LA CURA NELLA FASE TERMINALE DELLA VITA - SIGG

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LA CURA NELLA FASE TERMINALE DELLA VITA IPOTESI DI UNA PROPOSTA FORMATIVA: IL PARERE DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE Alberto Marsilio*

“Il tema della morte e più in generale quello della fine della vita umana, possiede una rilevanza assolutamente primaria per l’autocomprensione dell’uomo… poiché investe la radice stessa del rapporto che noi siamo in grado di stabilire con noi stessi e con il mondo esterno”. (Comitato Nazionale per la Bioetica 1995) Come afferma il Comitato Nazionale per la Bioetica, la questione della morte è di fondamentale importanza per la nostra esistenza… E’ un paradosso che ha da sempre interpellato la coscienza umana alla ricerca di una spiegazione avendo poi evidentemente forti ripercussioni sul piano etico, della prassi medica e più in generale dell’assistenza al morente. Ovviamente il mio punto di vista sarà diverso e complementare a quello della collega Evelina Bianchi, essenzialmente perché il MMG opera in un altro contesto: il domicilio del paziente. Se è vero che si muore prevalentemente in Ospedale o nelle Residenze per Anziani, è altrettanto vero però che la maggior parte delle persone desidererebbe poter morire a casa propria (varie statistiche lo dimostrano). I motivi per cui ciò avviene poco frequentemente sono molteplici: l’assenza o la scarsa disponibilità della famiglia a partecipare al progetto assistenziale, l’inadeguatezza del domicilio, un’insufficiente livello organizzativo delle strutture socio-sanitarie territoriali ed infine (come qualcuno afferma), la scarsa assistenza del Medico di Medicina Generale. Pur non potendo condividere in pieno questa affermazione (sia per esperienza personale che di molti altri colleghi), è innegabile però che assistere un malato terminale risulta essere uno dei compiti più difficili in ambito sanitario e mi trovo d’accordo sul fatto che non sempre questi pazienti, sono curati al meglio: le cure a loro prestate dipendono più dalla “vocazione” e sensibilità di ciascun medico che dalla preparazione specifica che purtroppo manca in tutto l’iter formativo: dall’Università, al corso di formazione specifico per la MG, ai numerosi corsi per la Formazione Continua. Ma negli ultimi anni, la riorganizzazione dell’assistenza ospedaliera, dovuta alla necessità di razionalizzare la spesa sanitaria con la conseguente introduzione del sistema di pagamento a prestazione (DRG: Diagnosis Related Group), ha riservato all’ospedale il ruolo di fornitore di cure solo nella fase acuta della malattia. Così, sempre più spesso, gli operatori sanitari del territorio, si trovano a dover gestire pazienti in fase terminale. E d’altra parte ritengo che l’assistenza al malato terminale, che decida di rimanere a casa propria, rientri a pieno titolo tra i compiti della Medicina di Famiglia. Perché espropriare questa fase della vita della persona al MMG da un lato contrasta con quella continuità del rapporto Medico/paziente (che si protrae per tutta la vita), che è proprio il “valore aggiunto” e caratterizzante la Medicina di Famiglia, dall’altro (almeno questa è la mia esperienza), priva il MMG di una straordinaria possibilità di arricchimento professionale ed umano che segna in maniera indelebile il suo agire. E’ proprio grazie a quelle persone che in questi anni, come medico, ho accompagnato negli ultimi giorni della loro vita, che ho maturato la convinzione per cui la vita degli ultimi giorni ha sempre un “senso” e un significato sia per il paziente che per gli operatori che l’assistono. Così sul punto del “non c’è più niente da fare”, ho scoperto col tempo, quanto “c’è ancora da fare” prendendosi cura della persona in toto. *

Medico di Medicina Generale, Mira (VE)

Inguaribilità, infatti, non è sinonimo di incurabilità e, se spostiamo l’ottica dell’intervento dal curare la malattia al prendersi cura della persona malata, ci accorgiamo che anche nella fase terminale la vita esprime bisogni cui si può rispondere con interventi non solo di tipo farmacologico, ma anche psicologico, spirituale e sociale. Questo approccio olistico ( che si rifà al modello bio-psico-sociale) al malato/persona permette, a mio avviso, di intravedere la giusta prospettiva per affrontare la complessità dell’assistenza nella vita degli ultimi giorni così spesso stretta nella morsa tra le richieste di eutanasia da un lato, e un interventismo oltre ogni limite da vero e proprio accanimento terapeutico, dall’altro. E’ quella che si può definire come “la cultura dell’accompagnamento” in cui il rapporto medico/paziente è fondato essenzialmente su una relazione di fiducia e di alleanza. Ne consegue che ogni intervento non ha lo scopo né di accelerare, né di procrastinare l’evento morte, ma di migliorare la qualità di vita del paziente influenzando positivamente tutto il decorso della malattia. Il malato, pur essendo alla fine dei suoi giorni, non è mai deresponsabilizzato, ma anzi rimane (per quanto possibile) parte attiva ed integrante della cura. Questa cultura dell’accompagnamento trova la sua piena applicazione nella pratica clinica nel modello delle Cure Palliative che, come ha recentemente proposto l’OMS, possono così essere definite: “… sono un approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie mortali… per mezzo del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali.” E’ una definizione che ha il merito, a mio avviso, di non relegare le cure palliative solo negli Hospices, ma di trasmettere questa cultura assistenziale a tutti gli operatori sanitari che si occupano della fase terminale della vita. Per questo motivo si sta facendo strada sempre più la convinzione che le cure palliative possano entrare a pieno titolo nel complesso delle cure primarie proprie della Medicina di Famiglia. Ovviamente non tutti i pazienti in fase terminale possono essere assistiti presso il loro domicilio; è necessario che rispondano a determinati “Criteri di Eleggibilità”: • Volontà del paziente • Condizioni cliniche compatibili con la permanenza a domicilio • Presenza di un valido supporto familiare o di una rete di aiuto informale • Disponibilità di idonee condizioni abitative • Attivazione di un modello organizzativo multiprofessionale Solo se questi criteri vengono rispettati può iniziare un valido percorso di assistenza domiciliare al malato in fase terminale. A questo punto vediamo cosa dovrebbe “saper fare” e soprattutto “saper essere” un operatore sanitario per assistere con competenza e qualità della cura il morente presso il suo domicilio: • • • • •

Identificare i bisogni del malato e della famiglia Acquisire competenze e abilità specifiche Acquisire Copying Skills Organizzare l’assistenza in un’ottica multidisciplinare Conoscere le problematiche etiche di fine vita

Identificare i bisogni del malato e della famiglia Secondo la mia personale esperienza e in accordo con gran parte della letteratura, metterei in evidenza quattro bisogni fondamentali: • • • •

Non soffrire Non essere abbandonato Essere ascoltato Essere informato

E’ proprio vero, come dice Tolstoj, che “il dolore non è mai cosa da nulla”, perché nella pratica quotidiana il “Basta che non soffra” è la richiesta più frequente sia del malato che della famiglia, mentre il sintomo dolore è a volte sottostimato e sottotrattato da noi medici. Chiaramente non basta sedare il dolore fisico per togliere la sofferenza al malato terminale… Il dolore in queste persone è un dolore “globale”, che ha una genesi multifattoriale: • Fisica • Spirituale • Sociale • Psicogena Ed è per questo motivo che la nostra presenza deve essere al tempo stesso anche sostegno, attenti a quanto il malato sta vivendo in quel dato momento. Così facendo risponderemo anche agli altri bisogni fondamentali: non essere abbandonato, essere ascoltato e essere informato. Acquisire competenze e abilità specifiche Molteplici poi sono i sintomi cosiddetti “disturbanti”, che bisogna saper fronteggiare… • • • • • • •

INCAPACITA’ AD ALIMENTARSI ED IDRATARSI DISPNEA NAUSEA E VOMITO STIPSI O DIARREA LESIONI DA DECUBITO (LDD) DEPRESSIONE DISTURBI DEL SONNO

Sempre più spesso poi ci troviamo di fronte a malati con nutrizione parenterale totale (CVC), con nutrizione enterale (PEG), pompe di infusione, con tracheostomia, con ossigeno o ventiloterapia… la conoscenza e il funzionamento di questi ausili non può mancare nel nostro bagaglio professionale… Acquisire Copying Skills (Capacità di gestire emotivamente l’evento) La morte è un evento la cui risonanza emotiva in ciascuno di noi ha talvolta un effetto paralizzante, che è ancor più deleterio se siamo coinvolti in una relazione d’aiuto. Pertanto perché la relazione d’aiuto con il morente sia efficace bisogna saper comprendere e gestire le reazioni personali di fronte alla perdita di un bene così significativo com’è la vita di una persona; ma ciò può avvenire solo dopo un adeguato percorso formativo che fornisca serenità interiore per saper “vedere” il morente senza fughe o proiezioni.

Organizzare l’assistenza in un’ottica Multidisciplinare (Integrazione in rete dei servizi) Attualmente i principi e le leggi che regolano l’assistenza a domicilio dei malati terminali si rifanno alle norme per l’Assistenza Domiciliare Integrata, la cosiddetta ADI, che fornisce prestazioni: A.D.I. Art. 1 Prestazioni: • Di Medicina Generale • Di Medicina Specialistica • Infermieristiche • Di Riabilitazione • Di Assistenza Sociale • Di Aiuto Domestico L’approccio multidisciplinare è una condizione imprescindibile proprio per la complessità della domanda di cura di questi pazienti e l’integrazione tra le varie figure professionali diventa il perno centrale dell’assistenza. Il lavoro in equipe però, non è mai scontato, è un modo nuovo e diverso di operare che ci trova impreparati e che richiede, anche in questo caso, un percorso formativo ad hoc. Problematiche Etiche di fine vita Chi assiste un malato terminale sa bene che si trova ad affrontare anche uno dei problemi etici più complessi della medicina: dalla Comunicazione della diagnosi infausta, al problema del consenso informato, dalle varie opzioni dei trattamenti di fine vita, alla nuova realtà delle Direttive Anticipate. E’ naturale che insorgano dubbi sul cosa fare o non fare, il limite da non superare… A mio avviso un orientamento utile è quello che ci viene dall’etica clinica nordamericana (Jonsen, Siegler, Winslade) che consigliano di esaminare ogni situazione clinica secondo quattro criteri: 1. Le indicazioni mediche • Qual è il problema del paziente? • Quali sono gli obiettivi del trattamento? • Quali sono le probabilità di successo? • Che cos’altro si può fare se il piano terapeutico fallisse? 2. • • • • •

Le preferenze del paziente Il paziente è mentalmente e legalmente capace di intendere e di volere? Se competente, quali preferenze ha espresso circa il trattamento? E’ stato informato su benefici e rischi (ha dato il consenso informato?) Ha lasciato scritto in precedenza disposizioni di volontà (direttive anticipate)? Se è incapace, c’è un legale rappresentante (amministratore di sostegno, tutore)?

3. • • • • •

La qualità di vita Quali prospettive vi sono con o senza trattamento? Quali limitazioni fisiche, mentali, sociali avrà il malato con il trattamento? Le condizioni presenti o future sono tali da essere giudicate non desiderabili da lui? Vi sono ragioni per sospendere il trattamento? Sono stati pianificati interventi di conforto e cure palliative?

4. I fattori contestuali • Vi sono fattori familiari, culturali, religiosi che possono influenzare le decisioni sul trattamento? • Vi sono problemi logistici o di organizzazione dell’assistenza? Cercando di rispondere correttamente a questi quesiti impariamo ad introdurre il metodo dell’analisi etica come valido strumento per il nostro lavoro, perché in definitiva una buona medicina etica è una buona medicina clinica. Altrimenti il rischio è che la fase terminale diventi un processo sotto stretto controllo medicosanitario, ma privata della sua valenza umana ed esistenziale. E invece malattia e cura sono anche e soprattutto circostanze squisitamente personali, perché mettono a confronto primariamente delle persone. Bisogna pertanto cercare di riportare l’atto clinico al cuore dell’arte terapeutica e questo è possibile solo se si opera un’armonica integrazione tra scienza e sapienza. L’operatore sanitario diventa capace di arte terapeutica se compie atti che comprendano contemporaneamente tutto il rigore scientifico e tutta la capacità di prendersi cura della persona. Così facendo la medicina sarà al tempo stesso Scienza ed Arte e si potranno recuperare quei valori che hanno fatto la storia e dato prestigio alla medicina stessa.