre, e quando era colta dalla 19

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malinconia preferiva rifugiarsi in camera sua e chiudere a chiave la porta. Forse in quei momenti sentiva dentro di sé la tristezza che era stata di suo padre e temeva che avrebbe potuto condurla a saltare da un palazzo come aveva fatto lui, così si rinchiudeva in se stessa fino a che non le passava. Si chiamava Clarissa come la tragica eroina eponima del romanzo di Samuel Richardson e aveva studiato qualche anno all’Harlow Technical College di Essex, cosicché risultava essere una “Clarissa di Harlow”, bizzarra eco della Clarissa Harlowe del libro: un’altra suicida, questa volta solo fittizia, un’altra eco di cui avere paura, nascosta dal bagliore del suo sorriso. Anche sua madre, Lavinia Luard, aveva un soprannome imbarazzante, Lavvy-Loo, che suonava più o meno come lavatoio; passava il tempo rimestando la tragedia familiare in fondo a un bicchiere di gin, sciogliendola nell’alcol in modo da vestire i panni della vedova allegra con uomini che finivano per approfittarsi di lei. Il primo era stato un ex ufficiale dei reggimenti della Guardia reale, il colonnello Ken Sweeting, un uomo sposato venuto giù dall’Isola di Man per amoreggiare con lei ma che non fu mai sfiorato dall’idea di separarsi dalla moglie. Poi, una volta emigrata nel villaggio di Mijas in Andalusia, si era lasciata abbindolare da una sfilza di scioperati provenienti da varie parti d’Europa, pronti a vivere alle sue spalle e a spendere troppi dei suoi soldi. Quando aveva saputo che la figlia voleva convivere e poi sposarsi con quello strano scrittore indiano dai capelli lunghi, un uomo di cui le sfuggiva il background familiare e che sembrava persino a corto di denaro, si era opposta con decisione. Il progetto che aveva a lungo coltivato era un altro; amica dei Leworthy di Westerham, nel Kent, Lavinia aveva sperato che la sua bellissima ragazza convolasse a nozze con il rampollo di famiglia, Richard, un contabile pallido e ossuto dalla capigliatura chiarissima alla Andy Warhol. Avevano cominciato a uscire insieme, ma Clarissa si era messa a frequentare in segreto anche quello scrittore indiano capellone; le cose erano andate avanti così per un paio d’anni, finché una sera del gennaio 1972, a una festa privata che lui aveva organizzato per inaugurare l’appartamento in cui si era appena trasferito a Cambridge Gardens, nella zona di Ladbroke Grove, lei si era presentata con le idee molto chiare, e da quel momento erano diventati inseparabili. Sono sempre le donne a prendere le decisioni, e agli uomini non resta che sentirsi riconoscenti se sono abbastanza fortunati da risultare i prescelti. Nell’abbraccio che gli diede quella sera era condensata tutta la loro 20

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relazione, il desiderio, l’amore, il matrimonio, l’esperienza genitoriale, le infedeltà (soprattutto quelle di lui), il divorzio e l’amicizia che ancora li univa. Ciò che stava accadendo aveva travolto come un’onda il dolore di quel rapporto e lo aveva spazzato via per lasciare il posto a qualcosa di antico e profondo che non era andato distrutto. E poi, naturalmente, erano uniti dal loro bel bambino, e come genitori erano sempre andati d’accordo. Zafar era nato nel giugno del 1979, poco prima che lui terminasse I figli della mezzanotte. «Tieni le gambe incrociate ancora un poco» le diceva. «Sto scrivendo più veloce che posso.» Un pomeriggio, durante la gravidanza, c’era stato un falso allarme, e lui aveva subito pensato: “Il bambino nascerà a mezzanotte”. Le cose erano andate altrimenti, e Zafar era nato alle 14.15 di domenica 17 giugno. Nella dedica del romanzo avrebbe poi scritto: “A Zafar Rushdie che, contrariamente alle aspettative, è nato nel pomeriggio”. Adesso suo figlio aveva nove anni e mezzo e chiedeva angosciato: «Che cosa sta succedendo?». «Dobbiamo sapere quali sono i suoi programmi nell’immediato» stava dicendo l’agente di polizia. Dovette pensarci su un po’ prima di rispondere. «Credo che tornerò a casa» disse infine, ma l’uomo in uniforme si irrigidì visibilmente, confermando ciò che lui già sospettava. «No, signore, non glielo consiglio.» Allora, come in fondo sapeva che avrebbe finito per fare, si rassegnò a rivelare l’esistenza del seminterrato in Lonsdale Square dove Marianne stava aspettando. «Non è conosciuto come un luogo che lei frequenta abitualmente?» «No, agente, non lo è.» «Bene, allora ci vada e non esca più, almeno per oggi. Mentre parliamo sono in corso delle riunioni, verrà aggiornato sul loro esito domani, appena possibile. Fino ad allora, eviti di uscire.» Parlò a suo figlio, lo tenne stretto a sé, e in quel momento decise di raccontargli tutto ciò che poteva, cercando di dare agli avvenimenti della giornata una colorazione per quanto possibile positiva; perché l’unico modo per aiutare Zafar a reggere l’impatto di ciò che stava accadendo era di non farlo sentire in balia degli eventi, di far sì che avesse dai suoi genitori una versione dei fatti a cui potesse credere e a cui aggrapparsi mentre era soggetto al bombardamento di altre mille versioni differenti, ai giardinetti come in televisione. Clarissa gli riferì che a scuola era stato terribile, avevano dovuto tenere a bada fotografi e troupe televisive che volevano immortalare il figlio dell’uomo minacciato; per fortuna gli al21

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tri ragazzi erano stati fantastici, senza neanche mettersi d’accordo avevano fatto scudo attorno a Zafar permettendogli di passare una giornata di scuola normale, o quasi. Pressoché tutti i genitori erano stati d’aiuto, e quei pochissimi che avevano chiesto che Zafar fosse ritirato dall’istituto perché la sua presenza poteva costituire un pericolo per gli altri bambini erano stati redarguiti dal direttore e costretti a una vergognosa ritirata. Era rincuorante vedere come quel giorno si fossero messi in moto anche il coraggio, la solidarietà, i principi più solidi; i migliori valori avevano serrato le file contro la violenza e il fanatismo – il lato oscuro della razza umana – nel momento stesso in cui sembrava impossibile opporre resistenza alla marea crescente delle tenebre. Ciò che fino a quel giorno era considerato impensabile stava diventando pensabile. Ma alla Hall School di Hampstead la resistenza era già cominciata. «Ci vediamo domani, papà?» Lui scosse la testa. «Ma ti chiamerò, ti chiamerò ogni sera alle sette. Se a quell’ora non puoi, lasciami un messaggio a casa, sulla segreteria, per dirmi quando ti posso telefonare.» Era l’inizio del 1989, parole come “pc”, “portatile”, “telefonino”, “cellulare”, “internet”, “wi-fi”, “sms”, “e-mail” non esistevano ancora o erano appena state coniate. A ogni modo, lui non aveva né computer né telefono cellulare. Però aveva una casa, e in quella casa, anche se non poteva passarci la notte, c’era una segreteria telefonica che poteva chiamare da fuori e “interrogare”, una nuova accezione di una vecchia parola, per ascoltare, anzi, per “recuperare” i suoi messaggi. «Alle sette in punto» ripeté. «Ogni sera, d’accordo?» Zafar annuì solenne. «Okay, papà.» Rientrò verso casa in macchina, da solo; alla radio trasmettevano soltanto cattive notizie. Due giorni prima c’erano state altre “sommosse per il caso Rushdie”, questa volta davanti al Centro culturale americano di Islamabad, in Pakistan. (Non si capiva a che titolo gli Stati Uniti d’America venissero ritenuti responsabili dei Versi satanici.) La polizia aveva aperto il fuoco sulla folla, c’erano stati cinque morti e sessanta feriti. Gli striscioni innalzati dai manifestanti recavano la scritta rushdie, sei un uomo morto. Ora, con l’editto iraniano, il pericolo era enormemente cresciuto. L’ayatollah Khomeini non era soltanto un’influente autorità religiosa. Era anche il capo di uno Stato che aveva ordinato l’uccisione di un cittadino di un’altra nazione sulla quale non aveva giurisdizione alcuna e che poteva contare sui servizi di assassini già utilizzati contro i “nemici” della 22

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rivoluzione iraniana, tra cui persone che vivevano fuori dell’Iran stesso. Ecco un’altra parola nuova che doveva imparare. Alla radio parlavano di “extraterritorialità”. Ma si poteva anche definire come “terrorismo di Stato”. Voltaire aveva detto una volta che uno scrittore dovrebbe abitare vicino a una frontiera internazionale, così da potersi rifugiare oltre confine in caso di persecuzione da parte dei potenti. Lo stesso Voltaire aveva dovuto abbandonare la Francia e riparare in Inghilterra per aver offeso un aristocratico, il cavaliere di Rohan, ed era rimasto in esilio per sette anni. Ma vivere in uno Stato differente da quello del proprio persecutore non era più sufficiente per considerarsi al sicuro. Ora esisteva l’“azione extraterritoriale”. In altre parole, ora ti inseguivano dovunque. La serata a Lonsdale Square era fredda, scura e tersa. La piazza era piantonata da due poliziotti. Quando scese dall’auto, loro finsero di non notarlo. Erano di pattuglia in un perimetro ristretto, sorvegliavano l’area nel raggio di non più di un centinaio di metri dall’appartamento, e poteva sentirli camminare sulla strada anche da dentro casa. In quel silenzio scandito dal rumore dei passi si rese conto di non capire più la sua vita, di non avere idea di cosa sarebbe diventata, e per la seconda volta in quella giornata pensò che forse non ci sarebbe più stata molta vita su cui interrogarsi. Pauline si congedò e Marianne andò a dormire quasi subito. Era stata una giornata da dimenticare. Una giornata da ricordare. Si mise a letto di fianco a sua moglie, che si girò verso di lui; si abbracciarono, rigidi, da quell’infelice coppia di sposi che erano. Poi, separatamente, ognuno perso nei propri pensieri, si addormentarono. Rumore di passi. Inverno. Frullare d’ali nere sopra le sbarre di un castello. Informo il fiero popolo musulmano del mondo, risseldy, rosseldy, mau, mau, mau. Di giustiziarli ovunque si trovino. Risseldy, rosseldy, hey-bombosity, gnicchete-gnacchete, retroqua-qualità, willoby-wallaby, mau, mau, mau.

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Un patto faustiano alla rovescia

Quando era piccolo, all’ora di andare a dormire suo padre gli narrava le magnifiche favole d’Oriente; le raccontava e riraccontava, variandole e reinventandole alla sua maniera. C’erano quelle di Sheherazade dalle Mille e una notte, narrate per combattere la morte e per provare che le storie hanno il potere di ingentilire e sopraffare anche il più spietato dei tiranni; e le favole con gli animali del Panchatantra; e i prodigi che si riversavano come una cascata dal Kathasaritsagara, l’“Oceano formato dai fiumi delle storie”, immenso bacino di racconti creato in quel Kashmir da cui venivano i suoi antenati; e poi le gesta dei potenti eroi raccolte nello Hamzanama e nelle Avventure di Hatim Tai (dalle quali era anche stato tratto un film, pieno di infiorettature rispetto ai racconti originali, su cui il padre ricamava a sua volta, quando lo metteva a letto). Crescere immerso in quelle narrazioni significava imparare due indimenticabili lezioni: la prima era che, pur non essendo vere (nella realtà infatti non c’era traccia di geni nella lampada né di tappeti volanti né di lanterne magiche), quelle storie gli facevano percepire e capire, proprio nel loro essere non vere, verità che la realtà stessa non era in grado di raccontargli; la seconda era che gli appartenevano tutte, così come appartenevano a suo padre, Anis, e a chiunque altro: erano tutte sue, com’erano di suo padre, le storie luminose e le storie cupe, le sacre e le profane, tutte a sua disposizione per essere alterate e rinnovate e scartate e scelte di nuovo come e quando voleva, sue per riderne e gioirne e viverci dentro e insieme e appresso, per dar loro vita nell’amarle e per riceverne in cambio vita nuova. L’animale narratore era l’uomo, l’unica creatura sulla terra che si raccontava storie 25

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per capire qualcosa su se stesso. Le storie erano sue per diritto di nascita, e nessuno poteva togliergliele. Anche sua madre Negin aveva delle storie per lui. Alla nascita, Negin Rushdie si chiamava Zohra Butt, e quando si era sposata con Anis aveva cambiato, oltre al cognome, anche il nome proprio, reinventandolo appositamente per il marito e lasciandosi così definitivamente alle spalle quella Zohra a cui non voleva più pensare, una donna che in passato era stata molto innamorata di un altro uomo. Suo figlio non avrebbe saputo dire se nel profondo dell’animo si sentisse più Zohra o più Negin, perché con lui non parlò mai dell’altro uomo. Preferiva spifferare i segreti di chiunque tacendo invece sui propri. Era infatti una pettegola di livello mondiale, e mentre raccontava seduta sul suo letto, lui, che le massaggiava i piedi come le piaceva, lui, il maggiore e unico maschio tra i suoi figli, ebbro delle notizie deliziose e talvolta piccanti che uscivano dalla sua bocca, dalla gigantesca, ramificata e aggrovigliata foresta di sussurranti alberi della genealogia familiare di cui si faceva latrice, lui si nutriva del frutto proibito dello scandalo. E giunse a capire che anche questi segreti diventavano suoi, poiché un segreto, una volta raccontato, non apparteneva più a chi lo rivelava, ma a chi ne veniva messo al corrente. Se non si voleva che un segreto fosse svelato, bisognava seguire un’unica regola: “Non raccontarlo a nessuno”. Anche questo precetto gli sarebbe tornato utile in seguito. E fu appunto in seguito, quando era ormai diventato uno scrittore, che sua madre una volta gli disse: «Basta, di queste storie non te ne racconterò più, che poi tu le infili tutte nei tuoi libri e io mi ritrovo in mezzo ai guai». Era vero, e forse qualcuno le aveva consigliato di darci un taglio, ma sta di fatto che lei era dipendente dai pettegolezzi come il marito, suo padre, lo era dal bere, e proprio come lui era incapace di smettere davvero. Villa Windsor, Warden Road, Bombay-26. Era una casa sulla collina, dalle finestre si vedeva il brulicare cittadino e, al di là, il mare; sì, suo padre era ricco, anche se passò la vita a spendere ciò che aveva e quando morì, sul lastrico e pieno di debiti, tutto il denaro che lasciò fu una scorta di rupie nel cassetto in alto a sinistra della sua scrivania. Anis Ahmed Rushdie (“B.A. Cantab., Bar-at-Law”, avvocato patrocinante, come recitava orgogliosamente la targa di ottone affissa al muro accanto alla porta principale della villa) aveva ereditato una fortuna dal padre, un magna26

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te del tessile di cui era l’unico figlio, dopodiché se l’era spesa tutta ed era morto: potrebbe anche sembrare la storia di una vita felice, ma non lo era stata. Sul suo conto, i figli sapevano alcune cosette: che la mattina era allegro finché non si radeva, ma poi, una volta che il Philishave aveva fatto il suo lavoro, diventava irritabile, e allora era meglio non stargli tra i piedi; o che quando li portava in spiaggia il fine settimana, all’andata era allegro e divertente mentre sulla via del ritorno era immancabilmente di cattivo umore; o che, quando giocava a golf con la moglie al Willingdon Club, lei, che era una giocatrice migliore, doveva fare in modo di perdere perché non valeva la pena vincere contro di lui; e che quando era ubriaco si metteva a fare smorfie raccapriccianti, alterando i lineamenti del volto in espressioni strambe e terribili che li spaventavano a morte e che nessun estraneo era mai arrivato a vedere, cosicché tutti gli altri erano ignari di cosa intendessero quando dicevano che papà “faceva le facce”. Ma quando ancora erano piccini c’erano quelle storie, e poi il sonno, e se sentivano che in un’altra stanza si stava alzando la voce, se sentivano la mamma che piangeva, non c’era nulla che potessero fare. Si tiravano le lenzuola sulla testa e cominciavano a sognare. Anis portò il figlio tredicenne in Inghilterra nel gennaio del 1961. Per circa una settimana, prima che iniziassero i corsi della Rugby School, condivisero una stanza in un albergo di Londra, il Cumberland Hotel vicino al Marble Arch. Di giorno andavano a comprare gli indumenti prescritti dalla scuola, giacche di tweed, pantaloni grigi di flanella, camicie Van Heusen con il colletto semirigido staccabile, che si chiudeva con bottoncini a pressione sul collo del ragazzino rendendogli difficile respirare. Bevevano milkshake al cioccolato alla Lyons Corner House di Coventry Street, andavano al cinema, l’Odeon Marble Arch, per vedere The Pure Hell of St Trinians, e lui intanto sperava che nel collegio della scuola ci fossero anche delle ragazze. La sera il padre comprava pollo grigliato da asporto nel Kardomah Café di Edgware Road e glielo faceva introdurre clandestinamente nella camera d’albergo, nascosto nel suo nuovo impermeabile a doppiopetto di serge blu. Poi si ubriacava, e a notte fonda lo svegliava scuotendolo e urlandogli parole talmente sconce che al ragazzo, terrorizzato, sembrava persino impossibile che le conoscesse. Infine andarono a Rugby, comprarono una poltrona rossa e si dissero addio. Anis scattò una foto in cui si vede suo figlio davanti al college con in testa un berretto a strisce bianche e blu 27

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e addosso l’impermeabile che sapeva di pollo. La malinconia negli occhi del ragazzo potrebbe far pensare che fosse infelice di andare in una scuola così lontana da casa. Ma in verità non aspettava altro che suo padre partisse per cominciare a dimenticare le notti intrise di quel linguaggio osceno e di quella cieca rabbia immotivata. Voleva lasciarsi alle spalle la tristezza e iniziare a vivere il proprio futuro, ed era forse inevitabile che dopo tutto ciò si sarebbe costruito un’esistenza il più lontano possibile dal padre, frapponendo oceani di distanza tra loro. Tempo dopo, laureatosi a Cambridge, quando comunicò al padre che voleva fare lo scrittore, dalla bocca di Anis uscì una sorta di doloroso guaito. «E adesso» aveva urlato «che cosa racconto ai miei amici?» Ma diciannove anni più tardi, il giorno del quarantesimo compleanno di suo figlio, Anis Rushdie gli spedì una lettera scritta di suo pugno che divenne la comunicazione più preziosa che quello scrittore aveva o avrebbe mai ricevuto. Accadde cinque mesi prima che Anis morisse, ormai settantasettenne, di un mieloma multiplo fulminante, un tumore del midollo osseo. In quella lettera emergeva con che attenzione avesse letto i libri del figlio, quanto li avesse capiti, come fosse impaziente e desideroso di leggerne altri, e con quanta profondità sentisse dentro di sé un amore paterno che in tutta la vita non era riuscito a esprimere. Visse abbastanza per felicitarsi del successo dei Figli della mezzanotte e della Vergogna, ma non per leggere il libro con il più grosso debito nei suoi confronti. E forse fu meglio così, perché in questo modo si perse anche il clamore che ne seguì; ma una delle poche cose di cui suo figlio era assolutamente sicuro era che nel mezzo della battaglia scatenata dai Versi satanici avrebbe potuto contare sull’incondizionato, incrollabile sostegno del padre. Di fatto, senza l’ispirazione delle sue idee e del suo esempio quel libro non sarebbe mai stato scritto. “Mamma e papà ti incasinano la testa?” No, per niente. O meglio, magari sì, ma ti hanno anche permesso di diventare la persona, e lo scrittore, che avevi dentro di te. Il primo dono che ricevette dal padre, un dono simile a un messaggio in una capsula del tempo che non capì fino all’età adulta, fu il suo cognome. “Rushdie” era un’invenzione di Anis, il cui padre si chiamava in realtà in tutt’altra maniera, quasi con uno scioglilingua: Khwaja Muhammad Din Khaliqi Dehlavi, un raffinato cognome della Città Vecchia di Delhi, perfettamente adatto a quel gentiluomo d’altri tempi che con 28

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un’occhiata truce folgorava chi lo guardava nella sua unica fotografia sopravvissuta, quell’industriale di successo e saggista occasionale che viveva in una haveli diroccata nella famosa vecchia mahalla, o quartiere, di Ballimaran, un dedalo di viottoli ventosi dalle parti di Chandni Chowk, che era stata la casa di Mirza Ghalib, il grande poeta farsi e urdu. Muhammad Din Khaliqi era morto giovane, lasciando al figlio una fortuna (che avrebbe sperperato) e un nome troppo pesante da portarsi addosso al giorno d’oggi. Anis si era dunque ribattezzato “Rushdie” in onore di Ibn Rushd, colui che in Occidente è noto come Averroè, il filosofo arabospagnolo di Cordoba del XII secolo che era diventato il qadi, o giudice, di Siviglia, traduttore e commentatore celebrato delle opere di Aristotele. Suo figlio portò quel nome per due decenni prima di rendersi conto che il padre, un vero studioso dell’islam a cui però mancava completamente la fede religiosa, lo aveva scelto perché di Ibn Rushd ammirava le argomentazioni razionalistiche all’avanguardia nei confronti degli islamici che, ai suoi tempi, tendevano a interpretare le scritture in modo strettamente letterale; e altri vent’anni dovettero passare prima che la battaglia scatenata dai Versi satanici fornisse un’eco tutta novecentesca a quella disputa vecchia di otto secoli. “Perlomeno” si disse mentre sopra il suo capo si stavano addensando le nubi nere della tempesta “andrò in battaglia con il giusto nome.” Dalla tomba, suo padre gli aveva consegnato un vessillo sotto il quale era pronto a lottare, il vessillo di Ibn Rushd, ossia dell’intelletto, dell’argomentazione, dell’analisi e del progresso, per la libertà della filosofia e dell’insegnamento dai ceppi della teologia, per la ragione umana contro la cieca fede, la sottomissione, l’accettazione prona e l’immobilismo. Nessuno vuole andare in guerra, ma se ti ci trovi in mezzo, che almeno sia una guerra giusta, per le cose più importanti che ci sono al mondo, e allora potresti anche chiamarti “Rushdie”, se dovessi andare a combatterla, e collocarti laddove ti ha messo tuo padre, nel solco della tradizione del grande aristotelico, Averroè, Abuˉ’l-Walˉı d Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd. Lui e suo padre avevano la stessa voce. A casa, quando rispondeva al telefono, gli amici di Anis lo scambiavano per lui, e ogni volta doveva interromperli prima che si mettessero a dire qualcosa di imbarazzante. Si assomigliavano, e nei momenti tranquilli del loro accidentato viaggio di padre e figlio si sedevano in veranda, nel tepore della sera, con il profu29

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mo della buganvillea nelle narici, a discutere appassionatamente sulle cose del mondo, e sebbene fossero quasi sempre in disaccordo entrambi sapevano di avere lo stesso modo di pensare. Ciò che condividevano sopra ogni cosa era la mancanza di fede. Anis era un senza Dio, il che è ancora considerato una condizione scioccante negli Stati Uniti, sebbene sia tutt’altro che eccezionale in Europa, e completamente incomprensibile nella maggior parte del resto del mondo, dove la sola idea di “non credere” è difficile persino da formulare. Ma era esattamente ciò che era: un ateo che però sapeva molto di Dio e ci pensava spesso. Le origini dell’islam lo affascinavano poiché erano le uniche a essere storicamente documentate tra le grandi religioni del mondo, e perché il Profeta non era una leggenda glorificata da “evangelisti” che avevano scritto cento o più anni dopo la vita e la morte dell’uomo reale, né un piatto riscaldato da quell’eccezionale proselitista che era stato san Paolo per un facile consumo globale, ma piuttosto un uomo dalla vita ampiamente certificata, di cui si conoscevano bene le condizioni economiche e di censo, vissuto in un’epoca di profondi cambiamenti sociali, un orfano diventato mercante di successo dalle tendenze mistiche, che un giorno, sul monte Hira vicino alla Mecca, aveva visto l’arcangelo Gabriele stagliarsi all’orizzonte riempiendo la volta celeste e istruendolo su come “recitare” e pertanto creare a poco a poco il testo della “Recitazione salmodiata”, al-Qur’an, il Corano. Anis aveva tramandato al figlio la convinzione che la nascita dell’islam fosse affascinante proprio perché si era verificata “dentro la storia”, e che, in quanto tale, non poteva che essere stata influenzata dagli eventi, dalle pressioni e dalle idee circolanti al tempo della sua creazione; e che storicizzare l’accaduto, cercare di capire come una grande idea potesse essere modellata da quelle diverse forze, era di fatto l’unico approccio possibile all’argomento; e che si poteva considerare Maometto un autentico mistico – così come si può accettare che Giovanna d’Arco abbia realmente sentito delle voci o che la Rivelazione di san Giovanni riporti effettivamente l’esperienza “reale” di un’anima tormentata – senza necessariamente stimare come vero che, se qualcuno fosse stato accanto a lui quel giorno sul monte Hira, avrebbe assistito a sua volta all’apparizione dell’arcangelo. La rivelazione doveva essere intesa come un evento interiore, individuale, non come una realtà oggettiva, e la parola rivelata andava indagata come 30

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ogni altro testo, usando tutti gli strumenti critici a disposizione, letterari, storici, psicologici, linguistici e sociologici. In breve, il testo doveva essere considerato come un artefatto umano e, in quanto tale, preda della fallibilità e dell’imperfezione degli uomini. Il critico americano Randall Jarrell, con una frase diventata famosa, ha definito il romanzo come “un lungo scritto con qualcosa di sbagliato dentro”. Ecco, Anis Rushdie pensava di sapere cosa ci fosse di sbagliato nel Corano: alcuni passaggi sembravano sconnessi. Secondo la tradizione, Maometto, che era forse analfabeta, quando scese dalla montagna cominciò a recitare e chiunque appartenesse alla sua più stretta cerchia e gli fosse vicino in quel momento trascrisse le sue parole su quanto aveva sottomano: pergamena, pietra, pelle, foglie, e talvolta, si dice, persino ossa. Questi brani furono conservati in un forziere custodito nella sua abitazione fino alla sua morte, quando i compagni si riunirono per stabilire la corretta sequenza della rivelazione, ed è alla loro risolutezza che dobbiamo il testo del Corano diventato canonico. Per poterlo considerare “perfetto”, il lettore è chiamato a credere che: a) l’arcangelo abbia riferito la Parola di Dio senza alcuna imprecisione, il che è del tutto ammissibile dal momento che si presume che gli arcangeli siano immuni da refusi; b) il Profeta, o, come preferiva chiamarsi, il Messaggero, si sia ricordato le parole dell’arcangelo con assoluta precisione; c) le frettolose trascrizioni dei compagni, buttate giù nel corso di una rivelazione durata ventitré anni, siano parimenti esenti da errori; d) quando essi si riunirono per disporre il testo nella sua forma definitiva, la loro memoria collettiva della corretta sequenza fosse a sua volta perfetta. Anis Rushdie era riluttante a contestare le proposizioni a), b) e c). La d), invece, gli risultava più difficile da digerire, perché, come facilmente si accorge chiunque legga il Corano, parecchie sure, o capitoli, contengono profonde discontinuità, cosicché un argomento è lasciato cadere d’un tratto, senza preavviso apparente, per poi magari essere ripreso inaspettatamente più avanti, all’interno di una sura che fino a quel momento riguardava tutt’altro. Anis coltivò a lungo il desiderio di ricomporre quelle discontinuità per poter così giungere a un testo che fosse più chiaro e più facile da leggere. Non si trattava di un piano segreto o nascosto, tutt’altro, ne discuteva apertamente con gli amici anche a cena. Non c’era nessun brivido in quell’impresa, nessuna sensazione che essa potesse costi31

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tuire un pericolo. Forse i tempi erano diversi, e un’idea del genere poteva essere sostenuta senza temere ritorsioni; o forse le persone al corrente erano davvero meritevoli di fiducia; o semplicemente Anis era soltanto un eccentrico inoffensivo. Fatto sta che quello studioso revisionista crebbe i suoi figli in un’atmosfera di indagine libera e aperta, senza divieti, senza tabù. Tutto, persino le sacre scritture, poteva essere vagliato e, almeno potenzialmente, migliorato. Ma Anis non portò mai a compimento il suo progetto e, quando morì, tra le sue carte non fu trovato alcun testo. Negli ultimi anni era stato preda dell’alcol e dei fallimenti economici, non aveva avuto né il tempo né la concentrazione necessaria a sobbarcarsi la fatica richiesta da una profonda erudizione coranica. Forse il suo non era stato altro che un sogno velleitario, vacue chiacchiere alimentate dal whisky. Ma suo figlio ne era rimasto segnato. Eccolo, il secondo grande dono di Anis alla sua famiglia: uno scetticismo apparentemente impavido, accompagnato da una quasi totale libertà dalla religione. Certo, qualche piccola concessione alla tradizione la faceva anche lui. La famiglia Rushdie non mangiava “la carne del porco”, e al loro desco non si trovavano nemmeno alimenti egualmente proscritti dalle scritture come saprofagi “delle terre o delle acque” né “tutto ciò che non ha né pinne né scaglie, tanto ne’ mari quanto ne’ fiumi”; dunque, niente gamberi al curry. Assai di rado, poi, partecipavano al rituale su e giù delle preghiere celebrative dell’Idgah. Una o due volte l’anno si osservava il digiuno, durante quello che i musulmani indiani – perlopiù di lingua urdu invece che araba – chiamano Ramzán invece che Ramadan. E una volta, per un breve periodo, avevano ospitato un maulvi, un maestro di teologia, assunto da Negin per insegnare a quei pagani dei suoi figli almeno i rudimenti della fede. Ma i pagani si erano ribellati contro il docente, una sorta di versione in miniatura di Ho Chi Minh, ed erano stati così spietati nel prenderlo in giro che il maulvi era corso dai genitori per lamentarsi a gran voce di quell’irriverenza nei confronti del sacro; Anis e Negin si erano fatti una risata e avevano preso le difese dei ragazzi, cosicché il maulvi se n’era andato stizzito per non tornare mai più, mugugnando contro i miscredenti. Dopo quell’esperienza non vi furono altri tentativi di educazione coatta alla religione. I pagani restarono pagani e, perlomeno a Villa Windsor, andava bene così.

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