L'ETERNO RITORNO DEL NERO NELLA MODA - UBI Banca

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L'ETERNO RITORNO DEL NERO. NELLA MODA. DI RENATA MOLHO. Rappresenta un distinguo unificante. Il nero riassume gli estremi dell'eterna dicotomia.
L’ETERNO RITORNO DEL NERO NELLA MODA DI RENATA MOLHO

Rappresenta un distinguo unificante. Il nero riassume gli estremi dell’eterna dicotomia nella quale si dibatte la moda: esclusività e diffusione. Può essere concettuale, geometrico o gotico, può adeguarsi ai piu differenti stili, e non va percepito come sottrazione, ma, al contrario, come somma di colori e di significati, come un monocromo di Klein. Con il nero il pensiero potrebbe sembrare inespresso, ma in realtà è sintesi di potenza, semplicemente si addensa, disegnando il perimetro, definendo la silhouette. Tutti ne subiscono il fascino perchè sottolinea il rapporto della figura con lo spazio e viceversa: è come se lo spazio si aprisse per lasciarle posto. Più che mai presente nella moda, anche la sua storia recente, quella del novecento, lo vede periodicamente protagonista. Con un andamento ondivago lo si riscopre e lo si esalta, adattandolo all’esigenza del momento. Cosi, è con Coco Chanel che il colore si riduce. Il suo leggendario tubino nero, accompagnato dalle abbondanti collane di perle connota il primo dopoguerra, oltre a introdurre un’idea di semplificazione, sposta la destinazione del nero: non solo relegato ad alcune occasioni, ma utilizzato anche per il giorno. Gi esistenzialisti, poi segnano un’altra tappa importante. Lo adottarono a oltranza, nei maglioni neri a collo alto che rappresentavano il grado zero, il rifiuto delle sovrastrutture, nei giubbotti neri, che diedero il nome ai blouson noir, i ragazzi stessi che li indossavano. Inevitabile collegare l’immagine a quelle fumose delle caves parigine e a Juliette Gréco. Un paio di decenni piu tardi, a metà degli anni 70 arrivarono i Punk , con il loro motto “no future”. Alla base dell’ estetica nichilista, inventata da Vivienne Westwood e Malcolm Mclaren che seppero interpretare visivamente il disagio, ci stavano il nero, le spille da balia, le borchie e la pelle lucida dei pantaloni attillati e le calze smagliate. Copiata e divenuta una moda, quella dei punk rimane un’espressione moderata, rispetto a quella dei successivi dark, che rifiutarono qualsiasi mediazione o ironia: se i primi indulgevano nei colori sgargianti dei capelli, stemperando la severità del tutto nero, i dark avrebbero mostrato tutta la loro intransigenza scegliendo solo e unicamente il nero per esprimersi.

Il nero riassume gli estremi della dicotomia nella quale la moda si è sempre dibattuta: esclusività e diffusione. Il suo valore, come segno e come espressione di un pensiero visivo, è chiaro fin dal ‘400. Tutti ne subiscono il fascino, perché è simbolo di eleganza e purezza, e sottolinea il rapporto della figura con lo spazio.

Rassegna propone questo contributo critico, nel contesto della mostra “Il Cavaliere in nero”, in corso al Museo Poldi Pezzoli di Milano fino al 15 gennaio 2006, con il sostegno della Banca Regionale Europea.

Sopra: John S. Sargent Madame Pierre Gautreau, 1884. Metropolitan Museum, New York.

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A fianco: Madame Villiers, Madame Soustras, 1802. Museo del Louvre, Parigi.

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Qui il nero diventava una ridondanza semiotica, un grido ancora piu acuto nel buio. Ma è alla fine degli anni 80 che tutto cambia veramente. Con l’arrivo a Parigi degli stilisti giapponesi, Yamamoto, Miyake, Comme des Garçons, si sarebbe ribaltato e ridefinito il linguaggio di moda, se ne sarebbero smorzati i toni, arricchendolo per sottrazione. Il nero che, malgrado alcuni episodi, era, come già detto, relegato ad alcune occasioni, che andavano dal lutto alla serata importante, o comunque appartenevano a una iconografia circoscritta, assume un nuovo significato e torna a diventare simbolo di eleganza e purezza. Arriva a rappresentare un distinguo tra l’estetica colta e e una più ingenua e grossolana, che mette il colore al centro. Tanto che alcune categorie sociali si travestiranno definitivamente, soffocando qualsiasi esuberanza cromatica, e trasformando totalmente il proprio guardaroba, diventando a tratti dei fanatici. E le folle del mondo si trovarono vestite di nero, richiamando alla mente un brano di Dickens, in David Copperfield, nel quale descrive l’inghilterra e Londra come un grande e lungo funerale. Ma il fenomeno lo si può leggere come un necessario momento di sincerità, una sorta di momento catartico della moda, nel quale si esprime nel suo duplice valore, quello di vitalità e di morte, nel suo contenere l’inizio e la fine stessa. Come un fiume carsico, la fascinazione per il nero, a volte sembra scomparsa, sopraffatta da differenti entusiasmi, ma, immancabilmente, dopo qualche stagione, torna a scorrere in superficie, travolgendo e oscurando i rosa, i turchesi e cocedendo un piccolo spazio solo al blu e ai toni neutri, che gli fanno da contraltare, e imponendosi di nuovo con decisione. Cosi è attualmente: il ritorno del nero, infatti, è stato decretato dalla collezione di Prada per l’inverno 2005/ 2006. Il valore del nero, come segno e come espressione di un pensiero visivo, è chiaro fin dalle sue prime manifestazioni quattrocentesche e in seguito nella sua massima diffusione tra la seconda metà del XVI sec. e la prima metà del secolo seguente. Lo era sia nel mondo cattolico che in quello riformato. L’abbigliamento femminile, naturalmente più che quello maschile, ha permesso di smorzare il rigore del nero, attraverso molteplici invenzioni sartoriali.

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Preziosità e decorazioni, tagli e costruzioni, giochi di proprzioni: è interessante vedere le analogie tra gli abiti più recenti e quelli antichi: cambiano le fogge, pur restando frequenti le ispirazioni e i rimandi tra oggi e ieri. Dall’uso del lutto come status symbol si è arrivati all’assunzione contemporanea dei due significati (civile e luttoso) che nella moda ottocentesca maschile, raggiunse addirittura un valore sociale mai più abbandonato. Parliamo di quella che Flugel definì “La grande rinuncia”, e che aveva il duplice scopo di democratizzare il guardaroba e la rappresentazione di sè, e di dare rilievo, di sottolineare l’importanza della figura femminile in società. Un argomento complesso e ricco, trasversale, si direbbe oggi, che riserva letture differenti. Nero come astrazione, dunque, come spiritualità. Come espressione ascetica. Ma anche come consapevolezza dello spazio che si occupa. E ancora, nero come mortificazione, come rinuncia e, totalmente all’opposto: nero come strumento della seduzione. Distinguo intellettuale, dunque, ancor prima che gerarchico, il nero lo si adotta per molte ragioni, tra le quali, la più pratica e attuale: ci lascia fuori dal giudizio. Racconta comunque di un’appartenenza che può essere reale o millantata, ma è resa facile esattamente dalla moda, che, ci permette di scegliere tra tante identità possibili. Minimalista o barocco, lineare o frastagliato, il nero è segno di consapevolezza.

In alto: Hans Mielich, il futuro duca Alberto di Baviera in abito da sposo, 1545. Bayerische Staatsgëmaldesamlung, Monaco. Nella pagina a fianco, in alto: Krine, ritratto di giovane signora, 1830/35. Museo dell'Hermitage, San Pietroburgo.

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CARLO E FEDERICO LA VOCE DEI BORROMEO NELLA MILANO SPAGNOLA DI PAOLO BISCOTTINI DIRETTORE DEL MUSEO DIOCESANO

Carlo e Federico, nonostante la profonda diversità, sono tra i capisaldi della storia della Chiesa ambrosiana, che riconosce in loro i continuatori della tradizione di Ambrogio e gli interpreti di una città che, fra le alterne vicende, aveva saputo perfino rinunciare al suo ruolo politico di capitale, senza mai perdere il senso dell’eccellenza in ogni campo e mantenere alto nel tempo un primato culturale. La mostra nasce da questa convinzione e a essa affida la lettura di un’epoca, da Carlo a Federico per l’appunto, quanto mai intensa di trasformazioni e avvenimenti e suggestiva di chiari e scuri. E se ogni epoca è naturalmente di passaggio fra un prima e un poi, quanto mai lo è questa dei due Borromeo: in arte si va dal rigore del classicismo tardo cinquecentesco al pietismo scenografico e vibrante dei primi decenni del Seicento; nello sviluppo degli eventi dalla peste di San Carlo (1576-77) a quella manzoniana (1629-32), diversamente vissute dagli spagnoli e forse anche dai due Borromeo. San Carlo voleva fare di Milano una sorta di civitas Dei, Federico pensava alla Diocesi di Milano come alla chiesa di San Carlo, alla cui imitazione si dedicò appassionatamente.

La mostra è in corso al Museo Diocesano di Milano, fino al 7 maggio 2006, con il sostegno della Banca Regionale Europea.

A fianco, da sinistra: Ambrogio Figino, ritratto di San Carlo Borromeo; pittore lombardo del XVII secolo, ritratto di Federico Borromeo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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La sua spiritualità si espresse largamente nella cultura, considerando lo scrivere un modo di servire Dio e l’arte un prezioso strumento per la comprensione del progetto divino. Il Museo Diocesano con questa rassegna guarda a entrambi, nella convinzione della loro centralità nella storia della Chiesa ambrosiana dopo il Concilio di Trento. Da un punto di vista strettamente artistico la grandezza di Federico è fuori dubbio ma essa non avrebbe avuto un ruolo trainante e fortemente innovativo, se non si fosse rispecchiata nella personalità e nell’eroicità di Carlo. E in questo scorrere del tempo e delle idee questa mostra si pone come una pausa di riflessione e, lo vorremmo, di contemplazione della bellezza e del mistero di Dio nell’arte. Per informazioni e prenotazioni: telefono 02 89420019 www.museodiocesano.it [email protected] Orari: martedì domenica 10/18 lunedì non festivi chiuso