manuale di polizia - Extrafondente

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olizia di S ta to. Il servizio di polizia per una società multiculturale un manuale per la Polizia di Stato. Ministero dell'Interno. Dipartimento della Pubblica ...
È il compimento di un lavoro avviato cinque anni fa, la storia di una collaborazione tra Polizia di Stato e COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti), nata per contribuire a fare della Polizia italiana una polizia capace di adeguarsi alla società che cambia, in grado di offrire un servizio adatto ad una società multietnica e multiculturale. Grazie al progetto europeo NAPAP (NGOs and the Police Against Prejudice), finanziato dalla Commissione Europea e dalle Polizie di molti Paesi europei, nel 1997 (dichiarato “anno europeo contro il razzismo”), prese avvio la formazione a carattere sperimentale di operatori di Polizia di Stato e di alcune Polizie Municipali. Da allora la collaborazione tra COSPE e Polizia di Stato si è consolidata dando vita, tra l’altro, alla formazione di formatori di polizia, alla traduzione della Carta di Rotterdam e, da ultimo, a questo manuale. Anche questo manuale è prodotto nell’ambito di un progetto europeo chiamato TRANSFER e ha perciò potuto godere del sostegno e del parere dei tanti amici e colleghi di altri Paesi dell’Unione, alcuni dei quali ormai ci accompagnano in questo lavoro da anni - come la Scuola di Polizia di Catalogna e il Centre UNESCO de Catalunya; altri - come l’Accademia di Polizia di Stoccolma e Mångfald Utveckling, An Garda Siochana (Polizia d’Irlanda) e i numerosi rappresentanti di associazioni irlandesi - conosciuti proprio grazie al progetto TRANSFER.

Con il contributo del "programma di lotta contro la discriminzione" della Comunità Europea.

Il libro è il risultato degli sforzi di una squadra costituita da operatori di polizia, persone a rischio di discriminazione per ragioni “razziali”, etniche e religiose e persone impegnate nella lotta alla discriminazione. E’ dunque il prodotto evidente della possibilità di dialogo e comprensione tra realtà diverse e di quella comunicazione attraverso le diversità che è l’elemento centrale di tutto il testo. Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sulla Polizia vista dalle persone di origine etnica minoritaria sono opera di Tso Chung-Kuen e Demir Mustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia specifica e la supervisione sono del Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persio che, assieme a Patrick Johnson, ha prodotto il capitolo sulla discriminazione. Il capitolo sulla criminalizzazione dei migranti è da attribuire a Cristian Poletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4, i suggerimenti per la formazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha curato la scheda sull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica di Bologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sul buddhismo e padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. Costantino Tessarin ha redatto l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è di Marina Pirazzi. Il manuale è stato letto dal comitato di consulenza costituito da Udo Enwereuzor, Cosimo Braccesi, Rossella Selmini, Samanta Arsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, Giulio Soravia, Mato Jora e da numerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputo offrire spunti e suggerimenti importanti per il suo miglioramento.

Il servizio di polizia Il servizio di polizia per una società multiculturale - un manuale per la Polizia di Stato

Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti ONLUS

Questo lavoro è stato ideato ad uso di quei funzionari, responsabili di Uffici e Reparti della Polizia di Stato italiana, chiamati a formare i propri operatori ad agire come Servizio e non come Forza di Polizia, in un contesto sociale connotato dalla diversità la quale impone l’acquisizione di un saper essere, prima ancora che di un saper fare, improntato alla mediazione dei conflitti, alla negoziazione, alla capacità – come sottolinea il Codice Etico Europeo per i Servizi di Polizia - di comunicare, di comprendere le problematiche sociali, culturali e comunitarie, combattendo il razzismo e la xenofobia.

per una società multiculturale un manuale per la Polizia di Stato

Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione

Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione

Il servizio di polizia per una società multiculturale

a cura di Marina Pirazzi, Patrick Johnson (COSPE) e Claudia Di Persio (POLIZIA DI STATO)

un manuale per la Polizia di Stato

Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sulla Polizia vista dalle persone di origine etnica minoritaria sono opera di Tso Chung-Kuen e Demir Mustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia specifica e la supervisione sono del Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persio che, assieme a Patrick Johnson, ha prodotto il capitolo sulla discriminazione. Il capitolo sulla criminalizzazione dei migranti è da attribuire a Cristian Poletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4, i suggerimenti per la formazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha curato la scheda sull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica di Bologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sul buddhismo e padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. Costantino Tessarin ha redatto l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è di Marina Pirazzi. Il manuale è stato letto dal comitato di consulenza costituito da Udo Enwereuzor, Cosimo Braccesi, Rossella Selmini, Samanta Arsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, Giulio Soravia, Mato Jora e da numerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputo offrire spunti e suggerimenti importanti per il suo miglioramento.

copyright 2004: COSPE e Ministero dell’Interno

prefazione

Negli ultimi venti anni l’Italia è stata meta di crescenti flussi migratori che ne hanno trasformato profondamente il tessuto sociale. Oggi, il nostro è, senza ombra di dubbio, un Paese multietnico e pluriculturale, divenuto tale per effetto di un processo storico irreversibile che ha incontrato non poche resistenze e perplessità. La presenza di cittadini stranieri, depositari di culture e tradizioni diverse, porta, infatti, all’emergere di bisogni nuovi che un Servizio di Polizia non può omettere di considerare, ma che deve costantemente rilevare e soddisfare secondo quello stile di prossimità alla comunità che ne caratterizza la mission. La Polizia è chiamata così, più incisivamente che nel passato, a riaffermare con forza la propria cultura organizzativa, calibrata sulla protezione dei diritti di tutti gli individui e sulla promozione del dialogo che evita il conflitto, dell’integrazione che combatte la discriminazione, del pluralismo che valorizza le differenze e del confronto che promuove il rispetto delle identità reciproche. Alla Polizia spetta il compito di creare un clima organizzativo coerente con i valori di cui è interprete, soprattutto perché essa rappresenta, per il mondo degli stranieri immigrati, la manifestazione più immediata e diretta dello Stato, il volto che il Paese decide di mostrare, lo stile di atteggiamento con cui viene, di fatto, a porsi rispetto alle comunità etniche minoritarie presenti sul proprio territorio e a tutti i gruppi comunque minori a rischio di discriminazione. Ecco perché il manuale prevede un capitolo dedicato a raccogliere impressioni e percezioni che dei Servizi di Polizia hanno alcuni rappresentanti di gruppi etnici minoritari a rischio di discriminazione - segnatamente la comunità cinese e quella rom - per dare

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–- prefazione

voce anche allo straniero in ordine a come vive o a come vorrebbe vivere il rapporto con gli uomini e le donne della Polizia di Stato. Al tempo stesso il lavoro cerca di far luce su quel sistema di stereotipi e condizionamenti presenti, il più delle volte inconsapevolmente, nell’operatore di Polizia chiamato ad interagire con l’immigrato e che, talvolta, si traducono in comportamenti sommari e scarsamente professionali, che pesano fortemente sulla costruzione del rapporto e sull’opinione che della Polizia hanno i gruppi etnici minoritari come “forza” piuttosto che come “servizio”. Il target cui il manuale è indirizzato è, d’altro canto, quello dei responsabili di Uffici, Reparti, Commissariati, Scuole, di tutti coloro, cioè, cui è affidato il compito di formare, aggiornare, guidare l’agire quotidiano dei propri uomini, orientandolo al rispetto della diversità e alla promozione dell’integrazione, per una Polizia sempre più efficiente, efficace, comunicativa, orecchio e voce della comunità di cui costituisce il riflesso più diretto.

Giugno 2004

Pref. Luciano Rosini Direttore Centrale per gli Istituti di Istruzione Dipartimento della Pubblica Sicurezza

indice

introduzione

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capitolo 1 – Agire contro la discriminazione, un impegno per la polizia

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1 – Perché la discriminazione riguarda la polizia 1.1 – Applicare le leggi

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2 – Perché la discriminazione riguarda chi ha la responsabilità di unità operative

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capitolo 2 – Criminalità e criminalizzazione dei migranti

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1 – Troppe facili certezze

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2 – Il dibattito criminologico in Italia 2.1 – La vittimizzazione degli immigrati

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3 – Alcune perplessità sull’uso delle statistiche ufficiali

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4 – Per una polizia al servizio – anche – del cittadino immigrato

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5 – L’azione della polizia

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capitolo 3 – Le relazioni tra polizia, comunità e persone

di origine etnica minoritaria

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1 – Conoscenza e generalizzazioni

57

2 – Le culture 2.1 – Che cosa si intende per cultura

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8

–- indice

3 – L’invenzione dell’etnia 3.1 - Pregiudizio e stereotipo

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4 – Il ruolo dei mass-media nella diffusione dello stereotipo anti-immigrato

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5 – L’azione della polizia 5.1 – I gruppi di contatto

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capitolo 4 – La comunicazione interculturale

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1 – Comunicare

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2 – La comunicazione tra persone che non appartengono alla stessa cultura

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3 – L’azione della polizia 3.1 - Tutti hanno diritto a capire e a farsi capire capitolo 5 – Discriminazione e razzismo

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1 – Il primo passo: indagare in modo efficace

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2 – Come agisce la discriminazione

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3 – L’azione della polizia 3.1 – Definizioni 3.2 – Fattori particolari 3.3 – Implicazioni per chi è responsabile di personale sottordinato 3.4 – Il sostegno alla vittima 3.5 – Che fare 3.6 – Standard minimi per la registrazione di episodi razziali

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capitolo 6 - L’opinione di persone di origine etnica minoritaria

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1 – Un capitolo speciale

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2 – L’Italia in movimento

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3 – Come vorremmo che fosse l’operatore di polizia 3.1 – Diritti e doveri 3.2 – Prospettive per la partecipazione delle comunità minoritarie al corpo di polizia italiano

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indice -–

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4 – Approfondimento sulle comunità rom in Italia

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5 – Approfondimento sulle comunità cinesi in Italia

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appendici

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A – Società pluraliste e multiculturali: come ci siamo arrivati

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B – I diritti umani

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C – La comunicazione interculturale

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D – Lista delle organizzazioni italiane impegnate nella lotta alla discriminazione razziale, etnica e religiosa

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E – Bibliografia consigliata per l’approfondimento

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introduzione

Nel trattare della diversità presente nella società attuale che la polizia deve servire, questo testo prende in considerazione la dimensione religiosa, accanto a quella supposta “razziale” ed etnica, poiché oggi esse sono più che mai legate. Ne sono segnali chiari la crescente islamofobia (specie dopo i fatti dell’11 settembre 2001); la generalizzazione e la confusione tra le attribuzioni di “arabo” e di “musulmano”; il crescente movimento di difesa dell’identità religiosa di un Paese – in Italia e altrove - qualificata come l’identità “culturale” di tutti gli abitanti di quel Paese; il cumulo di discriminazioni per motivi religiosi, per appartenenza razziale ed etnica – oltre che di genere – che dà vita a forme multiple di discriminazione particolarmente difficili da identificare e combattere; la storica discriminazione nei confronti degli ebrei, in cui appartenenza razziale e confessione religiosa sono spesso confuse nella mente di molti. Questi termini sono inoltre inestricabilmente legati anche nella riflessione teorica (in campo antropologico, sociologico e di psicologia sociale e culturale), riflessione per la quale cultura e appartenenza etnica e religiosa - accanto ad altri fattori economici, sociali e politici – sono considerati elementi costitutivi dell’identità collettiva, non sempre definibili con confini precisi. L’esserci limitati a questi tre campi di discriminazione non esclude tuttavia l’applicazione ad altri campi di molti dei principi e delle azioni qui suggeriti; riferimenti alle discriminazioni per l’orientamento sessuale, di genere e legati alla disabilità sono infatti frequenti nel testo e coerenti con l’ “approccio orizzontale” alla discriminazione adottato dalla Commissione Europea per lottare contro tutte le forme di discriminazione. Nella scrittura del manuale ci siamo ispirati alla strategia di mainstreaming, in base alla quale s’intende integrare la lotta al razzismo e alla discriminazione nell’insieme dei settori di attività di polizia, inserendo quindi il tema trattato nel

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–- introduzione

normale lavoro, dalla definizione di policy all’adozione di procedure e pratiche. Il libro è stato concepito come un manuale indirizzato a tutti i funzionari di polizia che abbiano responsabilità organizzative, di guida e di valutazione del lavoro di altri operatori di polizia e a coloro che, in qualche modo e a diverso titolo, sovrintendono alla formazione e all’aggiornamento del personale. Ancorché l’intento sia stato quello di redigere un testo di utilità pratica, lo stesso non ha la pretesa di essere una raccolta di “ricette” quanto, piuttosto, lo spunto per un’analisi che lascia molte questioni aperte al giudizio professionale dell’operatore responsabile, nel rispetto della libertà di pensiero e di atteggiamento e nel riconoscimento delle difficoltà personali che possono rendere delicati alcuni compiti particolari dell’operatore di polizia. Sebbene il testo, come si è detto, ambisca ad essere uno strumento pragmatico, utile alla pianificazione e all’impostazione di modalità di lavoro spesso totalmente nuove per gli operatori di polizia, non abbiamo voluto rinunciare a proporre quegli elementi di riflessione teorica che ci sembravano imprescindibili per la stessa comprensione di quanto suggerito nei paragrafi “L’azione della polizia”. Siamo inoltre convinti che gli elementi teorico-concettuali contenuti nel testo possano essere utili a chi ha compiti di formazione ed aggiornamento del personale. Per questa ragione abbiamo anche inserito dei “suggerimenti per la formazione”, presentati in forma di esercitazione per il lettore ma che possono essere facilmente adattati e usati per la formazione e l’aggiornamento in aula degli operatori di polizia. Le sezioni “Per chi vuole approfondire” propongono un arricchimento degli argomenti trattati in modo essenziale nel corpo del testo. Chi si sentisse poi particolarmente coinvolto da temi che noi crediamo appassionanti, potrà attingere maggiori conoscenze consultando la ricca bibliografia suggerita in appendice. In appendice al manuale è riportato un glossario al quale i lettori e le lettrici possono fare riferimento durante la lettura e in momenti diversi. Sentiamo tuttavia la necessità di precisare in apertura alcune annotazioni sulla terminologia usata. Abbiamo usato la parola discriminazione perlopiù associata agli aggettivi razziale e religiosa. Tuttavia, anche quando il termine è usato isolatamente (salvo che non sia diversamente espresso) esso

introduzione -–

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si riferisce, per evitare ripetizioni faticose alla lettura, alla discriminazione in campo razziale, etnico e religioso. Abbiamo adottato la terminologia gruppo etnico minoritario (o di origine etnica minoritaria) perché essa rispecchia la terminologia ufficiale degli accordi europei e delle leggi italiane in materia. Sappiamo però che essa può essere contestata e che i cambiamenti nella composizione e nei rapporti della società italiana ed europea richiedono una costante attenzione alle parole che definiscono le identità. Come si spiega nel testo, particolarmente problematico è l’uso di termini come cultura, etnia e soprattutto etnia minoritaria o minoranza etnica: essi sono spesso usati nel tentativo di identificare la base della discriminazione razziale, soprattutto nella forma del razzismo culturale, ma gli stessi termini possono anche risultare offensivi per alcuni. La scelta di questa terminologia è stata dunque fatta nella consapevolezza dei suoi stessi limiti e nella speranza che un giorno ogni gruppo avrà la possibilità, e il potere sociale, di autodefinirsi e che tali definizioni saranno precise, adatte ai contesti in cui saranno usate ed accettabili da parte degli altri gruppi. Purtroppo non esistono termini privi di associazioni o significati di valore e perfino la parola “razza”, anche se ormai inaccettabile come divisione scientificamente fondata degli esseri umani, continua ad avere un significato sociale che si manifesta nel razzismo che rimane da combattere. Può sembrare strano che organizzazioni diverse, comprese le istituzioni internazionali, soprannazionali e nazionali usino la parola “razza”, oggi che gli stessi biologi hanno riconosciuto come la divisione degli esseri umani in “razze” non abbia fondamento scientifico. Infatti, gli esseri umani potrebbero più utilmente essere classificati, da un punto di vista biologico, secondo mille altri elementi che attraversano tutti i gruppi cosiddetti “razziali”. D’altra parte, l’eventuale uso della parola “razza” in questo testo non implica l’accettazione di alcuna teoria fondata sull’esistenza di “razze umane”. Molti gruppi sociali, per parte loro, rivendicano la propria differenza: i neri, ad esempio, e ciò non attiene unicamente al colore della pelle (così come le donne l’hanno rivendicata nei confronti degli uomini), chiamando in causa esperienze storiche, socio-culturali, economiche, ecc., piuttosto che l’idea della divisibilità dei gruppi umani in “razze” distinte. Usare il termine “razziale” offre la possibilità di dare un nome, e quindi riconoscere, la discriminazione che viene operata da alcuni soggetti e da organizzazioni nei confronti di altri, proprio sulla base dell’appartenenza razziale, e ci permette quindi di identificare il razzismo.

1 1 - Perché la discriminazione riguarda la polizia Con questo manuale vogliamo proporre suggerimenti e consigli ai funzionari di polizia per facilitare la rilevazione dei casi di discriminazione su base razziale, etnica e religiosa; per mettere in atto programmi preventivi di azioni discriminatorie e per gestire operativamente segnalazioni di casi e/o incidenti che potrebbero avere una matrice razzista, o comunque discriminatoria, per questioni di appartenenza etnica, nazionale o religiosa. La discriminazione di cui si tratta in questo manuale concerne il trattare certe persone in modo diverso (di solito peggiore) dalle altre sulla base di valori che sono associati a certe differenze fra gruppi o categorie di persone. Di solito le differenze fra persone e gruppi non creano problemi e la maggior parte delle differenze tra le persone, o gruppi di persone, sono considerate insignificanti. Al di là delle preferenze personali o delle necessità di tipo medico, normalmente non diamo molta importanza, per esempio, al colore degli occhi o al gruppo sanguigno di una persona; sicuramente queste preferenze non costituiscono dei criteri sulla base dei quali decidere se offrirle un lavoro o negarlo. Tuttavia, nella storia recente e passata, molte persone, popoli, nazioni e gruppi politici hanno attribuito importanza e un valore preciso al colore della pelle, all’orientamento sessuale, alla religione, alla cultura o nazionalità, al sesso. È proprio quando attribuiamo un valore alla differenza, e di conseguenza agiamo in modo iniquo a causa di essa, che la discriminazione entra in gioco. Ogni società, in ogni tempo, è composta da una moltitudine di persone diverse, con infinite differenze tra di loro. È però innegabile che la società italiana del ventunesimo secolo presenta una gamma di diversità

agire contro la discriminazione, un impegno per la polizia

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–- perché la discriminazione riguarda la polizia

differente da quella nella quale la maggior parte di voi é cresciuta o ha cominciato a lavorare in polizia e in questi ultimi anni la polizia italiana, come le altre polizie europee, è chiamata spesso ad occuparsi del problema della discriminazione e della sfida posta da società sempre più multiculturali e multietniche. La società nella quale prestate il vostro servizio di polizia è dunque oggi “diversa” in un modo differente da quella del passato e anche la diversità all’interno del personale di polizia sta lentamente cambiando per riflettere la nuova diversità della società attuale. I cambiamenti nella composizione della società italiana moderna sono stati accompagnati dai cambiamenti nei valori associati a certe differenze. Per molti anni la relazione tra il neonato e la madre è stata considerata di primaria importanza, era quindi logico che alle madri fosse concesso il diritto speciale di assentarsi dal lavoro dopo il parto per un periodo sufficiente alla buona relazione con il neonato. Oggi la relazione tra il neonato e il padre è stata riconsiderata e anche ai padri è concesso di assentarsi dal lavoro dopo la nascita del figlio. Il tabù dell’omosessualità, per quanto ancora vivo, ha subito profonde incrinature ed è possibile oggi per le persone omosessuali ritrovarsi pubblicamente, lottare per i propri diritti e accedere a cariche pubbliche. Inoltre gli atteggiamenti nei confronti dei disabili stanno lentamente cambiando, muovendo dalla pietà al riconoscimento che differenze intellettuali e fisiche possono non costituire un handicap. I confini tra il mondo delle donne e quello degli uomini sono oggi meno rigidi e le donne hanno accesso a professioni prima esercitate solo da uomini, ad esempio nell’esercito e in polizia. Infine, l’atteggiamento di superiorità intellettuale e morale dei bianchi cristiani sopra ogni altro gruppo è oggi considerato sempre meno accettabile. La discriminazione, come detto, avviene quando individui, o gruppi di persone, o categorie di persone, sono trattate in modo diverso perché, nell’opinione di chi agisce, esse appartengono ad un gruppo, o categoria, le cui differenze sono giudicate in qualche modo negativamente e non ci sono giustificazioni per tale giudizio e per un diverso trattamento. Naturalmente capita spesso a tutti noi di trattare gruppi diversi di persone in modi diversi perché abbiamo una buona ragione per farlo: quando entriamo in una moschea ci togliamo le scarpe perché il gruppo di persone per le quali la moschea è un luogo di preghiera ha una sensibilità particolare verso la profanazione di un posto considerato sacro se ci si cammina con le scarpe; in polizia si fa in modo, quando è possibile, che sia un ope-

perché la discriminazione riguarda la polizia -–

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ratore di polizia donna ad occuparsi di una donna che denuncia di essere stata vittima di violenza sessuale, perché la delicatezza del caso renderebbe difficile per la vittima raccontare l’accaduto ad un uomo. In questi casi c’è un buon motivo per assicurare che il servizio offerto alla vittima sia adeguato alla situazione e alla specificità dell’incidente e appare evidente che non si tratta di un trattamento “di favore”: si ha infatti un caso di discriminazione quando non c’è una buona ragione per trattare un gruppo peggio di un altro. Per esempio, se un operatore di polizia rifiutasse di credere ciò che dicono gli uomini con gli occhi blu e perciò li interrogasse più a fondo degli uomini con gli occhi castani, allora egli o ella starebbe discriminando perché essere interrogati più spesso e più a lungo è spiacevole e fastidioso e, soprattutto, non c’è nessuna ragione per credere che gli uomini con gli occhi castani siano più onesti di quelli con gli occhi blu. La discriminazione da parte di operatori di polizia, così come la discriminazione nel più ampio contesto della società, è inaccettabile, oltre ad essere non professionale e incostituzionale, eppure gli operatori di polizia, così come gli operatori di altre istituzioni e organizzazioni, corrono il pericolo di discriminare, a meno di non mantenere il passo con i cambiamenti della società, assicurando che i valori in essa presenti siano coerenti con quelli del servizio di polizia e della società che servono. Oltre agli aspetti deontologici, i casi di discriminazione (o “di odio” come sono chiamati ormai in diversi contesti europei ed extraeuropei)1 portano in sé fattori particolari che li rendono degni di una speciale attenzione. Le discriminazioni colpiscono le vittime non per quello che esse sono come individui ma per il gruppo o categoria alla quale appartengono o alla quale qualcuno pensa che esse appartengano. La vittima in quanto individuo non c’entra – o c’entra poco - e l’effetto su di essa può essere molto pesante. Cerchiamo di chiarire con un esempio: pensate a voi stessi quando, per l’ennesima volta, ad una festa, una persona con cui chiacchierereste volentieri vi respinge solo perché le dite che fate il poliziotto. C’è ben poco che potete fare a questo punto, potreste forse tentare di spiegare che quello del poliziotto è un mestiere onorevole, che richiede speciali qualità e che offre un servizio fondamentale alla società ma non è garantito che possiate diventare amici se la categoria professionale alla quale appartenete provoca nell’altro una reazione negativa; pensate a quante volte avete taciuto la vostra professione per non incorrere in queste imbarazzanti e umilianti situazioni. Nel caso fosse il colore della vostra pelle o il

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–- perché la discriminazione riguarda la polizia

vostro accento straniero a infastidire l’altro, sarebbe quasi impossibile rimediare: voi potete fingere di fare un altro lavoro ma un africano non può negare di essere nero e non può nemmeno tenere un corso di anti-razzismo nel bel mezzo della festa nella speranza di guadagnarsi un nuovo amico. Se dall’esempio di discriminazione diretta come quello appena illustrato passiamo a contesti istituzionali, come è il caso della selezione per un posto di lavoro o per una promozione, è ben possibile che non avrete mai un contatto diretto con la persona che prende la decisione discriminatoria e non potreste mai sapere su che base è stata presa la decisione. Infine, gli episodi di razzismo possono avere un effetto negativo su una comunità intera: le vittime possono essere tante e l’effetto può costituire un danno per tutta la società. Un gruppo di persone considerato pregiudizialmente inaffidabile, per esempio, può avere più difficoltà nel trovare impieghi con alte responsabilità e alti stipendi e tutto il gruppo può risultare segregato in una povertà inaccettabile. A quel punto il gruppo può ribellarsi, come i neri in Sud Africa o i cattolici in Irlanda del Nord. Il gruppo può avere ragione da vendere sull’inaccettabilità della situazione ma resta il fatto che le conseguenze per la società possono essere anni di tensione e di violenza e a poco servirà ribadire che la violenza o il terrorismo sono anch’essi inaccettabili, l’esperienza storica dimostra che essi sono purtroppo fenomeni reali ed inevitabili quando si producono nel tempo gravi ingiustizie. C’è anche un alto rischio che gli incidenti di razzismo si ripetano e che ogni incidente costituisca parte di un problema più ampio, a volte organizzato, per esempio nella creazione di ronde anti-immigrati. Ricapitolando, la discriminazione e la lotta alla discriminazione sono dunque fatti che riguardano la polizia perché: • la discriminazione è vietata dalla legge e la polizia deve applicare le leggi; • la discriminazione è in primo luogo un’offesa alle vittime ma è anche un costo per la società. L’emarginazione ingiustificata di qualsiasi gruppo o categoria di cittadini porta alla disgregazione della società e impedisce la collaborazione che è necessaria per qualsiasi gruppo di persone che voglia vivere insieme (o sia costretto a farlo) in sicurezza e tranquillità; • l’odio razziale, etnico e religioso non colpisce solo le vittime per quello che esse sono ma per ciò che esse rappresentano. Il primo punto merita un’attenzione particolare.

perché la discriminazione riguarda la polizia -–

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1.1 - Applicare le leggi I compiti che la Polizia di Stato è chiamata a svolgere al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini sono: > tutelare l’esercizio delle libertà e dei diritti di ogni individuo; > vigilare sull’osservanza delle leggi, dei regolamenti e dei provvedimenti della pubblica autorità; > tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica; > provvedere alla prevenzione e alla repressione dei reati; > prestare soccorso in caso di calamità ed infortuni; > offrire ogni altra forma di assistenza e di servizio al pubblico. Uno dei compiti primari della polizia è dunque quello di fare rispettare la legge. L’impegno della polizia nella lotta alla discriminazione, in particolare su base razziale, etnica, religiosa e nazionale di cui ci occupiamo in questo manuale, è un impegno affermato in primo luogo nella Costituzione italiana all’articolo 3: ______ “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Nel 1975, con la Legge n. 645, l’Italia ratifica la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale la cui definizione è stata successivamente ripresa in modo letterale dall’Art. 43 del Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo Unico sull’immigrazione, noto come Legge Turco-Napolitano) che, proprio agli articoli 43 e 44, regola la materia degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e delle relative azioni civili e penali: ______ “1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di

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–- perché la discriminazione riguarda la polizia

parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”; (in appendice il testo completo degli Artt. citati).

Tali articoli sono rimasti in vigore anche dopo le modifiche apportate al Testo Unico dalla più recente legge sull’immigrazione (n. 189/2002), detta Legge Bossi-Fini. Benché la definizione di “atto discriminatorio” contenuta nell’Art. 43 abbia specifico rilievo con riguardo all’azione civile, la circolare ministeriale 11/98 del 20 marzo 1998 precisa che “gli stessi fatti potrebbero anche rilevare ai fini disciplinari e, nei casi più gravi, assumere valenza penale o giustificare l’adozione di una misura di prevenzione”. Infine, per completare il panorama delle leggi attualmente in vigore in Italia, il Decreto-Legge 26.4.1993, n. 122, convertito con modificazioni nella Legge n. 205 del 1993, tratta delle misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa (in appendice il testo degli articoli rilevanti). Anche l’Unione Europea ha legiferato in materia e di particolare rilievo e importanza sono le due Direttive emanate dal Consiglio dell’Unione Europea n. 43/2000 e n. 78/2000 (in appendice il testo completo delle direttive europee) che sono state recepite nell’ordinamento italiano rispettivamente dal Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 2152 e dal Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 2163. In particolare, la Direttiva n. 43 fissa gli standard minimi ai quali ogni Stato dell’Unione deve adeguarsi in materia di “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”. I decreti attuativi del governo italiano purtroppo hanno recepito le Direttive in un’accezione limitativa in punti diversi e sostanziali. Ad esempio, il rifiuto di procedere ad una revisione della legislazione vigente alla luce della Direttiva stessa e all’integrazione delle nuove disposizioni con la legislazione preesistente in materia di discriminazioni. In alcune parti, il Decreto Legislativo ha operato delle modifiche sostanziali, come nel caso degli “organismi per la promozione della parità

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di trattamento” trasformati in “Ufficio per il contrasto delle discriminazioni” che da organo indipendente diventa organismo sotto il controllo governativo. All’Art. 3 scompaiono gli organismi di diritto pubblico come campo di applicazione del decreto e l’Art. 4, al terzo comma, sostituisce l’“inversione dell’onere della prova” con un riferimento all’Art. 2729 del Codice Civile, rendendo assai meno efficace la norma. È da notare che quanto previsto dalla Direttiva, in relazione all’inversione dell’onere della prova, è già presente nell’ordinamento giuridico italiano e sarebbe stato sufficiente riprodurre parzialmente l’Art. 4 comma 5 della Legge 125/91. Va rilevato che entra nell’ordinamento italiano il concetto di “molestia” (Art. 2, comma 3) ovvero “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”. Il termine si riferisce al concetto riconosciuto perlopiù in Italia oggi con il termine mobbing.

direttiva 2000/43/CE del consiglio dell’Unione Europea, 29 giugno 2000 Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (G.U. n. L180 del 19/07/2000 pag.0022-0026) (omissis) Articolo 2 Nozione di discriminazione (omissis) 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; (omissis)

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Il Consiglio d’Europa ha infine emanato la Raccomandazione (Rec 2001/10) “Codice etico europeo per la polizia” che in diversi punti (18, 25, 43, 44, 49) richiama i doveri della polizia sul rispetto dei diritti fondamentali della persona e dell’agire equo e professionale e ai punti 25 e 40 precisa che il reclutamento del personale di polizia deve avvenire con criteri non discriminatori e tali da includere tutti i gruppi presenti nella società e che l’agire di polizia deve essere sempre ispirato all’imparzialità e alla non discriminazione.

2 – Perché la discriminazione riguarda chi ha la responsabilità di unità operative Ci sono anche motivi individuali per i quali, come operatori di polizia, dovreste occuparvi della discriminazione, sia nel servizio offerto al pubblico, sia nell’organizzazione interna e nella gestione. In primo luogo, oltre a dovere rispondere dei vostri stessi atti, siete anche responsabili per gli atti o le omissioni del personale che gestite, tanto da dover rispondere legalmente dei comportamenti sbagliati degli operatori per i quali avete responsabilità, se non potete dimostrare di aver fatto tutto quanto necessario per prevenirli4. È dunque vostro obbligo assicurarvi che il personale adempia ai propri compiti nel miglior modo possibile. In secondo luogo, in quanto manager di risorse umane, avete anche il compito di valorizzare i diversi elementi presenti nella forza lavoro (visibili e non visibili, come età, sesso, origine etnica e “razziale”, disabilità, personalità, stile di lavoro, ecc.) in modo da creare un ambiente produttivo nel quale ognuno si senta apprezzato, dove i talenti di ognuno siano valorizzati e che possa favorire il raggiungimento dello scopo di erogare un servizio di polizia equo e libero da discriminazioni. La questione della discriminazione all’interno della Polizia a questo riguardo è soggetta anch’essa alla Legge n. 286/1998 Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione, Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 42):

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______ “9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile.”

Si nota qui l’importanza della raccolta di dati e dell’analisi statistica (anche per evitare azioni civili contro la polizia), tema che riapparirà quando tratteremo la questione del monitoraggio dei dati relativi all’appartenenza etnica, religiosa e di genere. In terzo luogo, proprio per quanto detto sopra, l’esempio che voi, personalmente, in quanto operatori di polizia sapete offrire alla vostra squadra e le relazioni che tutto il gruppo sa instaurare con la comunità che serve sono di vitale importanza. Lo scopo di questo manuale è dunque di offrire alcuni degli strumenti concettuali e pratici per raggiungere il fine di un servizio di polizia equo e libero da discriminazioni, pur nei limiti posti dagli strumenti stessi e dal potere decisionale degli operatori di polizia ai quali questo testo è indirizzato. Siamo infatti consapevoli che, senza un cambiamento profondo di tutta la struttura e della cultura che complessivamente l’organizzazione esprime, i cambiamenti possibili rischiano di essere limitati sia territorialmente che nella loro portata e nella loro qualità. In particolare due cose ci sembrano fondamentali perché il processo possa considerarsi completo ed efficace: > l’impegno che i dirigenti della polizia devono assumere pubblicamente nei confronti della lotta alla discriminazione e per un servizio di polizia che sia equo e non discriminatorio, oltre che professionalmente valido; > la raccolta di informazioni sull’appartenenza etnica e religiosa delle persone che vengono in contatto con la polizia. Riguardo al primo punto, benché l’impegno della polizia per il rispetto dei diritti umani sia implicito nella deontologia dell’operatore, è importante che venga costantemente riaffermato il principio che la polizia agisce a difesa di tutte le persone che si trovano sul proprio territorio, sì da

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permettere anche alle persone di origine etnica minoritaria, di religione e credo minoritari, così come a tutti gli uomini e a tutte le donne, di riconoscersi in quelle comunità i cui diritti la polizia ha il compito di difendere. Riguardo la raccolta di informazioni sull’appartenenza etnica delle persone che sono controllate e perquisite per strada o arrestate, autori e vittime di omicidi o di violenze e molestie, esso è uno strumento fondamentale di gestione: > per garantire che il servizio erogato sia equo nei confronti di tutte le componenti della comunità locale e per essere in grado di dimostrarlo; > per rendere possibili ulteriori attività di monitoraggio da parte di altri uffici e istituzioni, come per esempio la magistratura; > per attivare programmi di prevenzione. Fino a quando non saranno disponibili questi dati, ogni analisi sulla situazione in Italia rispetto alle discriminazioni e ai casi di razzismo sarà approssimativa, imprecisa e unicamente affidata alle conclusioni che si possono trarre dai dati sistematicamente raccolti nel resto dell’Europa.

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ESEMPIO

Considerate le generalizzate resistenze, da parte delle vittime del reato, a denunciare gli sfruttatori alle pubbliche autorità, per una serie complessa di motivazioni tra cui il timore di ritorsioni sui familiari nei Paesi d’origine e valutata invece la maggiore disponibilità a raccontarsi che le immigrate straniere, oggetto di tratta, mostravano alle associazioni di volontariato che le avvicinavano su strada, l’Ufficio Immigrazione della Questura di Napoli ha utilizzato, negli anni dal 2001 al 2003, per riuscire a penetrare nella realtà criminale, sottraendo nel contempo le vittime da ulteriore sfruttamento, le modalità di applicazione dell’Art.18 (D. Lgs. 25 luglio 1998, n.286) che consente alle associazioni iscritte nell’apposito registro nazionale la prerogativa di presentare la proposta per il rilascio del permesso di soggiorno. Grazie all’accordo tra l’Ufficio e le associazioni operanti nel territorio, ragazze straniere che avevano dimostrato la volontà di sottrarsi alla condizione di assoggettamento e violenza ed erano state accolte presso centri di prima accoglienza venivano condotte presso l’Ufficio Immigrazione. Nell’Ufficio si procedeva ad integrare le informazioni fornite dal responsabile dell’associazione che accompagnava la ragazza, con un colloquio diretto preceduto da vari incontri informali volti a mettere a proprio agio la vittima e guadagnarne la fiducia. La realizzazione di questa attività era affidata a due appartenenti al ruolo degli ispettori individuati, all’interno della Sezione Accertamenti di Polizia Giudiziaria, come persone in possesso della professionalità e sensibilità necessarie, incaricate una di seguire le vittime provenienti dai Paesi balcanici e l’altra quelle provenienti dalla Nigeria. Grazie alle informazioni dettagliate ed approfondite fornite dalle ragazze nel corso di svariati colloqui, è stato possibile avviare indagini che hanno portato alla ricostruzione dell’attività di organizzazioni criminali dedite alla tratta e allo sfruttamento della prostituzione e all’individuazione dei responsabili. Naturalmente, verificata la fondatezza delle situazioni riferite e descritte, veniva rilasciato alle ragazze il permesso di soggiorno per sei mesi, rinnovabili alle condizioni previste dalla legge. I risultati sono stati apprezzabili perché le vittime, superato il timore iniziale, inserite nel mondo lavorativo e sottratte quindi alla condizione di assoggettamento psicologico in cui vivevano, hanno sostenuto le dichiarazioni iniziali anche innanzi all’A.G., divenendo a tutti gli effetti testi del procedimento penale a carico dei responsabili del turpe traffico.

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note 1

Questo testo non adotta l’espressione “reati d’odio” (hate crimes) per due motivi: a) l’espressione sembra fare riferimento all’intenzionalità dell’azione mentre la discriminazione e gli atti di razzismo prescindono dall’intenzione dell’autore e si misurano solo sulla base degli effetti che producono; b) la parola “reato” sembra limitare l’azione della polizia alle azioni sanzionate per legge mentre sappiamo che la polizia ha anche ampi compiti di prevenzione.

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“Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica” (GU n.186 del 12.8.2003), testo in vigore dal 27.8.2003.

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“ Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” (GU n.187 del 13.8.2003), testo in vigore dal 28.8.2003.

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LA DICHIARAZIONE IN MATERIA DI POLIZIA adottata dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa con Risoluzione 690 del 1979. Artt. 9,10,11 dei Principi Etici

2 1 - Troppe facili certezze Parlare di criminalità e di criminalizzazione degli immigrati in un manuale di questo tipo può apparire fuorviante o perlomeno bizzarro. Nel nostro Paese, infatti, esiste una tendenza abbastanza consolidata, sia nell’opinione pubblica che negli operatori che si occupano quotidianamente di questioni inerenti alla sicurezza pubblica, a dare per scontato che una fetta consistente della popolazione immigrata presente sul nostro territorio (soprattutto di quella “clandestina” e proveniente da Paesi extracomunitari) sia dedita ad attività criminali, e che quindi l’immigrazione, accanto ad alcuni indubbi vantaggi per l’economia nazionale, presenti aspetti di forte problematicità per la sicurezza del nostro Paese. Si tratta di opinioni ormai talmente radicate nell’immaginario collettivo da sembrare quasi delle verità assolute e dimostrate, anche perché ricevono un’autorevole conferma dalle statistiche ufficiali che si occupano di tracciare il quadro della criminalità nazionale. Esse vengono ogni giorno riaffermate dai titoli strillati a voce e su carta dai nostri mezzi di comunicazione e trovano eco anche nella politica, nei discorsi dei nostri colleghi di lavoro e della gente comune. Non sono più semplici convinzioni ma veri e propri assiomi o, per adottare un linguaggio di tipo sociologico, sensi comuni. In questo capitolo noi ci proponiamo proprio lo scopo di istillare qualche dubbio nei nostri lettori a proposito di tali “verità assolute”: ci permettiamo, cioè, di mettere in discussione il senso comune imperante nell’opinione pubblica che vede l’immigrato come elemento tendenzialmente propenso a delinquere più della popolazione locale. Infatti, vedremo che queste convinzioni, dipinte come certezze acquisite nella nostra

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attuale società, sono in realtà da parecchio tempo oggetto di aspre e vivaci discussioni all’interno del dibattito criminologico che si è sviluppato dapprima nel continente americano (meta di considerevoli flussi di manodopera immigrata già dalla fine del XIX secolo) e poi in territorio europeo a partire dal secondo dopoguerra. Inoltre tali opinioni di senso comune poggiano, in realtà, su basi assai meno solide e dimostrate di quanto non si possa pensare in un primo momento, di fronte alla quasi totale unanimità di consensi che si può rinvenire sui principali mezzi di informazione. Infine – cosa ancor più importante per un manuale destinato ad operatori e formatori della Polizia di Stato – riteniamo che acquisire un maggiore spirito critico nei confronti di queste “facili certezze” sulla criminalità degli immigrati può giocare un ruolo di fondamentale importanza per evitare che tali convinzioni, associate a talune pratiche routinarie nella concreta gestione dell’ordine pubblico ed incentivate dalle sempre più pressanti richieste di sicurezza a cui gli operatori di polizia sono sottoposti, possano involontariamente condurre ad una complessiva criminalizzazione degli immigrati da parte delle forze dell’ordine stesse.

2 - Il dibattito criminologico in Italia In Italia il tema della devianza degli stranieri e del loro contributo alla criminalità nazionale è emerso in tutta la sua rilevanza solo a partire dai primi anni Novanta. Da quando, cioè, l’Italia ha scoperto di essere non più terra di emigranti in cerca di fortuna all’estero o nelle regioni settentrionali, ma meta di individui in cerca di lavoro e di ospitalità; da quando, quindi, l’immigrazione è diventata, anche in Italia, un fenomeno strutturale e non transitorio. In realtà la questione della criminalità degli immigrati è un problema annoso, vecchio almeno quanto l’immigrazione stessa. Come constatava Georg Simmel, nel suo famoso saggio Excursus sullo straniero (1908), “lo straniero è l’ospite che forse resterà”: una persona diversa da noi, che però può desiderare di inserirsi stabilmente nella nostra società e diventare come noi, avanzando (in maniera più o meno esplicita) pretese di riconoscimento, di uguaglianza, di giustizia. Per queste ragioni, è facile capire come l’ostilità dei gruppi autoctoni nei confronti degli stranieri e la preoc-

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cupazione che la loro presenza costituisca una minaccia per gli equilibri e gli stili di vita consolidati siano sentimenti storicamente presenti all’interno di svariate formazioni sociali di ogni epoca e latitudine, al di là del fatto che tali sentimenti siano effettivamente fondati o meno, e possano essere amplificati da altri fattori presenti nelle diverse società. Quindi, risulta altrettanto comprensibile che fin dagli albori delle scienze sociali – e di quelle criminologiche in particolare – l’attenzione degli studiosi dei Paesi maggiormente interessati dal fenomeno si sia soffermata sul comportamento degli stranieri all’interno delle rispettive società di approdo, ed abbia tentato di trovare risposte certe e scientificamente dimostrabili a due fondamentali interrogativi: se, come paventato dagli atteggiamenti xenofobi di volta in volta presenti nell’opinione pubblica, gli stranieri delinquessero effettivamente di più rispetto alla popolazione locale e, quindi, costituissero una potenziale minaccia per gli equilibri di quella società; e, in caso di risposta affermativa al primo quesito, per quali ragioni ciò avvenisse. In questo capitolo cercheremo di illustrare, in maniera sintetica ma esauriente, l’attuale dibattito criminologico sviluppatosi in Italia intorno a tale questione, grazie ad alcune fondamentali ricerche realizzate nell’ultimo decennio. Nella sezione Per chi vuole approfondire sono trattate le principali teorie classiche sul rapporto fra immigrazione e criminalità elaborate all’interno della criminologia statunitense del ventesimo secolo. Volendo passare in rassegna le principali ricerche sviluppate in Italia sulla criminalità dei migranti, possiamo cominciare ad affermare che nel nostro Paese non c’è una grande tradizione scientifica sull’argomento e per ragioni che sono ben note a tutti coloro che si sono occupati di tali fenomeni: in primo luogo perché l’Italia, fino all’ultima parte degli anni Ottanta, era considerata terra di emigrazione verso l’estero e non di immigrazione dall’estero. Quindi le prime ricerche di una certa rilevanza sull’immigrazione straniera in Italia e sui fenomeni ad essa collegati iniziano con l’inizio degli anni Novanta, quando il tema dell’immigrazione raggiunge sempre più spesso importanti spazi sui mezzi d’informazione ed entra a pieno titolo nelle agende del mondo politico e di quello scientifico. A dire il vero, in precedenza il nostro Paese aveva già conosciuto un importante fenomeno migratorio: non si trattava, però, di migranti stranieri, ma della migrazione interna dalle regioni centro-meridionali verso le

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zone del cosiddetto “triangolo industriale”, che ebbe il suo momento culminante fra gli anni Cinquanta e Sessanta ma continuò a più riprese anche nei successivi decenni. Anche in quel caso furono intraprese svariate ricerche, soprattutto nel corso degli anni Settanta, sul rapporto fra immigrazione e criminalità nelle regioni settentrionali del Paese. Ricerche che arrivarono, in maniera pressoché concorde, a tali conclusioni: che esisteva, effettivamente, un contributo rilevante degli immigrati meridionali alla criminalità di quelle regioni; che emergeva, inoltre, una chiara sovrarappresentazione di immigrati meridionali all’interno della popolazione carceraria di quelle regioni (ossia la percentuale di immigrati meridionali in carcere era nettamente superiore a quella della popolazione immigrata presente in quelle regioni); erano, in particolare, evidenti i disagi psicologici e sociali legati alla cosiddetta “seconda generazione” (meglio definiti come i figli degli immigrati stessi), cosa che aveva portato molte ricerche a rilevare uno stretto rapporto fra immigrazione e criminalità minorile nelle regioni settentrionali; infine, che parallelamente a tali fenomeni, si erano diffusi, nell’opinione pubblica di quelle regioni, stereotipi negativi (alcuni a sfondo certamente razzista) nei confronti del “meridionale” all’interno della popolazione autoctona. Più controverse (e mai del tutto risolte) furono invece le discussioni teoriche sui motivi che spingevano gli immigrati meridionali ad offrire un contributo rilevante alla criminalità e sulle accuse, mosse all’epoca nei confronti delle agenzie di controllo (forze dell’ordine e sistema giudiziario), relative ad una loro presunta azione discriminatoria a danno della popolazione immigrata, volta ad assecondare quegli stereotipi negativi allora diffusi nelle regioni settentrionali. Ma passiamo alle più recenti ricerche sulla criminalità degli immigrati stranieri in Italia. Per quanto il numero di studi esistenti sia ancora abbastanza limitato, già questo nucleo ridotto di indagini apre un ventaglio di approcci abbastanza ampio sull’argomento. Tuttavia occorre mettere in chiaro che, pur nella differenza di opinioni, esiste allo stato attuale un aspetto relativamente condiviso da tutte queste ricerche, una sorta di “patrimonio comune” a cui esse fanno riferimento. Esso consiste nella consapevolezza che il contributo quantitativo nei tassi percentuali di criminalità e di delittuosità registri in questi anni un’evidente sovrarappresentazione degli individui stranieri rispetto al campione degli italiani. E ciò risulta evidente anche quando si cerca di comparare – pur con tutte le difficoltà di ordine metodologico che ciò comporta – campioni correttamente con-

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frontabili, utilizzando cioè campioni di cittadini italiani che siano in qualche modo paragonabili a quelli degli immigrati, secondo, per esempio, le tradizionali variabili statistiche, del genere e dell’età. Ovviamente si conviene anche sul fatto che questa sovrarappresentazione nella statistica della delittuosità e della penalità degli stranieri non riguarda indiscriminatamente tutti i fenomeni criminali ma prevalentemente alcuni fenomeni criminali. Riguarda soprattutto la cosiddetta criminalità “opportunistico-predatoria”, alcuni reati contro la persona, e il fenomeno dello spaccio di stupefacenti. Secondo gli ultimi dati statistici1, aggiornati al 2000, la quota degli stranieri sul totale dei denunciati è pari, ad esempio, al 56% per il reato di “sfruttamento della prostituzione”, al 50% per il reato di “rapina impropria” (il furto seguito dall’uso della forza o dalla minaccia per procurarsi l’impunità), al 40% per quello di furto. Ma anche nei reati in cui è meno cospicuo l’apporto deviante dei soggetti stranieri, come ad esempio nel caso degli omicidi consumati (18% sul totale dei denunciati) o delle estorsioni (16%), è tuttavia evidente una chiara sovrarappresentazione di immigrati rispetto ai cittadini italiani, se si pensa che, secondo gli ultimissimi dati resi noti dalla Caritas, gli stranieri presenti regolarmente nel nostro Paese arriverebbero al 4,2% sul totale della popolazione e non arriverebbero comunque al 5% anche facendo una grossolana stima per eccesso degli immigrati irregolari. Tali cifre non si discostano di tanto anche se, anziché le percentuali degli stranieri denunciati, si vogliono prendere in considerazione le cifre relative agli stranieri condannati o a quelli incarcerati sui rispettivi totali. Anzi, a proposito di quest’ultimo aspetto, alcuni autori hanno parlato di una progressiva “sostituzione” dei cittadini meridionali (che dal secondo dopoguerra sono stati per lungo tempo uno dei “noccioli duri” della popolazione carceraria in Italia) con gli immigrati, se si pensa che nell’arco di un decennio la loro presenza all’interno degli istituti di pena è passata dal 16% sul totale della popolazione carceraria nel 1991 al 28% nel 2000. Un ulteriore punto di tale dibattito su cui generalmente si conviene è che la sovrarappresentazione degli stranieri nella statistica della delittuosità, della criminalità e della penalità non si distribuisce indifferentemente tra le diverse etnie: variano le caratteristiche in modo particolare tra un’etnia e l’altra, e talora vi sono differenze marcate anche a seconda delle aree geografiche di provenienza all’interno della stessa comunità. Ad esempio, mentre per alcuni reati (come la rapina) esiste una sostanziale dispersione

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nella distribuzione per gruppo nazionale dei denunciati, figurano invece reati con un forte grado di concentrazione: nel 2000 il 70% dei denunciati per reati connessi allo spaccio di stupefacenti proveniva dai Paesi dell’area maghrebina, addirittura l’80% dei denunciati per contrabbando era di nazionalità marocchina, mentre il 54% dei denunciati per lo sfruttamento della prostituzione era di provenienza albanese. Un altro aspetto generalmente condiviso riguarda le regioni italiane in cui il fenomeno della criminalità degli immigrati risulta maggiormente problematico: i tassi di delittuosità degli stranieri sono decisamente più alti nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali. In particolare, relativamente ai dati del 2000, solo riguardo ai reati di “tentato omicidio” e di “violenza carnale” la quota degli stranieri sul totale dei denunciati era la medesima al nord e al sud; per tutti gli altri reati questa quota era più alta nelle regioni settentrionali, con fortissime differenze relativamente ai reati di furto, contrabbando, spaccio di droga e sfruttamento della prostituzione. Un ultimo aspetto condiviso dalla quasi totalità delle ricerche effettuate sul rapporto fra criminalità ed immigrazione è, infine, relativo al diverso contributo alle statistiche criminali, da parte dei soggetti stranieri, in ragione del momento migratorio; soprattutto appare evidente una forte differenziazione fra l’apporto alle attività devianti da parte degli immigrati regolari e quello degli irregolari. Il ruolo dei secondi è complessivamente molto maggiore rispetto a quello dei primi: nel 2000, sul totale degli individui di provenienza extracomunitaria denunciati per i vari delitti, quelli privi di regolare permesso di soggiorno vanno dal 65 al 92% a seconda del tipo di reato preso in considerazione. Così si può concludere che se gli immigrati regolari appaiono oggi, in base alle statistiche ufficiali, commettere più spesso reati rispetto alla popolazione autoctona, gli immigrati irregolari superano di molte volte, per tassi di criminalità, sia i primi che i secondi. Ovviamente questi dati dicono tanto e dicono poco: sono dati puramente descrittivi di un fenomeno, così come vengono registrati dalle statistiche ufficiali del nostro Paese, dati che, come vedremo nel prossimo paragrafo, si prestano già di per sé ad una serie di obiezioni, alcune di carattere sistematico ed altre di carattere metodologico (cfr. § 2.3). Dove ci si comincia a dividere – ed a dividere fortemente – è quando si passa da un’analisi puramente descrittiva a tentativi interpretativi o esplicativi del fenomeno. Volendo tracciare un quadro brutalmente sintetico delle diverse posi-

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zioni teoriche al riguardo, si può dire che sono sostanzialmente due oggi in Italia – ed in tutti i principali Paesi europei – gli approcci esplicativi. C’è un primo approccio, al cui interno sono poi molte le posizioni diversificate, che ammette che effettivamente gli immigrati oggi delinquono di più rispetto alla popolazione autoctona. Non si tratterebbe soltanto di un fenomeno apparente rispetto alla cifra oscura dei reati commessi, ma di un fenomeno reale, di un’effettiva maggiore propensione a delinquere da parte degli stranieri. Una posizione in deciso contrasto con la tradizione classica degli studi sul rapporto tra criminalità e immigrazione che, a partire dalle pionieristiche ricerche degli anni ‘20 e degli anni ’30, aveva sempre sostenuto la tesi contraria: che, cioè, la prima generazione di immigrati avesse in realtà una propensione a delinquere più bassa di quella della popolazione residente, mentre esistevano concreti rischi rispetto alla seconda generazione di immigrati, specie se non ancora del tutto integrata all’interno della società di arrivo. All’interno di questo primo tipo di approccio abbiamo poi una varietà di posizioni diversificate attenenti all’aspetto eziologico di tali ipotesi, alle cause, cioè, che determinerebbero (o concorrerebbero a determinare) questa maggiore propensione a delinquere da parte degli immigrati. La posizione più autorevole e seguita all’interno di questo filone interpretativo è quella che fa riferimento alla teoria classica della deprivazione relativa. Questa tesi sostiene che la motivazione che spinge di più a delinquere non sarebbe data tanto dalla situazione di emarginazione degli immigrati, ma dalla loro povertà “relativa” rispetto al contesto locale in cui vivono. In particolare, secondo Marzio Barbagli ed altri studiosi a lui vicini, tale teoria spiegherebbe particolarmente bene per quali ragioni gli immigrati delinquono di più nelle regioni settentrionali (caratterizzate da minori difficoltà d’inserimento sociale e lavorativo e da un più alto livello di benessere socio-economico rispetto a quelle meridionali) che nel sud. Inoltre questa tesi farebbe luce sui motivi per i quali anche gli immigrati della prima generazione, al giorno d’oggi, sarebbero spinti a delinquere in misura superiore ai cittadini autoctoni: nella società del consumo di massa pubblicizzato da mezzi di comunicazione sempre più globali, la meta sociale da raggiungere sarebbe rappresentata dal successo economico facile ed immediatamente spendibile all’interno delle società di arrivo; ciò porterebbe fatalmente un certo numero di immigrati a scegliere il percorso criminale nel momento in cui essi si rendono conto dell’impossibilità di rag-

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giungere in tempi brevi tale obbiettivo. Vi sono, invece, autori che giustificano questa tendenza degli immigrati a commettere più reati rispetto ai cittadini autoctoni riprendendo le tesi dell’interazionismo simbolico. Questi autori hanno rilevato, nel corso di una serie di ricerche, come nel nostro Paese sia in atto una diffusione di definizioni simboliche assolutamente ostili nei confronti dell’immigrato (ed in particolar modo dell’immigrato clandestino). Ciò avverrebbe da un lato a livello comunicativo, con la proliferazione, all’interno dei mass-media e dell’opinione pubblica, di luoghi comuni e di stereotipi che tendono ad individuare nell’immigrato extracomunitario un soggetto potenzialmente pericoloso per gli equilibri della nostra società; dall’altro lato queste definizioni ostili sarebbero confermate anche a livello normativo, con l’adozione di politiche sempre più restrittive nei confronti del fenomeno migratorio, tali da amplificare l’esclusione sociale di questi soggetti. Quindi, una parte degli immigrati, definiti come “ontologicamente pericolosi o devianti” e posti ai margini della nostra società, tenderebbe sempre più ad identificarsi con le immagini negative che li riguardano e ad amplificare il proprio comportamento deviante, seguendo il meccanismo dell’“etichettamento” di cui parleremo nella sezione d’approfondimento in chiusura di capitolo. Una sorta di mediazione fra queste due diverse teorie (della deprivazione relativa e dell’interazionismo simbolico) viene invece proposta da Asher Colombo, autore di un’interessante ricerca di tipo etnografico condotta all’interno di alcuni gruppi di immigrati algerini che vivevano in condizioni di marginalità ed illegalità nella città di Milano. Colombo rileva da un lato che le scelte iniziali che spingevano la maggior parte dei ragazzi immigrati a dedicarsi ad attività devianti non erano dovute ad una situazione di assoluta miseria o disperazione, ma al desiderio di raggiungere, con mezzi rapidi e quindi anche illeciti, le mete sociali (successo economico e prestigio sociale) di quella società consumistica occidentale che essi stessi, spinti dal richiamo dei mezzi di comunicazione di massa, avevano preso come nuovo punto di riferimento della loro esistenza. Dall’altra parte, però, mano a mano che le forme di trasgressione diventavano da occasionali a “professionali”, quei ragazzi sviluppavano una “identità deviante” di gruppo, che li portava sempre più a far coincidere i loro comportamenti individuali con le rappresentazioni ostili della società esterna. Per riuscire ad accettare più facilmente la strada che avevano scelto di percorrere,

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finivano per considerarsi a pieno titolo “nemici” di una società che li escludeva, finendo per radicalizzare il loro atteggiamento criminale. Fin qui l’approccio che possiamo definire “giustificazionista”, che cioè intende legittimare i risultati emersi dall’elaborazione delle statistiche ufficiali, cercando al contempo di motivare la tendenza della popolazione immigrata a delinquere di più rispetto a quella italiana. C’è però un secondo approccio, che potremmo definire “critico”, che contesta i risultati delle statistiche ufficiali ed afferma che gli stranieri non delinquono effettivamente di più degli italiani, ma semmai incappano nel sistema penale più facilmente rispetto agli italiani. Che la loro sovraesposizione nelle statistiche sulla delittuosità e criminalità sarebbe dovuta al criterio di selettività del sistema penale, che tenderebbe a colpire soggetti che hanno un livello più basso di legami e difese sociali, e quindi gli immigrati in primis. Che le statistiche ufficiali della criminalità non indicherebbero, pertanto, una maggiore propensione degli immigrati a delinquere rispetto ai cittadini autoctoni, ma semmai una maggiore propensione delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario italiani a “reclutare” fra le fila della popolazione immigrata i soggetti passibili di essere denunciati, condannati ed incarcerati. Fra gli studiosi che hanno fatto proprio un approccio di questo secondo tipo, possiamo annoverare Salvatore Palidda che ha evidenziato come nelle società post-moderne le forze dell’ordine, per fronteggiare la criminalità degli immigrati, adottino un atteggiamento non puramente “reattivo”, cioè di risposta alle richieste di sicurezza ed alle denunce provenienti dalla società civile, ma sempre più spesso “proattivo” che anticipa ed al tempo stesso cerca di conformarsi a tali richieste. Tutto ciò porterebbe le forze dell’ordine ad assecondare gli interessi dei cittadini autoctoni insicuri, incrementando così gli interventi di natura repressiva che hanno come bersaglio gli immigrati ed altre fasce marginali della popolazione considerate portatrici di degrado ed insicurezza e pericolose per l’ordine sociale. Un altro autore appartenente a questo filone di studi è Massimo Pastore che, in seguito a scrupolose analisi delle statistiche penali del nostro Paese, ritiene che il sistema giudiziario italiano presenti svantaggi oggettivi per gli immigrati e contribuisca quindi alla loro sovrarappresentazione all’interno delle statistiche criminali e degli istituti di pena. In particolar modo, Pastore fa rilevare come, a parità di reato commesso, la custodia cautelare in carcere viene imposta più spesso agli immigrati che ai

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cittadini italiani; inoltre, a parità di pena inflitta, gli stranieri godono in misura minore delle misure alternative al carcere e delle pene sostitutive rispetto agli autoctoni; infine, sarebbero presenti svantaggi oggettivi anche nella gestione dei riti processuali abbreviati, nonché nell’istituto del patrocinio gratuito (o “d’ufficio”) per gli imputati stranieri. Infine una delle posizioni più radicali, fra quelle attualmente esistenti nel panorama italiano, è quella del sociologo Alessandro Dal Lago. Egli sostiene che gli immigrati, lungi dall’essere colpevoli di una propensione a delinquere maggiore rispetto a quella dei cittadini italiani, sono in realtà vittime di un complesso processo di costruzione sociale che tende, attraverso l’operato congiunto dei mezzi di controllo sociale formale (sistema politico, forze dell’ordine, sistema giudiziario) ed informale (mass-media, opinione pubblica, rappresentanti del mondo intellettuale) ad individuare nell’immigrato il “nemico pubblico numero uno” dell’attuale società italiana. I pregiudizi ed i luoghi comuni esistenti in larghi settori della società italiana e la diffusa percezione d’insicurezza ad essi collegata avrebbero innescato un perverso meccanismo circolare attraverso il quale vengono legittimati gli interventi di carattere repressivo e normativo nei confronti dei migranti (in particolare di quelli irregolari, considerati alla stregua di “non-persone”) e la loro progressiva esclusione dalla nostra società. Secondo questa teoria, quindi, la criminalità stessa degli immigrati sarebbe diventata l’esito finale di tale processo di costruzione sociale, perché funzionale a tale logica di esclusione. Per concludere questa rassegna di studi criminologici condotti in Italia sul rapporto fra criminalità ed immigrazione, possiamo segnalare un paio di studi che si sono posti, per così dire, in una posizione intermedia fra gli approcci presentati in precedenza: le ricerche effettuate da Dario Melossi si sono soffermate, ad esempio, sul ruolo che la devianza degli stranieri ricoprirebbe all’interno della nostra società. Riprendendo le tesi del sociologo nordamericano Kai Erikson (secondo il quale la discussione pubblica di casi famosi ed esemplari di devianza è un modo attraverso il quale una società ridefinisce collettivamente i confini della propria morale e di ciò che è lecito ed illecito), secondo Melossi la questione della criminalità degli immigrati ha assunto una sorta di “funzione specchio” delle disfunzioni e dei comportamenti illeciti già esistenti nel nostro Paese. Attraverso l’ostilità nei confronti degli immigrati e la loro demonizzazione, la popolazione italiana avrebbe in qualche modo rimosso o allontanato i sospetti

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relativi alla nostra società ed ai codici morali esistenti al suo interno, addossando tali colpe su un bersaglio comodo ed agevolmente sacrificabile. La tesi, invece, di Vincenzo Ruggiero sulle cosiddette “economie sporche” equipara il ruolo degli immigrati all’interno dei settori criminali e delle economie illegali con quello ricoperto da tali soggetti all’interno dei mercati ufficiali del lavoro. Partendo da un’attenta analisi dei mercati attinenti allo spaccio di sostanze stupefacenti nelle città di Torino e Londra, Ruggiero sostiene che le economie sporche o illegali avrebbero dei criteri di reclutamento della forza lavoro simili a quelli dell’economia legale. Così come all’interno dell’economia legale, nei lavori indesiderati o pericolosi, i cittadini italiani tendono ad essere progressivamente rimpiazzati dagli immigrati, così anche nel mondo illegale le “figure professionali” più basse sarebbero coperte dai soggetti stranieri, cosa che varrebbe in particolare per lo spaccio di droga, per i furti d’appartamento e i furti d’auto. Questa tesi sostiene, pertanto, che non ci sarebbe una produzione aggiuntiva di criminalità da parte degli immigrati, ma semmai una progressiva sostituzione dei soggetti, all’interno di un mercato che risente, così come quelli legali, delle leggi della domanda e dell’offerta.

2.1 – La vittimizzazione degli immigrati Finora, parlando del rapporto fra criminalità ed immigrazione e delle statistiche ufficiali al riguardo, abbiamo sempre guardato alla nazionalità dell’autore del reato. Resta ora da analizzare l’altra faccia della medaglia, ossia la nazionalità di chi subisce quegli eventi criminosi, cioè le vittime. Nelle analisi e nelle cronache giornalistiche che parlano di criminalità, spesso i mass-media e gli esponenti del mondo politico tendono a mettere in risalto soprattutto i delitti commessi da stranieri a danno di cittadini italiani, interpretando tale fenomeno come minaccia per i beni e per l’integrità personale degli autoctoni. In questo modo essi danno per scontato almeno un paio di circostanze: la prima è che i cittadini italiani siano colpiti più frequentemente degli immigrati dai fenomeni delittuosi, ed in particolare da quelli commessi da questi ultimi; la seconda è che in Italia i reati vengano commessi prevalentemente con autore e vittima appartenenti a diversi gruppi nazionali (atti intergroup), anziché avvenire all’interno dello

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stesso gruppo (atti ingroup). Si tratta di due generalizzazioni ricorrenti, che partono dal medesimo presupposto: quello che tende ad interpretare motivazioni e relazioni fra autoctoni ed immigrati sulla base di un modello di conflitto. Così gli stranieri provenienti da Paesi in via di sviluppo sono, in linea di massima, descritti come persone povere che cercherebbero di procurarsi i mezzi di sussistenza sottraendoli illecitamente ai cittadini italiani ricchi; oppure sono rappresentati come persone insofferenti per una condizione di subalternità all’interno della nostra società, che cercherebbero di sfogare questi risentimenti aggredendo elementi della popolazione autoctona (specie nei reati di natura violenta). Le reazioni ostili o violente della popolazione italiana alla minaccia costituita dagli immigrati sarebbero, a loro volta, inquadrabili all’interno dello stesso schema conflittuale. Eppure, le ultime ricerche criminologiche condotte in Italia (le stesse a cui abbiamo fatto riferimento in materia di dati statistici aggiornati sulla criminalità commessa da immigrati2) indicano chiaramente che questo modello conflittuale riesce a spiegare, in realtà, solo una minima parte dei reati commessi; inoltre queste ricerche dimostrano che quelle due generalizzazioni che abbiamo citato in precedenza si rivelano assolutamente infondate alla prova dei fatti. È vero che il rischio di rimanere vittima di un reato nel nostro Paese varia fortemente in ragione della diversa nazionalità ma non è assolutamente vero che i cittadini italiani sono più frequentemente vittima di reato rispetto a quelli stranieri. Se si tiene conto (come, in una corretta analisi di tipo statistico, occorre fare) delle diverse dimensioni dei gruppi analizzati, si scopre in realtà che tale affermazione è vera solo per i reati di “furto di auto”, “furto in appartamento” e “furto in negozio” (svantaggi giustificati soprattutto dal più elevato valore dei beni posseduti dai cittadini italiani rispetto a quelli di origine straniera). Mentre per le altre categorie di reato considerate (omicidi, rapine, scippi, borseggi, lesioni dolose e violenze carnali) sono invece gli immigrati a risultare vittime di tali reati più facilmente dei cittadini italiani: oltre cinque volte di più per rapine e borseggi; oltre tre volte di più per omicidi, lesioni e violenze sessuali. È poi assolutamente falso l’assunto secondo cui i reati avvengono in maggior parte con autore e vittima appartenenti a diversi gruppi nazionali (atti intergroup). Dai dati statistici di questa ricerca emerge, semmai, che è vero l’opposto, e cioè che i reati sono commessi soprattutto all’interno

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del medesimo gruppo nazionale (ingroup) e che ciò avviene soprattutto quando l’autore di reato appartiene ad un gruppo di origine etnica minoritaria. Tale tendenza è particolarmente accentuata nei delitti di natura violenta: l’omicidio è il reato nel quale gli stranieri colpiscono più spesso un connazionale, ed è seguito dalle lesioni e dalla violenza carnale. Infine le statistiche ufficiali rivelano un terzo dato che va controcorrente rispetto alle opinioni diffuse, e cioè che – in proporzione alla diversa consistenza numerica dei gruppi considerati – quando l’autore del reato appartiene ad un gruppo nazionale diverso rispetto alla sua vittima, sono più numerosi i casi in cui l’autore è italiano e la vittima è straniera rispetto a quelli in cui chi delinque è straniero e chi subisce il reato è di nazionalità italiana. E tutto ciò pur in assenza di specifiche pratiche poliziesche di catalogazione e di indagine sui cosiddetti hate crimes (o “reati d’odio”), che permetterebbero una raccolta di dati maggiormente significativa sull’incidenza dei reati e degli altri casi a sfondo “razziale” a danno della popolazione immigrata (cfr., a questo proposito, il capitolo 5).

3 - Alcune perplessità sull’uso delle statistiche ufficiali Abbiamo segnalato in precedenza l’uso spesso disinvolto che i rappresentanti del mondo politico ed informativo fanno delle statistiche ufficiali sulla criminalità degli immigrati, spesso citate come autorevole ed indiscutibile conferma delle tesi dominanti nell’opinione pubblica sulla “pericolosità sociale” degli immigrati e sulla loro propensione a delinquere in misura maggiore rispetto alla popolazione autoctona. Abbiamo anche visto che, in realtà, nel dibattito criminologico attualmente esistente in Italia, sono stati sollevati dubbi sulla veridicità ed attendibilità di tali statistiche (che noi stessi abbiamo sommariamente illustrato in precedenza). Vediamo ora, in particolare, quali sono le principali obiezioni che vengono sollevate in merito all’attendibilità ed all’utilità di questi dati. Diciamo subito che, a nostro giudizio, le statistiche ufficiali sulla criminalità (e, quindi, anche quelle inerenti alla criminalità degli immigrati) non

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possono essere considerate perfettamente illustrative della situazione realmente esistente nel nostro Paese. In primo luogo, infatti, queste cifre rappresentano solamente i delitti di cui le forze dell’ordine vengono a conoscenza nell’espletamento delle loro funzioni e non di tutti i reati che effettivamente sono stati realizzati in un determinato lasso di tempo: esiste, perciò, il problema della cifra oscura della criminalità, costituita dal numero degli eventi delittuosi che si sono realmente verificati ma che non sono stati denunciati o scoperti e sono così rimasti esclusi dal computo delle statistiche criminali. L’esistenza di questa cifra oscura, difficilmente quantificabile per molti dei reati considerati, ci impedisce di considerare pienamente attendibili questi dati ufficiali sulla criminalità registrata, in assenza di approfondite ricerche volte a far emergere il livello di criminalità nascosta (ad esempio attraverso inchieste di vittimizzazione puntuali e sistematicamente organizzate). Una seconda difficoltà in merito alle statistiche ufficiali sulla criminalità è attinente alla validità scientifica di queste cifre: ossia, il grado di costanza e di coerenza con cui le procedure di rilevazione sono state applicate, rispetto ai criteri prestabiliti, da parte delle agenzie preposte alla produzione dei dati (forze dell’ordine ed Autorità Giudiziaria) e di quelle deputate alla loro raccolta (ISTAT). Non sempre, infatti, queste fonti si sono rivelate attendibili in passato, proprio a causa di errori commessi nella classificazione e/o raccolta dei dati3. Questi problemi, peraltro, sono ora in via di risoluzione, grazie al nuovo sistema informatizzato di registrazione delle denunce, imposto dal Ministero dell’Interno dal 1999; questo nuovo metodo di raccolta dei dati, se inizialmente può aver provocato qualche ulteriore scompenso, ha l’indubbio merito di aver reso finalmente omogenei i criteri di rilevazione statistica adottati dalle diverse forze dell’ordine in tutte le città italiane. Vi è, poi, un ultimo ordine di considerazioni da fare, ancora più importante rispetto ai due precedenti, ed è quello relativo all’interpretazione di questi dati ufficiali sulla criminalità: dal momento che essi non misurano direttamente la realtà effettiva, ma quella identificata, segnalata e denunciata del fenomeno, c’è il rischio tangibile che queste cifre siano molto più indicative dell’attività concretamente messa in pratica dalle forze dell’ordine che non del livello di devianza realmente esistente sul territorio. Che, in altre parole, questi dati – anche quando siano corretti ed attendibili – siano comunque condizionati dalle scelte operative attuate

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dalle polizie, dalla scala di priorità adottata nei loro interventi, dalle modalità concrete con cui pongono in essere la loro attività investigativa e di controllo del territorio e, quindi, anche dai luoghi comuni e dalle convinzioni personali dei singoli operatori di polizia, nonché dalle pressioni che essi ricevono ad opera dei mass-media e della locale cittadinanza. Un esempio abbastanza interessante di queste pratiche di polizia che possono produrre oggettive discriminazioni a danno degli stranieri nella produzione delle statistiche ufficiali può essere fornito dalle risultanze di una serie di interviste effettuate alla fine degli anni Novanta nella regione Emilia-Romagna, aventi ad oggetto la sicurezza dei cittadini ed i controlli subiti da parte delle forze dell’ordine4. In particolare venne sottoposta a due differenti campioni rappresentativi, rispettivamente, della popolazione autoctona e di quella immigrata residenti nella regione emiliano-romagnola, la medesima domanda: “Nel corso degli ultimi dodici mesi le è capitato di essere fermato per la strada mentre era in automobile o a piedi, anche per un semplice controllo dei documenti, dalla Polizia Stradale, Carabinieri o Guardia di Finanza?”. La risposta a quella domanda metteva in evidenza forti differenze a seconda della provenienza nazionale dell’interpellato. Infatti, se ad una prima sommaria analisi poteva quasi sembrare che vi fossero disparità di trattamento a danno della popolazione autoctona (il 38,5% del campione “italiano” affermava di essere stato fermato nel corso dell’ultimo anno, contro il 31% del corrispondente campione di immigrati), la situazione cambiava radicalmente prendendo in considerazione la discriminante “fermi in auto / fermi a piedi”. In questo caso risultava che, mentre il 37,4% del campione di residenti autoctoni (pari al 97,3% dei cittadini di nazionalità italiana che avevano ammesso di essere stati fermati) era stato controllato dalle forze dell’ordine mentre si trovava all’interno della propria automobile e solo l’1,1% del campione mentre era a piedi, nel caso degli stranieri residenti in Emilia-Romagna il 22% del campione era stato fermato mentre era in macchina ed il 9% mentre era a piedi. Il che significa che gli stranieri erano fermati quasi nove volte di più degli italiani attraverso il “fermo a piedi”, che ben più del “fermo in auto” (che è dovuto perlopiù a ragioni di traffico automobilistico e raramente si basa sui tratti fisionomici del guidatore) esprime un’intenzione di controllare una persona sulla base del suo aspetto esteriore e per motivi collegati ad una potenziale criminalizzazione del soggetto. E questa sproporzione era

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ancora superiore prendendo in considerazione l’ulteriore discriminante del sesso: il 14% dei maschi di origine immigrata erano fermati a piedi, contro l’1,4% dei maschi di origine italiana, con un rapporto di dieci ad uno. Si noti, infine, che il campione di immigrati intervistati era composto esclusivamente da immigrati residenti e quindi regolarizzatisi ormai da tempo nel nostro Paese; è del tutto ipotizzabile che il dato sul “fermo a piedi” di tutti gli stranieri (comprendendo al loro interno quelli irregolari, da poco arrivati in Italia) comporterebbe una sproporzione ancora superiore, a scapito dei soggetti stranieri. Mettendo in luce questi dati non si vuole certo accusare le forze dell’ordine italiane di adottare intenzionalmente pratiche di comportamento discriminatorie e criminalizzanti nei confronti degli immigrati: è indiscutibile, infatti, che le sproporzioni esistenti fra italiani e stranieri per quanto riguarda, ad esempio, i “fermi a piedi” siano in buona parte dovute alle normative vigenti in materia d’immigrazione (la “Turco-Napolitano” all’epoca delle interviste emiliano-romagnole; la “Bossi-Fini” attualmente), che assegnano alle forze dell’ordine il compito di controllare il rispetto degli obblighi e delle formalità previste dalla legge da parte degli immigrati presenti sul territorio italiano. Peraltro, è altrettanto indubbio che tali ricorrenti pratiche di “fermo selettivo” adottate nei confronti degli stranieri facilitano la diffusione di stereotipi e tipizzazioni negative anti-immigrati all’interno dei corpi stessi di polizia (inevitabilmente portati a considerare “sospetti” e quindi “da fermare e controllare” i soggetti che maggiormente presentino tratti somatici distintivi della loro diversità e della loro potenziale “irregolarità”), alimentano un effetto indiretto di “selezione criminale” negativa nei loro confronti (con ciò che può conseguire a livello di statistiche ufficiali della criminalità) e provocano una risentita reazione degli immigrati stessi, che diventano sempre più propensi a considerare l’agente di polizia come un mero “controllore-persecutore”, chiamato a svolgere le sue funzioni esclusivamente contro gli stranieri e non (anche) al loro servizio. Il fatto che i controlli di tipo discrezionale operati dalle forze dell’ordine vengano esercitati in maniera selettiva a seconda della diversa nazionalità degli interessati o del colore della loro pelle e si risolvano in evidenti svantaggi per gli appartenenti ai gruppi etnici minoritari riceve, inoltre, autorevoli conferme da una fitta serie di ricerche svolte in questi ultimi anni in altri Paesi europei sull’operato delle locali forze di polizia5; nono-

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stante le evidenti differenze di procedure e normative che si incontrano da Paese a Paese, tali ricerche convergono in maniera pressocché uniforme su questo aspetto, tanto che alcuni autori parlano, a questo proposito, di razzismo istituzionale delle forze dell’ordine, provocato, cioè, non tanto dalle convinzioni personali dei singoli agenti, ma dal concreto funzionamento dell’apparato repressivo e dalle pratiche poliziesche in uso.

4 - Per una polizia al servizio – anche – del cittadino immigrato Occorre, quindi, che le forze di polizia maturino un’evoluzione dei propri atteggiamenti nei confronti dei soggetti di origine etnica minoritaria, evitando – ove possibile – il ricorso sistematico a pratiche invasive di controllo e/o perquisizione che indirettamente comportano una disumanizzazione dei rapporti con i soggetti di origine etnica minoritaria ed amplificano, all’interno della popolazione immigrata, la diffusione di un generale sentimento di diffidenza e di ostilità nei confronti delle forze dell’ordine. Occorrerebbe, al contrario, sforzarsi di mantenere la “dimensione umana” al centro delle interazioni fra agenti ed immigrati e di concepire lo svolgimento della propria funzione in un’ottica di “servizio”. Un servizio rivolto non solo ai tradizionali referenti dell’attività del poliziotto (i cittadini italiani) ma anche ai nuovi arrivati, nel quadro di una società sempre più diversificata e multiculturale. Proprio per rispondere ai cambiamenti della nostra società, anche il servizio offerto dalle forze di polizia dovrà necessariamente mutare, avvicinandosi maggiormente alle esigenze concrete della cittadinanza. In quest’ottica appare centrale il tentativo, avviato in questi ultimi anni dalla Polizia di Stato, di intraprendere un dialogo costante e costruttivo con i principali rappresentanti delle istanze della popolazione civile. Uno sforzo che può essere sufficientemente riassunto all’interno del concetto di polizia di prossimità, una nuova filosofia d’azione nel lavoro di poliziotto che, pur continuando a porre in primo piano i tradizionali settori della sicurezza pubblica e del rispetto della legge, muta i consueti moduli operativi ed amplia gli obiettivi di fondo del proprio agire.

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Con l’avvento della polizia di prossimità6, la posta in gioco non è più limitata alla repressione dei fenomeni criminosi in una determinata zona ed al controllo dell’ordine pubblico ma, più in generale, diventa la salvaguardia della pace sociale (o il ripristino di apprezzabili condizioni di pacificazione sociale, laddove tali presupposti fossero venuti meno). Un traguardo che, pur passando necessariamente attraverso l’affermazione di una situazione di legalità diffusa, richiede altresì di affrontare tutta una serie di circostanze non direttamente riconducibili alla sfera penale (conflitti di vicinato, atti di “inciviltà”, infrazioni scolastiche, problemi di degrado, ecc.) ma che rientrano all’interno della categoria dei “comportamenti antisociali” e sono suscettibili di minare alle fondamenta la situazione di pace sociale esistente in un determinato territorio. Tali comportamenti, pur non essendo sanzionati dalle leggi penali, possono, infatti, rivelare un disprezzo per le regole di condotta generalmente condivise o per le autorità vigenti nelle diverse istituzioni della società civile, se non una mancanza totale di rispetto nei confronti degli altri: se ignorati, essi possono dar vita a disagio sociale, creare insicurezza, provocare atti delittuosi in senso stretto e mettere a repentaglio gli equilibri e la pace sociale della zona. Si accentua quindi l’agire preventivo della polizia in un’ottica quasieducativa che parte da una conoscenza approfondita delle specificità esistenti sul territorio e punta ad anticipare i problemi sociali cercando di allontanare o di far scemare le tensioni direttamente dall’interno. È chiaro, però, che questo obiettivo richiede al poliziotto un lavoro svolto più in profondità, costantemente a contatto ed in relazione con il territorio e con le diverse componenti sociali che lo animano. La polizia deve, così, diventare una delle componenti stabili che sono presenti ed interagiscono sul territorio, conquistandosi il riconoscimento e l’appoggio delle altre: solo attraverso questo appoggio fiduciario e queste relazioni durature essa può costruire un sistema di intelligence collettiva che porta ad una più agevole comprensione delle dinamiche sociali esistenti ed alla tempestiva conoscenza di ogni episodio suscettibile di minacciare la pace sociale. Nel quadro di questo sforzo di avvicinamento alle altre componenti presenti sul territorio, le relazioni della polizia con i gruppi di origine etnica minoritaria andranno a rivestire un’importanza sempre più decisiva per il successo dell’azione delle forze dell’ordine, proporzionalmente alla crescita della consistenza numerica e della visibilità sociale di tali gruppi. Ciascun gruppo di immigrati stanziati stabilmente in una determinata zona

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costituisce una delle componenti sociali che interagiscono fra di loro in quel territorio e che possono dar vita a tensioni o conflitti fra i diversi gruppi. Riuscire a relazionarsi nella misura più corretta e soddisfacente con questi gruppi può, quindi, facilitare il compito delle forze di polizia a più livelli: accresce il livello di fiducia reciproca, legittima e stabilizza i rapporti di collaborazione con i rappresentanti riconosciuti di tali gruppi, aumenta il numero e la qualità di informazioni a disposizione della polizia per conoscere le dinamiche sociali e le potenziali fonti di attrito sul territorio, rende più semplici e socialmente “accettati” gli eventuali interventi di tipo repressivo necessari al mantenimento dell’ordine sociale. Una situazione, a ben vedere, radicalmente differente da quella attuale, in cui i compiti di controllo e di reperimento delle informazioni vengono espletati attraverso pratiche selettive di stop and search che semmai alimentano l’ostilità reciproca, rendono praticamente inattuabili forme di collaborazione spontanea ed arrecano ulteriore disagio ed esclusione sociale ai soggetti di origine etnica minoritaria. Sarà, pertanto, fondamentale per le forze dell’ordine italiane intendere nella maniera più corretta quel concetto di “polizia di prossimità” ripreso dalle forze dell’ordine di altri Paesi. Fare in modo, cioè, che questo avvicinamento alle esigenze ed alle istanze della cittadinanza non si rivolga esclusivamente all’ala forte di questa cittadinanza, alla categoria degli “inclusi”, ai loro valori ed alle loro richieste e che, di conseguenza, l’attività stessa della polizia non finisca per convergere sempre più con le aspettative di questi cittadini, a scapito degli appartenenti agli altri gruppi sociali (immigrati ed altri soggetti marginali). Una polizia al servizio di una parte soltanto della popolazione svelerebbe il volto più odiosamente repressivo della propria funzione, acuirebbe le tensioni e gli squilibri già esistenti nella nostra società, fallirebbe nel proprio compito di mantenere (o ristabilire) la pace sociale. Ecco spiegato, quindi, il motivo per cui noi riteniamo di primaria importanza che le forze dell’ordine cerchino di reimpostare in maniera più corretta ed equilibrata le proprie relazioni con i soggetti di origine etnica minoritaria ed i loro rappresentanti, combattendo quei pregiudizi e stereotipi diffusi che possono condizionare e compromettere fin dall’inizio tali rapporti. Su queste basi si mette in gioco l’obiettivo di una reale pacificazione sociale, grazie al contributo attivo (e dall’interno della società stessa) di una polizia moderna ed al servizio dei cittadini. Perché, se la stra-

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da di un maggiore avvicinamento fra polizie e cittadini è stata tracciata, un’altra questione è, invece, il come percorrerla e il dove tale strada ci può portare.

5 - L’azione della polizia Come indicavamo nella parte introduttiva di questo capitolo, il primo obiettivo da porsi è quello di sviluppare, all’interno degli operatori di polizia chiamati a contrastare i fenomeni di microcriminalità urbana, uno “spirito critico” nei confronti dei facili luoghi comuni che tendono ad individuare nel soggetto di origine etnica minoritaria il principale responsabile di tali fatti. Così come per gli altri stereotipi presenti nell’opinione pubblica, si tratta di convincimenti difficili da estirpare, proprio perché quotidianamente essi ricevono conferme più o meno autorevoli da diverse fonti (l’osservazione diretta degli agenti, i commenti di uomini politici, le proteste dei comitati di cittadini e di altri rappresentanti più o meno accreditati della cittadinanza) e vengono amplificati attraverso le notizie selezionate dai mass-media (cfr. cap. 3, § 4). Peraltro, come abbiamo visto, si tratta di pregiudizi che un agente di polizia non può permettersi di avere, poiché essi possono condizionare pesantemente l’operato delle forze dell’ordine (ad esempio, nella selezione degli individui sospetti da fermare e controllare nei casi in cui tali valutazioni siano rimesse alla discrezionalità degli agenti), provocare un’indiretta ed ulteriore criminalizzazione dei soggetti immigrati e rendere sempre più conflittuali i rapporti fra comunità di origine etnica minoritaria e forze di polizia. In quest’ottica, la diffusione di informazioni all’interno del servizio di polizia sui diversi orientamenti criminologici che abbiamo riportato in questo capitolo sul tema del rapporto fra criminalità ed immigrazione, può sicuramente aiutare a mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi imperanti nella nostra società. Ma ancor più importante, per voi, funzionari e responsabili di uomini, sarebbe avere una precisa consapevolezza della “cultura” specifica (inclusa la cosiddetta “cultura della mensa”, quella che si sviluppa cioè nei luoghi sociali informali) sviluppata all’interno del vostro team:

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> in che misura gli stereotipi anti-immigrati presenti nella società civile hanno attecchito anche fra gli agenti sotto la vostra responsabilità? > ed in che misura, eventualmente, tali luoghi comuni condizionano il loro operato? Avere il polso preciso della situazione, attraverso il monitoraggio e la valutazione delle performance di squadra, può indurre il funzionario responsabile a prendere le misure più opportune per assicurare l’espletamento di un servizio di polizia equo e non condizionato. Un secondo obiettivo da raggiungere dev’essere quello del progressivo avvicinamento delle forze di polizia alla cittadinanza in generale ed ai gruppi di origine etnica minoritaria in particolare, in modo da trasformare il ruolo degli agenti di pubblica sicurezza da temuti controllori che agiscono con strumenti prevalentemente repressivi ed in risposta ad input provenienti dall’alto (in maniera quasi avulsa dal contesto sociale su cui vanno ad influire) ad operatori umanizzati che utilizzano prevalentemente risorse di intelligence sviluppate grazie alla conoscenza profonda degli ambienti sociali in cui s’inseriscono e prevengono problemi di convivenza fra diversi gruppi e/o soggetti, allo scopo di mantenere (o di ristabilire) la pace sociale. A prescindere dall’istituzione di specifiche figure professionali (come i “poliziotti di quartiere”) incaricate di operare seguendo le regole e le procedure proprie della cosiddetta “polizia di prossimità”, l’obiettivo di un’umanizzazione delle forze dell’ordine e di un concreto avvicinamento ai problemi ed alle esigenze della popolazione dislocata sul territorio deve essere trasversale ai diversi corpi di polizia. Si tratta di considerare il lavoro di operatore di polizia in un’ottica “di servizio”, in cui gli interventi da effettuare e l’adozione delle specifiche misure da prendere devono necessariamente tenere conto anche dell’impatto sociale che essi provocheranno sul territorio. In determinati casi, ad esempio, a pratiche di tipo coercitivo-repressivo (che comportano elevati costi sociali per i loro destinatari e rischiano di acuire situazioni conflittuali) possono essere preferibili, laddove vi siano per l’operatore di polizia margini di discrezionalità, interventi più “morbidi”, in modo da non esasperare le tensioni esistenti e prevenire possibili scontri. In altri frangenti sarà, invece, necessario intervenire a prescindere dal fatto che siano state violate norme penali: la reazione ferma e pronta al verificarsi di semplici “atti di inciviltà” che però rischiano di mina-

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re gli equilibri instauratisi in una determinata zona può prevenire la futura commissione di veri e propri reati, con tutto il carico di conflitti sociali che essi comportano. In quest’ottica occorre però che gli operatori di polizia sviluppino un’approfondita conoscenza del territorio nel quale essi sono chiamati ad operare; una conoscenza che va acquisita direttamente dall’interno e mediante un costante ed articolato rapporto con i diversi gruppi e le altre istituzioni ivi presenti. È necessario, in altre parole, che le forze di polizia diventino una fra le varie componenti sociali che animano stabilmente l’ambiente urbano di riferimento. Per raggiungere questo scopo sarà necessario innanzi tutto che gli agenti, compatibilmente con le limitazioni di organico, frequentino con maggiore assiduità il territorio, in modo da diventare una “presenza fissa” al suo interno e da poter sviluppare quei rapporti interpersonali con i membri dei diversi gruppi, che costituiscono il fulcro dell’azione di “prossimità”. Ma, ancora più importante, occorre anche che questo sforzo di avvicinamento a tutte le diverse componenti sociali presenti sul territorio di riferimento avvenga in maniera socialmente equa. Che sia aperto, cioè, anche a quei gruppi aventi consistenza numerica o importanza socio-economica minoritaria all’interno del contesto di riferimento. Infatti, come già sottolineato in precedenza, una polizia che si ponesse al servizio di una parte soltanto della popolazione, consacrandone di fatto la posizione di preminenza all’interno del corpus sociale, non farebbe altro che aggravare le tensioni e gli squilibri già esistenti nella nostra società, fallendo nel proprio compito di mantenere (o ristabilire) la pace sociale.

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ESEMPIO

In una recente ricerca sui comitati di cittadini di Modena (Poletti, 2002) è emerso che in quella realtà locale lo sforzo di avvicinamento alla cittadinanza operato dalle forze di polizia sia coinciso con il rafforzamento in pianta stabile dei rapporti fra le forze dell’ordine ed i comitati attivi sul tema della sicurezza urbana, considerati espressioni sufficientemente rappresentative della collettività locale. Tali rapporti, oltre ad aver dato origine a forme di collaborazione innovative (per il panorama italiano) tra cittadini e polizie in vista della segnalazione di fenomeni di devianza che si verificavano all’interno dei diversi quartieri della città, aveva però di fatto influito anche sulla tipologia delle modalità di controllo del territorio concretamente praticate dalle forze dell’ordine. Si verificava infatti una sorta di corrispondenza fra lo spirito di mobilitazione battagliera che animava i membri dei comitati e l’azione di repressione dei fenomeni devianti esercitata dalla polizia. Tanto che le forze dell’ordine avevano in molti casi orientato la propria attività in funzione delle sollecitazioni e delle segnalazioni ricevute da questi comitati: attraverso frequenti operazioni di “bonifica del territorio” contro i fenomeni dello spaccio di stupefacenti e dell’immigrazione irregolare, una presenza più cospicua di pattuglie appiedate ed un ricorso massiccio ai centri di permanenza temporanea per l’identificazione e l’espulsione degli stranieri che non fossero risultati in regola. Tali circostanze, se vennero salutate positivamente dai rappresentanti dei comitati di cittadini e delle associazioni di commercianti come simbolo di un riavvicinamento fra polizie e cittadinanza, vennero invece accolte con rabbia dagli esponenti della locale Consulta dell’Immigrazione che sottolinearono l’assoluta disparità dell’operato delle forze dell’ordine (descritte come attente alle sollecitazioni delle categorie maggiormente influenti della popolazione, e sorde di fronte alle richieste provenienti dagli immigrati e dagli altri gruppi marginali) ed accusarono apertamente i comitati di aver alimentato situazioni di reciproca ostilità e di risentimento fra stranieri e cittadini modenesi.

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per chi vuole approfondire Le prime, pionieristiche, ricerche che cercano di far luce su quei due sopraccitati interrogativi (se e per quali motivi gli immigrati delinquono di più rispetto agli autoctoni) sono condotte all’inizio del XX secolo negli USA, più precisamente dagli studiosi dell’Università di Chicago. Era il periodo della cosiddetta “età progressiva”, in cui i fenomeni dell’urbanizzazione e dell’immigrazione selvaggia s’accompagnavano ad una serie di importanti rivendicazioni sociali (come quelle relative al diritto di sciopero e di associazione collettiva dei lavoratori nelle industrie del Paese) e ad un continuo ricorso alla violenza, da parte sia dei manifestanti che delle forze dell’ordine locali, durante il dispiegarsi di tali conflitti sociali. La giovane democrazia americana stava facendo i conti con la sua “bigness”, con quelle rapide trasformazioni sociali ed economiche che avevano reso smisuratamente grandi tanto le principali città del Paese quanto gli squilibri esistenti al loro interno. In questo quadro per molti versi esplosivo, il problema dell’integrazione o dell’assimilazione degli immigrati all’interno del tessuto sociale americano appariva di fondamentale importanza: pur essendo un Paese che aveva fondato la propria esistenza sul fenomeno della migrazione, negli USA dell’età progressiva il tradizionale atteggiamento di favore verso gli stranieri era sempre più spesso soppiantato dalla diffusione, in certi strati dell’opinione pubblica americana, di pregiudizi e convinzioni sulla pericolosità sociale delle nuove masse di immigrati che arrivavano nel Paese: essi erano considerati di cultura e razza inferiore rispetto all’americano medio e responsabili del dilagare della criminalità e della violenza. I ricercatori della Scuola di Chicago – città industriale al centro della rete ferroviaria e fluviale della East Coast, in rapidissima espansione urbanistica e demografica e popolata da migliaia di immigrati provenienti da ogni parte del mondo – contribuirono a sconfiggere gli stereotipi ed i luoghi comuni diffusi sull’immigrazione all’interno della società americana di quel periodo. Con una serie di ricerche – condotte dall’inizio degli anni Dieci fino alle soglie della seconda guerra mondiale – dimostrarono a più riprese che la criminalità degli immigrati giunti in America, così come i loro tassi di incarcerazione, erano complessivamente inferiori a quelli dei cittadini autoctoni, mentre solo per alcune categorie di reati – i reati di sangue e quelli contrari all’ordine pubblico – erano superiori. In particolare risultava evidente che la diversa provenienza nazionale e culturale degli immigrati era correlata alla commissione di diverse tipologie di delitti: gli irlandesi ed i finlandesi, ad esempio, avevano alti tassi di incarcerazione per ubriachezza ed alcoolismo; i tedeschi erano prevalentemente dediti al furto con scasso; gli italiani erano più frequentemente incarcerati per reati di sangue (omicidi e lesioni personali).

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Se, quindi, tali ricerche avevano dimostrato che la convinzione che gli immigrati avessero una propensione a delinquere maggiore rispetto ai cittadini statunitensi fosse sostanzialmente errata, diverse furono, invece, le conclusioni relative ai tassi di criminalità della seconda generazione di immigrati, ossia dei figli di quegli immigrati, nati sul territorio americano e cresciuti all’interno della società USA. Numerose ricerche, infatti, erano concordi nell’affermare che gli immigrati della seconda generazione tendevano a commettere i delitti caratteristici della cultura ospitante, senza distinzioni di rilievo fra i diversi gruppi etnici di provenienza. E, soprattutto, tendevano a commettere quei delitti e ad essere incarcerati in misura proporzionalmente superiore a quella dei cittadini autoctoni di pari età e sesso. Per tentare di interpretare i risultati di quelle ricerche ed i comportamenti della popolazione immigrata, in ambito criminologico vennero elaborate diverse teorie, che ancor oggi costituiscono il principale fondamento teorico degli studi in materia. I primi studiosi della Scuola di Chicago, ad esempio, misero a punto la teoria ecologica della criminalità: per Shaw e McKay le cause della criminalità erano da ricercare nell’ambiente urbano, degradato o “disorganizzato”, piuttosto che nei singoli individui o gruppi sociali. Di conseguenza tali autori ipotizzavano che le varie generazioni di immigrati fossero propense a seguire il tipo ed il livello di criminalità caratteristico del luogo in cui erano cresciute: se la prima generazione di migranti (arrivata da poco nel Paese d’accoglienza) tendeva a riprodurre la criminalità del Paese d’origine, la seconda generazione si sarebbe “conformata” al tipo di devianza esistente nella zona di approdo. Per questo motivo, ad esempio, gli italiani emigrati in America ad inizio secolo tendevano inizialmente a commettere soprattutto reati contro la persona (crimini di natura passionale tipici, a quei tempi, delle zone dell’Italia meridionale da cui provenivano), mentre con la seconda generazione, nata negli USA, passavano a commettere soprattutto reati contro la proprietà (più usuali nella società americana dell’epoca). Peraltro la teoria ecologica, se spiegava alcune caratterizzazioni su base etnica nella criminalità degli stranieri, non aiutava a comprendere le diverse motivazioni individuali che stavano dietro il comportamento deviante di quegli immigrati; non spiegava, inoltre, la maggiore propensione a delinquere esistente nella seconda generazione di immigrati rispetto alla popolazione locale. Il sociologo americano Thorsten Sellin, alla fine degli anni Trenta, sposta l’attenzione dall’ambiente fisico che circonda le popolazioni immigrate all’ambiente culturale entro il quale sono inserite, elaborando così la teoria del conflitto culturale: secondo Sellin, ogni società ha proprie norme di condotta che indicano come devono comportarsi coloro che si trovano in determinate situazioni e che vengono trasmesse da una generazione all’altra. Ma in determinate situazioni, come ad esempio accade nel caso dell’immigrazione da un Paese all’altro, le norme di comportamento seguite all’interno di un gruppo sociale entrano in contrasto con le norme imposte dalla società di riferimento, ed avviene quindi un

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conflitto fra la cultura di provenienza e quella ospitante. Questo conflitto fra norme e culture differenti può portare ad una situazione di “conflitto interiore” (o anomia) all’interno degli individui che si trovano in tale situazione, favorendone un comportamento deviante. In particolare tale conflitto culturale tenderebbe a manifestarsi non tanto negli immigrati di prima generazione (ancora orgogliosamente legati alla cultura ed ai valori della società d’origine) ma soprattutto nella seconda generazione, che vive il contrasto fra le norme di comportamento trasmesse dai genitori e proprie di una cultura ormai lontana e spesso disprezzata, e quelle trasmesse dalla società ospitante (attraverso il contatto con le istituzioni scolastiche e con i pari età), nella quale ancora non ci si sente perfettamente integrati. Per questo motivo i tassi di criminalità degli immigrati seguirebbero percorsi analoghi a quelli della cultura d’origine nella prima generazione, per poi crescere nella seconda generazione, uniformandosi alla tipologia di reati propria della società ospitante. Se le teorie viste finora, per spiegare la propensione criminale di certi settori della popolazione immigrata, enfatizzavano il ruolo dell’ambiente (fisico o culturale) in cui essi vivevano, la teoria della frustrazione strutturale di Robert K. Merton pone invece l’accento sull’individuo deviante e sui percorsi psicologici che possono condurlo a delinquere. Per Merton ogni uomo è essenzialmente un animale sociale che durante le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza interiorizza le norme della società di riferimento e le fa proprie. In ogni società esistono delle mete culturali, ossia degli obiettivi generalmente condivisi dalla maggioranza degli appartenenti ad una formazione sociale (nelle società occidentali, ad esempio, tali mete possono essere rappresentate dal prestigio sociale o dalla ricchezza individuale, ecc.); ed esistono dei mezzi, ossia degli strumenti a disposizione di ciascun individuo per raggiungere tali mete (il lavoro, il risparmio, l’istruzione, ecc.). Tali mezzi, però, all’interno di ciascuna struttura sociale sono distribuiti in maniera squilibrata fra i suoi vari membri, che si ritrovano così ad avere opportunità diseguali di raggiungere le mete prefissate. Secondo questa teoria, quindi, l’individuo che commette un reato è spinto da una situazione di frustrazione strutturale, provocata dallo squilibrio esistente fra le norme culturali, che fissano le mete da raggiungere, e la struttura sociale, che nega pari opportunità a tutti i suoi membri: alcuni di questi membri, pur condividendo le mete fissate dalla società, rifiutano i mezzi leciti previsti per raggiungerle e cercano di arrivare all’obiettivo comune (il successo economico) attraverso mezzi illeciti (i crimini). In particolare gli immigrati sarebbero portati a delinquere perché farebbero propria la meta culturale del paese in cui sono entrati (il successo economico) senza, però, avere le reali opportunità di raggiungerla. Questa teoria è detta anche della “deprivazione relativa” perché secondo tali studiosi non sarebbe necessario appartenere alle classi sociali economicamente più disagiate per avvertire quella “frustrazione strutturale” idonea a spingere al comportamento

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criminale: ogni individuo, infatti, adatta le mete che intende raggiungere (le proprie aspirazioni personali) al gruppo di riferimento in cui si trova inserito. Per questi motivi si parla di deprivazione “relativa”: un esponente delle classi agiate (i cosiddetti “colletti bianchi”) non commetterà reati per procurarsi i mezzi di sussistenza (che già possiede) ma per elevare ulteriormente il proprio livello economico e prestigio sociale; allo stesso modo, le seconde generazioni di immigrati saranno portate a delinquere in maggior misura, rispetto alle prime generazioni, per poter ambire ad obiettivi più elevati (e più difficilmente raggiungibili) rispetto a quelli dei loro genitori. La teoria di Merton si sofferma, quindi, sulla componente psicologica dell’individuo che sceglie di delinquere, all’interno di un contesto sociale che influenza tali scelte; peraltro, essa appare maggiormente adatta a spiegare i comportamenti devianti all’interno di società utilitaristiche e fortemente competitive come quella americana (in cui le mete sociali sono condivise da tutti, ma non da tutti raggiungibili) piuttosto che altrove. Inoltre essa fornisce chiavi di lettura convincenti per i reati di tipo predatorio o contro la proprietà, mentre risulta meno convincente per comprendere altri tipologie di delitti. Un’ulteriore teoria criminologica scaturita in seguito agli studi della scuola di Chicago è la teoria del controllo sociale, elaborata inizialmente dal filosofo americano George Herbert Mead, e poi sviluppata nel secondo dopoguerra da numerosi studiosi statunitensi meglio conosciuti come “neo-Chicagoans”. Secondo Mead l’uomo costruisce la propria personalità attraverso una ripetuta serie di interazioni con la società circostante e con i gruppi sociali presenti al suo interno. Questo processo comunicativo fra società da una parte ed individuo dall’altro determina una sorta di “controllo” che la società stessa esercita nei confronti di ogni individuo e che gli impedisce di compiere azioni considerate devianti o criminali dal gruppo sociale di riferimento. Questo controllo sociale può essere un controllo concreto, esercitato all’esterno dell’individuo stesso (per mezzo di svariate forme di sorveglianza esercitate dalle cerchie sociali frequentate da quel soggetto, per scoraggiare od impedire i suoi comportamenti devianti) oppure al suo interno (attraverso sentimenti di colpa o di vergogna che prova chi viola una norma o l’attaccamento psicologico ed emotivo provato per gli altri e il desiderio di non perdere la loro stima e il loro affetto). In quest’ottica è chiaro che le probabilità che una persona violi la legge sono tanto minori quanto più numerosi sono i vincoli che lo legano agli altri e più forte è il controllo sociale esercitato su quel soggetto. Per quanto riguarda, ad esempio, il fenomeno dell’immigrazione, è innegabile il fatto che i soggetti provenienti da Paesi lontani siano spesso poco integrati nella società di arrivo e manchino di legami forti con altre persone significative e cerchie sociali di riferimento. Inoltre tale teoria chiarisce ulteriormente le ragioni della maggiore propensione a delinquere presente nella seconda generazione di immigrati, che sarebbe dovuta al progressivo indebolimento di quei legami tra i figli ed i genitori che

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costituiscono una delle primarie forme di controllo sociale esercitate su ogni individuo. Un secondo filone della teoria del controllo sociale, denominato interazionismo simbolico, prende invece le mosse dal controllo sociale di tipo simbolico che viene esercitato su ogni individuo attraverso il linguaggio e le altre interazioni di tipo discorsivo o comunicativo. Secondo Mead ed altri studiosi (come Herbert Blumer alla fine degli anni Sessanta) l’uomo progredisce e comprende la realtà che lo circonda grazie al linguaggio ed ai processi comunicativi. È attraverso queste interazioni linguistiche con la società circostante che ogni individuo arriva a definire ciò che lo circonda, a riempire di significati le azioni proprie e quelle degli altri membri della società. Questo insieme di definizioni convenzionalmente condivise all’interno della società guida le azioni di ogni individuo, e genera quindi controllo sociale: un controllo meno visibile di quelli a cui si faceva riferimento in precedenza ma forse più efficace, perché investe potenzialmente ogni comportamento dell’individuo stesso. Ad esempio, per quanto riguarda un comportamento criminale, ogni qual volta si definisce all’interno di un gruppo sociale una determinata azione come “illecita”, e tale definizione diventa condivisa da tutti gli appartenenti a quel gruppo, si genera un controllo sociale indiretto che guiderà il comportamento di ciascun individuo di quel gruppo, spingendolo a non commettere quella determinata azione. Dalla teoria dell’interazionismo simbolico trarranno ispirazione tutti quei filoni di “criminologia critica” che porranno in rilievo i possibili effetti distorsivi di tale tipo di controllo sociale all’interno delle società di massa contemporanee. In particolare, per tornare al tema della criminalità degli immigrati, da tali riflessioni scaturiscono le ricerche di tutti quegli autori denominati “teorici dell’etichettamento”, che hanno messo in luce i pericoli provenienti dall’etichettare come “deviante” o “particolarmente propenso a delinquere” un determinato gruppo sociale (come appunto gli immigrati, le bande giovanili o altre categorie di popolazione marginale), attraverso il proliferare di stereotipi e di definizioni simboliche contenute nei mezzi di comunicazione di massa. Attraverso la diffusione massmediologica di queste “etichette sociali” apposte su tali gruppi, si corre, infatti, un duplice rischio: da un lato, quello di diffondere tali stereotipi nell’opinione pubblica, trasformandoli in “definizioni socialmente condivise” e rendendo quindi tali gruppi “nemici pubblici” della società stessa; dall’altro lato, quello che i soggetti che fanno parte dei gruppi considerati devianti (demonizzati ed isolati dal resto della società) si identifichino ulteriormente con le definizioni e con il “ruolo” assegnato loro dalla società, finendo per amplificare ed incrementare il proprio livello di devianza in una sorta di “interazione simbolica” al contrario.


non riconosce le differenze culturali e la loro importanza per le persone coinvolte; > si basa sull’erronea premessa che ci sono culture superiori alle altre. L’etnocentrismo si traduce spesso nella riduzione di un’altra cultura a pochi, stereotipati, elementi: gli albanesi sono violenti, i cinesi sono furbi, gli italiani sono brava gente. Eppure, appena ci accorgiamo dell’enorme complessità di ogni cultura umana, appare immediatamente ridicolo operare questa generalizzazione e stilare una gerarchia delle culture, così come è insensato fare una gerarchia del cibo, della famiglia, del lavoro. Si tratta in tutti i casi di concetti così ricchi, così complessi e così difficilmente comprensibili, se non inquadrati nel contesto ampio e ancor più complesso della cultura che li produce, che paragonarli l’uno con l’altro non ha senso. Questo non significa che tutto è “relativo”, che non possiamo più dire “io credo che provocare dolore inutilmente sia cattivo” o “io credo che aiutare il prossimo sia una cosa buona”. Questi giudizi però vanno riferiti ciascuno ad un elemento particolare di una cultura e non ad una cultura nel suo complesso. Si può quindi criticare come vengano trattate le donne in una certa cultura e, al tempo stesso, ammirare il sistema giuridico di risoluzione dei conflitti di quella stessa cultura. L’incontro con le altre culture è un momento di arricchimento perché ci offre la possibilità di estendere i confini dell’identità personale e sociale. Tuttavia, quell’incontro può anche disorientare, mettendoci a confronto con mondi così diversi che addirittura certe cose possono apparire per noi moralmente ripugnanti mentre sono un gesto splendido per un’altra cultura. Per esempio, come ci racconta efficacemente Mantovani1, nono-

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stante la pratica sia oggi bandita, nell’87 ci raggiunse la notizia di un episodio di suttee in India: una studentessa si immolò sulla pira dove bruciava il cadavere del suo sposo, così come avevano fatto la gran parte delle vedove indù prima di lei. A noi ciò può sembrare ripugnante e immorale ma per molte delle persone che appartengono a quella cultura quell’atto, non solo è dotato di senso, ma è addirittura “santo”, perché nella concezione indù la morte non è la fine della vita ma l’inizio di qualcos’altro. Come comportarci dunque di fronte a queste sconcertanti differenze? La risposta non è facile, però è d’aiuto sapere che queste differenze esistono, essere preparati ad un incontro che può essere anche molto disorientante, non abdicare a principi che riteniamo imprescindibili (per esempio quelli che fanno riferimento ai diritti umani) e nel contempo non respingere nella “incultura” o inciviltà, nella barbarie, ciò che è “semplicemente” diverso. D’altra parte, per tenere alta la guardia su questo fenomeno, possiamo sottolinearne l’universalità. È vero infatti che certe culture sono più aggressive di altre ma è altrettanto vero che nessuna cultura è esente dal produrre pregiudizi. Non sono pochi i popoli che dividono l’umanità in due: gli Uomini, cioè se stessi, e gli altri, qualunque cosa ciò significhi e qualunque effetto possa determinare nei rapporti con essi. Per molto tempo gli europei hanno pensato che esistesse un’unica storia lineare del progresso umano e che in essa le culture dovessero essere collocate in un continuum che, partendo da forme più arretrate e “primitive”, salissero fino alla cultura per eccellenza, quella occidentale moderna. Questa concezione è ora respinta da tutte le discipline sociali, prima fra tutte l’antropologia. Senza lanciarci in disquisizioni teoriche complesse, appare evidente che ogni cultura ha dei problemi nel sistema di valori cui si ispira e difficilmente si potrà trovare una cultura che sia migliore, più giusta o anche solo più razionale di un’altra: non è forse nostra la prerogativa di avere schiavizzato e deportato milioni di neri dall’Africa o di avere ucciso la quasi totalità degli indios delle Americhe, o, ancor più recente, l’uccisione di milioni di ebrei, zingari, persone omosessuali e dissidenti politici? E non siamo forse noi gli stessi che affittiamo le camere ad affitti indecenti agli immigrati, che siamo i clienti delle prostitute nigeriane e albanesi e quelli che offrono i documenti necessari ad ottenere il soggiorno solo dietro il pagamento di una mazzetta?

Ti invitiamo a riflettere sul concetto di cultura e a tentarne una definizione:

La cultura è .................................................................................................................................................................................................................... .................................................................................................................................................................................................................... .................................................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................................

Fatto? È stato semplice? È cosa complessa cercare di capire le culture, compresa la propria; significa prendere in considerazione molti aspetti della vita, alcuni dei quali sono meglio visibili, mentre per altri bisogna indagare a fondo. Ti proponiamo di seguito una lista di elementi che contribuiscono a definire una cultura e ti invitiamo a cercare di rispondere pensando alla cultura alla quale senti di appartenere (per esempio, italiana o italiana del Nord, o altro): > Cosa è bene e cosa è male secondo la cultura alla quale senti di appartenere? > Qual è la struttura familiare? > Come sono le relazioni tra uomini e donne? > Come sono percepiti spazio e tempo? > Quali tradizioni sono importanti? > Quali lingue si parlano? > Quali norme e consuetudini regolano il consumo di cibo e bevande? > Come circola l’informazione? > Chi ha il potere e come lo ottiene? > Come si reagisce alle altre culture? > Cosa è ritenuto spiritoso e buffo? > Che parte ha il gioco? > Che ruolo gioca la religione?

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suggerimenti per la formazione

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Alcune risposte potrebbero sembrare ovvie ma non lo sono perché cambia-


Esistono cittadini non comunitari che non corrispondono a questa descrizione? > Esistono poliziotti che non corrispondono a questa descrizione? > Se sì, allora qual è il processo che interviene nella creazione di uno stereotipo? > Che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa nel creare, diffondere e rafforzare uno stereotipo? > C’è in gioco un elemento di “potere” nella creazione e riproduzione di uno stereotipo?


È necessario insomma aprire un dialogo. Per evitare che le strategie e le azioni intraprese dalla polizia siano totalmente autoreferenziali, e cioè basate sull’idea che la polizia può decidere da sola se i rapporti vanno bene o no, é bene adottare sin dall’inizio un approccio di partenariato fra la polizia e le comunità in questione, promuovendo relazioni continue tra le due parti. Ciò può avvenire a tre livelli, due di tipo formale ed uno informale: a) il livello formale dei tavoli di lavoro da tenere a cadenze regolari, con ordini del giorno precisi, su temi individuati da entrambe le parti o su proposta di uno dei due gruppi (é questa una realtà già presente in molte città; ne possono essere un esempio i “gruppi di contatto” di cui si parla al paragrafo successivo, oppure gli incontri periodici fra rappresentanti delle Questure e dei gruppi minoritari presenti in un determinato territorio); b) il livello ancora formale di partecipazione di operatori di polizia (qualora siano invitati) ad eventi organizzati dalle comunità di origine etnica minoritaria, come feste e convegni e, viceversa, l’invito esteso ai rappresentanti delle comunità a partecipare a eventi pubblici organizzati dalla Polizia; c) infine il livello informale dei contatti personali e quotidiani, in base ai quali diventa normale e bene accetto, per esempio, che un operatore di polizia entri in una moschea per un rapido saluto alle persone che vi si trovano in quel momento, senza che questo atto

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venga necessariamente percepito come un controllo di polizia. Va da sé che questo tipo di comportamenti non può essere adottato da un giorno all’altro, senza un’adeguata preparazione e senza che si sia instaurata una base di fiducia reciproca sulla quale costruire importanti passi futuri. In questa direzione va certamente il ruolo del poliziotto di quartiere e la filosofia d’approccio della polizia di prossimità (vedi cap. 2, § 4). D’altra parte, quello delle buone relazioni e del partenariato con le comunità di origine etnica minoritaria è uno dei mezzi a disposizione della polizia per non ricorrere sistematicamente ed unicamente ai posti di controllo per la prevenzione e la repressione dei crimini, incoraggiando al contempo la segnalazione di casi di discriminazione e molestie (per approfondimenti sulle mancate segnalazioni di casi di discriminazione si veda il cap. 6, § 3). > La leadership, cioè le cariche più alte nella polizia, sia al livello nazionale che locale, deve dare il buon esempio. Questa regola si applica anche a voi stessi, perché la responsabilità di avviare e mantenere un dialogo non può essere limitata ai gradi più bassi. Toccherà a voi, e agli altri funzionari, assicurare che esista una politica chiara e ben pubblicizzata, sia all’interno della polizia che al pubblico, per affrontare la situazione. L’inizio del dialogo può essere facilitato se le comunità stesse sono coinvolte nella ricerca da svolgere per stabilire la natura dei rapporti esistenti fra le due parti e se il dialogo è ufficialmente e personalmente offerto e proposto da un dirigente della Polizia. > Serviranno statistiche sull’operato della polizia, soprattutto su attività altamente visibili come il controllo e perquisizione per strada o gli interventi sullo spaccio di droga o la prostituzione. Chi viene controllato per strada? Chi è arrestato per attività connesse alla droga? L’attività della polizia riesce a colpire la criminalità in modo significativo? Il lavoro di polizia del quartiere migliora la sicurezza e la tranquillità di tutti o solo delle persone più influenti o numerose, mentre quelle innocenti ma appartenenti alle etnie minoritarie vivono in uno stato di sicurezza minore, sicure solo della maggiore probabilità che corrono di essere controllati dalla polizia? Queste, ad esempio, alcune delle domande da porsi. Vogliamo richiamare l’importanza, per la polizia ancor più che per altre organizzazioni, di procedere sulla base d’ipotesi di lavoro invece che

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sulla base di stereotipi, una differenziazione che produce effetti sostanziali sull’agire della polizia. Infatti mentre, come abbiamo spiegato, gli stereotipi resistono anche di fronte alla prova del contrario, le ipotesi di lavoro sono soggette alla disconferma. Si ricorderà il caso della moglie che, in una regione del Nord-Est, sorpresa dal marito con l’amante nel salotto di casa, con l’aiuto dello stesso amante colpì il coniuge e, credendolo morto, chiamò i carabinieri per denunciare un’aggressione da parte di albanesi. Prima ancora che fossero svolte delle indagini, si diffuse la notizia che coincideva perfettamente con l’immagine dell’albanese criminale e la conseguenza immediata fu che gruppi di cittadini organizzarono nella zona ronde anti-immigrati. Quel modo di operare senza sottoporre a verifica ciò che, a quello stadio, è solo un’ipotesi, è una modalità che non può essere riconosciuta come professionale, mentre trattare il caso come un caso da investigare avrebbe permesso di non diffondere notizie le cui conseguenze sono disastrose per la società nel suo complesso ma in particolare per le comunità di albanesi e per tutti gli stranieri. Indagini successive stabilirono poi la verità dei fatti: a distanza di qualche tempo, la donna ammise che non si trattava di albanesi ma del suo amante le cui effusioni in tarda notte avevano svegliato il marito. Sarà ancora più facile capire le conseguenze dell’uso di stereotipi, se pensiamo ai fatti di Genova e della Uno bianca, al grave danno d’immagine subito dalla Polizia e a come la Polizia stessa abbia faticato a recuperare la stima e la fiducia di un gran numero di cittadini italiani. In questo caso, al contrario dell’episodio della donna e del suo amante, si trattava di fatti veri che tuttavia gettavano un discredito pesante, nefasto e in parte ingiustificato su tutto l’operato della Polizia. > Sarà necessaria una profonda riflessione sulla cultura della polizia stessa, soprattutto la cultura dei gruppi o squadre che hanno maggiore contatto con le persone di etnie minoritarie come l’Ufficio Immigrazione e la Squadra Mobile. Che linguaggio usano quando parlano di persone o comunità di etnie minoritarie? Quali stereotipi prevalgono? Come giudicano la loro attività nei confronti delle comunità e delle persone di origine etnica minoritaria? > Nello stesso modo, è necessario ascoltare gli altri. Cosa pensano le comunità della polizia? Cosa dicono? Come giudicano l’operato della polizia? Può essere spiacevole ascoltare certe opinioni o stereotipi sulla polizia ma costituisce un passo importante nel creare un dialogo sincero e aperto.

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> Non confondere gli stereotipi con altre forme di generalizzazione. Tutte le scienze – e anche le procedure d’indagine – poggiano sul principio della generalizzazione ma alla condizione di mettere alla prova le ipotesi così formulate. Gli stereotipi, come si è visto, hanno la particolare caratteristica di non essere soggetti alla disconferma, tanto che, se la realtà non corrisponde allo stereotipo, quasi sempre si dice che quell’esempio rappresenta un’eccezione e non può che confermare lo stereotipo stesso. Procedere per “ipotesi di lavoro” può essere la metodologia corretta: esse possono corrispondere o no ad uno stereotipo (per es., gli svizzeri sono ricchi perciò questo svizzero è ricco) ma richiedono però la verifica della loro fondatezza.

5.1 - I gruppi di contatto Qualche anno fa, nell’ambito di un progetto denominato PAVEMENT, si realizzarono una serie d’incontri a intervalli regolari tra operatori di Polizia di Stato e Polizie Municipali di Modena, Bologna e Torino, e gruppi di persone immigrate come complemento alla formazione in aula alle forze di polizia. Il gruppo di contatto aveva lo scopo di avviare il dialogo fra i cittadini immigrati e le Polizie di Stato e Municipali su un periodo di tempo sufficientemente lungo a sviluppare una reciproca conoscenza delle attività, delle esigenze e bisogni, degli atteggiamenti, credenze, modi di vita e ruoli professionali degli operatori di polizia e dei cittadini di etnia minoritaria, e di concetti quali sicurezza, ordine pubblico, legalità, discriminazione, diritti. Aderendo al programma, le due parti coinvolte si impegnavano a sostenere un dialogo continuo in modo che il gruppo di contatto potesse continuare, anche dopo il termine del progetto, come luogo fisso di dialogo e consultazione. Le persone di etnia minoritaria erano scelte dalle associazioni dei cittadini non comunitari o dall’Ufficio Immigrazione del Comune, mentre gli operatori di polizia erano volontari tra coloro formati nel corso che partecipavano alle riunioni nelle ore di servizio. Dietro questa scelta dei gruppi di contatto esistono riflessioni che riportiamo, anche se parzialmente, perché ne mettono in evidenza vantaggi e limiti.

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Sembra essere un fatto che l’assoluta maggioranza dei poliziotti ha contatti diretti soprattutto con immigrati che delinquono o che essi suppongono abbiano adottato comportamenti devianti12 e sarebbe eticamente grave se una formazione rivolta agli operatori di polizia ignorasse questo fatto. Tale squilibrio di conoscenze che, a differenza del contatto con i gruppi sociali di etnia maggioritaria, non viene compensato da altre e più approfondite conoscenze, sia nella vita professionale che sociale, con colleghi, parenti, appartenenti ad associazioni, ecc., contribuisce ad una visione parziale e deforme della società e particolarmente dei cittadini immigrati e/o di etnia minoritaria, spesso visti come categoria e non come individui. Poiché per la polizia è essenziale avere un quadro il più veritiero possibile dei reali bisogni dei cittadini e promuovere relazioni positive e costruttive con i vari gruppi che costituiscono una società, è indispensabile che essa abbia un feedback dai diversi settori della comunità sull’efficacia e la rilevanza delle proprie politiche e dei propri programmi (come di fatto già avviene per alcune categorie di cittadini). Dobbiamo segnalare che la posizione assunta dal progetto non era unanimemente condivisa e le ragioni che, secondo alcuni, motivano la creazione di gruppi di contatto erano contestate. Costoro pensavano infatti che, se i poliziotti ritengono di conoscere solo gli italiani che delinquono, ciò non è certo perché essi hanno contatti diretti con la totalità degli italiani. Se per natura del proprio lavoro gli operatori di polizia conoscono più delinquenti che onesti cittadini, ciò dovrebbe essere vero sia per l’un gruppo che per l’altro. Sembra così di potere affermare che con gli italiani funzioni la presunzione di onestà mentre con gli immigrati ci si avvicina molto alla situazione del tipo “non sei onesto fino a quando non dimostri di esserlo” e ciò proverebbe ancor di più che il “conoscersi per rispettarsi”, in tema di rapporti interculturali può generare grosse e inaccettabili confusioni. In ogni caso, qualunque fosse la posizione adottata dai singoli consulenti del progetto a questo riguardo, era opinione condivisa che una conoscenza distorta da parte della polizia sui cittadini immigrati e di etnia minoritaria, unita a presunzioni di onestà o disonestà applicate a categorie di cittadini, producono un rapporto malsano da combattere. D’altra parte, nei gruppi di contatto anche le persone di etnia minoritaria possono vedere un interesse diretto nel sentirsi considerati “cittadini”, con il diritto di esprimersi e di essere ascoltati e di potere parlare “alla pari” con rappresentanti delle istituzioni con i quali, di norma, il rapporto è forse particolarmente conflittuale per le ragioni già più volte espresse.

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Il concetto di gruppo di contatto usato nel progetto non si riduceva ad un’occasione di conoscenza. Infatti, come è provato da diversi studi di psicologia sociale, questi incontri, se non accuratamente preparati e gestiti, non hanno molte speranze di superare i soliti rapporti stereotipati frequenti nei contatti sociali in altri contesti. Un’adeguata preparazione e gestione dei gruppi di contatto deve comprendere almeno i punti seguenti: 1) i partecipanti di origine etnica minoritaria devono essere scelti tra persone che hanno una buona conoscenza dell’italiano, note per la loro capacità di dialogo e per l’abilità nell’essere assertivi senza incorrere in atteggiamenti che possano portare ad uno scontro. Gli uffici comunali, le associazioni degli stranieri e di lotta alla discriminazione possono fornire un valido aiuto nell’individuazione delle persone più adatte; 2) tutti i partecipanti – persone di origine etnica minoritaria e poliziotti - vanno bene informati degli scopi degli incontri e questo prima che gli incontri comincino; 3) gli incontri devono essere gestiti possibilmente da due facilitatori provenienti dai due gruppi rappresentati; 4) all’inizio degli incontri si deve stabilire un accordo fra i componenti del gruppo sugli obiettivi e le modalità di lavoro, in modo da garantire un’autogestione molto più proficua di quella che ci si potrebbe attendere da un gruppo spontaneo. In appendice C abbiamo riportato le riflessioni metodologiche frutto del lavoro svolto nelle tre città del progetto PAVEMENT, sperando che possano essere utili anche a voi. A ciò possiamo aggiungere quanto segnalato nelle considerazioni di un piccolo gruppo di polizia relative alla Dichiarazione di Rotterdam: “La Polizia di Stato inserisce tra le necessità della formazione anche quella dell’apprendimento delle lingue straniere più diffuse, necessaria onde permettere al personale la comprensione delle esigenze di un’utenza che non parla o mal comprende la nostra lingua, e l’opportunità di soggiorni all’estero per perfezionare la conoscenza linguistica. Il documento inoltre sottolinea l’opportunità di integrare i seminari di conoscenza sulle culture straniere con stages, tenuti da sociologi e psicologi, “incentrati sull’individuazione degli elementi e delle cause di comportamenti a carattere razzista”.

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ESEMPIO

Ad Osmannoro, l’area industriale di Sesto Fiorentino, vivono e lavorano più di duecento cinesi in piccole unità produttive e sono presenti più di un migliaio di cinesi come lavoratori. Quest’area è sempre un punto “caldo” per i controlli delle forze dell’ordine. Un giorno una macchina della polizia con due operatori a bordo, fermatasi all’ingresso di un laboratorio, avendo intravisto qualcuno fuggire dal retro, cominciò ad interrogare il proprietario. Poiché questi non rispondeva alle domande (probabilmente il suo italiano non era così buono da permettergli di rispondere o, forse, era spaventato per via di qualche lavoratore irregolare), uno degli intervenuti cominciò ad alterarsi e ad apostrofarlo in malo modo pensando che il silenzio esprimesse una mancanza di volontà nel collaborare. Quando la persona in questione mi raccontò l’accaduto gli chiesi se voleva segnalare l’episodio alla Polizia ma la risposta fu negativa per timore di ritorsioni. Ogniqualvolta, inoltre, arriva nel quartiere una macchina delle Forze dell’Ordine, i bambini cinesi che giocano nella strada corrono impauriti dai genitori. Mi chiedo cosa sono per questi bambini i poliziotti, che immagine hanno degli operatori di polizia e quale effetto avrà sulla loro vita da adulti l’essere cresciuti in questa atmosfera. Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

ESEMPIO

Un operatore della guardia di finanza entrò un giorno in una fabbrica cinese e trovò che c’erano alcuni lavoratori irregolari. Sembravano molto giovani e il proprietario fu subito accusato di impiegare forza lavoro minorile, oltre che irregolare. In realtà i ragazzi erano tutti maggiorenni ma i cinesi sembrano sempre più giovani della loro età! Il proprietario spiegò che non si trattava di minorenni ma il finanziere non prestò alcuna attenzione. Il cinese disse anche che i ragazzi lavoravano soltanto da poche settimane ma l’operatore di polizia registrò che i ragazzi lavoravano in quella fabbrica da più di un anno. Agli occhi di molti operatori di polizia la ricchezza dei proprietari di imprese cinesi è il risultato dell’impiego sistematico di forza lavoro irregolare, persone che, secondo loro, sono trattati come schiavi ed è grazie a questo sfruttamento che alcuni cinesi possono ostentare ottime auto, orologi costosi e cellulari dell’ultima generazione. Di fatto molti cinesi, non appena hanno guadagnato qualche denaro, amano mostrare il proprio benessere attraverso appunto l’ostentazione di status symbol, come d’altronde succede in molti gruppi umani, non esclusi gli italiani. È spesso un modo di fare che importano direttamente dalla loro zona di provenienza, specie se un’area rurale. Bisogna invece sapere che molte fabbrichette sono a conduzione familiare, dove il proprietario lavora le stesse lunghe ore dei suoi impiegati e mangia e dorme negli stessi luoghi e con gli stessi ritmi. È spesso attraverso questo lavoro pesante che essi accrescono il proprio benessere e non sempre attraverso lo sfruttamento sistematico di altri. Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

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Mantovani G., L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri e incontri multiculturali, Giunti, Firenze, 1998. Hofstede G., Culture and Organization: Software of the Mind, McGraw-Hill, 1991. Hofstede G., op. cit., Preface to the revised edition, pag XII, traduzione a cura dell’autrice. Un esempio che dimostra le difficoltà a definire un “gruppo razziale” viene da una sentenza della Camera dei Lord britannica (che potremmo equiparare alla Corte di Cassazione in Italia), emessa nel 1983 in relazione ad un caso di discriminazione razziale. La corte stabilì una lista di criteri per definire un “gruppo razziale”: una storia lunga e condivisa, una propria tradizione culturale, un’origine geografica comune o una discendenza da un numero limitato e comune di antenati, una lingua comune, una letteratura comune, una religione comune, costituire una minoranza o una maggioranza in una comunità più ampia. Si diceva anche nella sentenza che una persona doveva essere considerata membro di un “gruppo razziale” se ella stessa si ritenesse parte di quel gruppo e da quel gruppo fosse accettata come tale. Nonostante l’apparente precisione della definizione, si noti che i criteri usati sono soprattutto criteri culturali e sono gli stessi che vengono usati per definire un “gruppo etnico”. Per chi ha responsabilità di assicurare che il personale di polizia non subisca l’influenza fuorviante di stereotipi e pregiudizi, può essere utile notare che gli stereotipi di solito costituiscono la controparte sociale dei pregiudizi i quali tendono ad essere più personali. Contrastare gli effetti dei pregiudizi, quindi, richiede attenzione soprattutto agli individui più che al gruppo. L’effetto dello stereotipo tende invece a propagarsi a livello sociale, con effetti probabilmente più ampi, attraverso i media e nella cultura dell’organizzazione, nel linguaggio e nel gergo usato. In questo caso, occorre perciò attenzione al livello del gruppo piuttosto che a livello individuale. Mantovani G., op. cit., p. 37. Fabietti U., L’identità etnica, Carocci, Roma, 1998. Sciolla L. (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg & Sellier, Torino, 1983. Tuning in to Diversity. Immigranti e minoranze etniche nei media, Roma, CENSIS, 2002. Racism and cultural diversity in the mass media. An overview of research and examples of good practice in the EU Mamber States, EUMC, 2000. “Il mainstreaming ha lo scopo di integrare la lotta contro il razzismo come un obiettivo in tutte le azioni di una comunità e nelle politiche a qualunque livello (…). Per questo, si devono usare azioni generali e politiche per combattere il razzismo prendendo in considerazione attivamente, e in modo che sia visibile a tutti, l’impatto che queste azioni e politiche avranno nella lotta contro il razzismo, sin dal momento in cui esse sono pensate”. Da Realizzazione del piano d’azione contro il razzismo – mainstreaming la lotta contro il razzismo, rapporto della Commissione Europea. Opinione condivisa da quasi tutti i progetti nazionali NAPAP e riportata anche da Robin Oakley in Note da sottoporre per l’indagine sull’omicidio di Stephen Lawrence, documento non pubblicato.

4 1 - Comunicare Quando la comunicazione avviene tra persone che appartengono ad una stessa cultura, essa risponde ad una serie fittissima di regole di comportamento accettate come ovvie e non più oggetto di riflessione. Non per questo la comunicazione è da considerarsi un processo semplice. Anche all’interno di una stessa cultura, la persona che emette un messaggio (chiamata “fonte” o “emittente”) deve scegliere le parole giuste (comunicazione verbale), i gesti, l’intonazione della voce, l’espressione del viso e la posizione del corpo (elementi della comunicazione paraverbale e non verbale) per codificare il messaggio che ha nella testa e poterlo trasmettere ad altri (si veda la sezione per chi vuole approfondire in questo stesso capitolo). Mentre l’“emittente” invia il suo messaggio in codice, riceve i segnali di comunicazione non verbale del ricevente, allo stesso modo in cui il ricevente decodifica i suoi messaggi verbali e paraverbali. Il ricevente decodifica il messaggio usando tutta la sua esperienza precedente di comunicazione con quella persona, o di precedenti comunicazioni di quel tipo e, quindi, inevitabilmente opera una selezione in ciò che ascolta e nel modo in cui lo decodifica. Ci possono essere disturbi (rumori) che intervengono a rendere ancora più complessa e difficile una comunicazione efficace: veri e propri rumori oppure il disturbo causato dal fatto che il pensiero di chi ascolta è molto più rapido della parola e chi ascolta ha così agio di pensare ad altre cose nel frattempo. L’emittente dunque entra in competizione anche con questi disturbi. Anche il contesto nel quale avviene la comunicazione segna un elemento di sfondo che pone dei vincoli e delle restrizioni alla realizzazione

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dei diversi significati: può essere accettabile (anche se non auspicabile) che un insegnante dica all’allievo “non hai capito” ma può risultare persino offensivo che qualcuno si esprima in questo modo con un collega. Il processo che abbiamo descritto può essere rappresentato da questo diagramma:

emittente

ricevente rumore

messaggio intenzionato

messaggio espresso

messaggio ricevuto

codifica

decodifica

contesto

messaggio interpretato

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2 - La comunicazione tra persone che non appartengono alla stessa cultura La comunicazione interculturale è invece interazione nella quale le competenze comunicative di due persone entrano in gioco in una relazione tra sfondi culturali differenti, infatti straniero e autoctono fanno riferimento a competenze comunicative diverse, efficaci e pertinenti per la comunicazione nei contesti di appartenenza e non automaticamente anche in altri.

competenze comunicative “ (…) Tutti gli individui, in quanto membri di una comunità linguistica e sociale, possiedono la capacità di produrre e capire messaggi e quindi di interagire con altri soggetti. Questa fondamentale capacità viene definita competenza comunicativa e si riferisce all’insieme delle presupposizioni reciproche, delle conoscenze e delle regole che rendono possibile uno scambio comunicativo. (…) In specifico, la competenza comunicativa comprende le seguenti abilità: • competenza linguistica, cioè la capacità di produrre e di interpretare segni verbali; • competenza paralinguistica, la capacità di produrre e interpretare elementi che modulano la comunicazione, come l’enfasi, la cadenza nella pronuncia, le risate, le esclamazioni; • competenza cinesica, la capacità di realizzare la comunicazione anche mediante gesti (cenni, mimica del volto, movimenti delle mani, ecc.); • competenza prossemica, la capacità di variare il rapporto con lo spazio in cui avviene l’interazione (la distanza interpersonale, il contatto reciproco, ecc.); • competenza performativa, la capacità di usare intenzionalmente un atto linguistico per realizzare gli scopi della comunicazione; • competenza pragmatica, la capacità di usare i segni linguistici e non linguistici in maniera adeguata e funzionale alla situazione e ai propri scopi; • competenza socioculturale, la capacità di interpretare correttamente le situazioni sociali, i rapporti di ruolo e gli elementi che caratterizzano una cultura. Le competenze comunicative non sono un patrimonio stabile e possono modificarsi o aumentare e ciò significa sempre porre mano ad aspetti profondi della propria identità”. Da Zani B., Selleri P., David D., LA COMUNICAZIONE. Modelli teorici e contesti sociali, Carocci, Roma, 1998, pag. 31.

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Pensate ad esempio all’uso delle metafore che abbondano, anche nella nostra inconsapevolezza, nei discorsi quotidiani. La frase “Laura è un angelo” potrebbe risultare totalmente incomprensibile nel suo significato letterale e metaforico a chi non è cresciuto, non conosce profondamente o non è stato educato nella religione cristiana per la quale esistono “angeli” in cielo, esseri meravigliosi, uno dei quali è addirittura responsabile della cacciata agli inferi di Lucifero. «La metafora attribuisce a qualcosa di cui si sta parlando un attributo preso da un altro dominio di realtà. (…) Se non siamo consapevoli dell’effetto cornice, non comprendiamo che la prospettiva che adottiamo per inquadrare una situazione non è l’unica possibile, né è necessariamente la migliore in circolazione. Il caso più tragico è quello di chi non pensa di star vedendo le cose da un particolare punto di vista, ma è sicuro di vederle così come sono.»1

Le più recenti ricerche sulla comunicazione sostengono che essa, per svilupparsi, ha bisogno che tra gli interlocutori esista un terreno comune a cui essi possono fare riferimento per esplorare le intenzioni reciproche. Quando Colombo arrivò a Trinidad e cercò di fare salire gli indigeni sulla nave, decise di fare una festa sperando di attrarli con canti e balli. Fu a quel punto che gli indigeni imbracciarono gli archi e incominciarono a tirare frecce. Un chiaro esempio di malinteso: ciò che era un segno di pace nella Spagna di allora era per i nativi di Trinidad una dichiarazione di guerra. In situazioni come queste si aprono due strade: «o sviluppare una comunicazione aperta all’altro, multiculturale, faticosa e frustrante per gli europei, tutti presi dal loro sogno di conquista. Oppure rinunciare a comunicare, impadronirsi al più presto di tutto ciò che si può afferrare, sfruttare l’altro senza riguardi, partendo dal principio che l’altro non ha diritti, non ha tradizioni, non ha dignità che meritino di essere rispettati».2

L’importante è avere la consapevolezza che non esiste mai un unico punto di vista, che le cose non le vediamo “così come sono” e che la lettura che ciascuno di noi dà della realtà è determinata in gran parte dal colore delle lenti che ci vengono assegnate in dotazione dalla nostra cultura, dalla nostra posizione sociale, dalla nostra educazione, dalla famiglia, dalla scuola e dagli altri ambienti di socializzazione. Il nostro modello di comunicazione si complica quindi, introduce la “cultura” come elemento fondamentale per dare senso ad una comunicazione ed appare come rappresentato in questa figura:

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cultura emittente

cultura ricevente

emittente

ricevente

messaggio intenzionato

messaggio espresso

rumore

codifica

messaggio ricevuto

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messaggio interpretato

decodifica

contesto

Poiché sarebbe impossibile acquisire competenze comunicative proprie dei tanti diversi background culturali ai quali appartengono le persone di minoranza etnica presenti nel nostro Paese, è importante riconoscere due regole fondamentali: > tenere presente che ciò che è implicito nella comunicazione tra persone che condividono lo stesso background culturale non può essere dato per scontato per chi appartiene a cultura diversa e va dunque reso esplicito nella comunicazione interculturale. Un esempio desunto dal calcio: se parlo del risultato di una partita che

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non solo le parole ma anche i gesti, la posizione del corpo, lo spazio tra le persone che stanno comunicando, lo sguardo, ecc., insomma tutti gli elementi della comunicazione non verbale sono culturalmente determinati e poiché, come si vede altrove in questo capitolo, la comunicazione non verbale spesso prevale sul contenuto verbale in una comunicazione, dobbiamo prestare grande attenzione a questi aspetti. Come? Di nuovo, non dando per scontato che ciò che io faccio sia interpretato esattamente come è nelle mie intenzioni e che io sto capendo esattamente ciò che l’altro sta cercando di comunicarmi.

Nelle borse di tre persone sono stati trovati questi oggetti: Persona 1: agenda elettronica carta di credito American Express burro di cacao per labbra chiavi con anello senza portachiavi Persona 2: gomme da masticare aspirine salviette “fresh and clean” agenda cartacea Persona 3: biglietti dell’autobus fazzoletti di carta libro “Con i Palestinesi” preventivo di spesa per lavori di ristrutturazione della casa Il Manifesto

Concediti qualche attimo ma, senza troppo pensare, prendi nota delle cose che questi oggetti ti suggeriscono. Adesso chiediti: incontrando le persone alle quali questi oggetti appartengono, la mia comunicazione con loro sarebbe libera da qualunque “pre-giudizio”? oppure il mio comportamento e il mio giudizio su di loro sarebbe in buona parte guidato dalle idee che me ne sono fatta? e che conseguenze avrebbe tutto ciò sul nostro rapporto? Leggi quanto segue solo dopo avere fatto l’esercizio. Qualunque sia stata la risposta, siamo convinti che gli oggetti ti abbiano immediatamente ed inevitabilmente suggerito un’opinione sulle persone in questione e che la relazione che si dovesse instaurare fra te e queste persone sarebbe fortemente condizionata da questi pre-giudizi. Il pregiudizio comunicativo interviene quando vengono attribuite delle caratteristiche psico-socio-culturali o socio-economiche a delle persone in base alla loro comunicazione. Si può basare su tutti gli elementi che una persona trasmette e che vengono utilizzati per accumulare velocemente informazioni sull’altro. Come tutti i pregiudizi esso ha dunque un valore positivo. Tuttavia dobbiamo stare molto attenti nell’attribuire un valore definitivo e assoluto a queste sensazioni e opinioni e dobbiamo essere pronti a sospendere il giudizio in attesa di conoscere veramente l’individuo che ci troveremo davanti.

suggerimenti per la formazione

Quale tipo di persona ti sembra questi oggetti svelino? uomo o donna? giovane o anziana? quale potrebbe essere il loro lavoro? e il loro carattere? e le inclinazioni politiche? la classe sociale? la formazione? sposati o singoli? la loro appartenenza etnica/culturale?

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Il linguaggio non è qualcosa di neutro, un mero strumento: attraverso il linguaggio noi selezioniamo la realtà e la apprendiamo. Esso, nell’uomo, è un punto di vista privilegiato per capire il mondo e per costruire “una” visione della realtà. Nell’ipotesi di due linguisti moderni (Sapir e Whorf) esiste una realtà oggettiva e una nostra realtà e quest’ultima è importante perché spesso noi ci muoviamo da una all’altra delle due, scoprendo che esistono dei limiti oggettivi nei nostri percorsi, che possono essere superati scivolando nell’altra e questo ci porta pericolosamente a non tenere conto di quanto avviene “fuori” di noi e da cui dobbiamo spesso difenderci e con cui dobbiamo spesso interagire. Così non dobbiamo credere che per un giapponese sia davvero impossibile distinguere tra verde e azzurro, perché così ci fa credere la sua lingua. Egli vede gli stessi colori che vediamo tutti, a meno che non sia daltonico, ma il suo interesse è attirato verso una divisione dello spettro diversa da quella di un italiano. I sensi attraverso i quali conosciamo il mondo sono quelli che sono ma diversa è l’attenzione che poniamo alle cose.

L’idea che ogni elemento di una cultura sia relativo unicamente a quella cultura può nascondere delle trappole. Un rappresentante di un gruppo sindacale, durante un seminario al quale partecipavano dodici mediatori linguistico-culturali, sosteneva che i diversi concetti del tempo di vari gruppi culturali rendeva questi gruppi inadatti a lavori con orari fissi. La conseguenza sarebbe dunque che si dovrebbero indirizzare immigrati non comunitari a lavori senza orari fissi, contrariamente a ciò che accade negli uffici e nelle fabbriche. I mediatori rispondevano che, nonostante possibili differenze concettuali, nei loro Paesi (che includevano Algeria, Camerun, Cina, Marocco, Nigeria, Perù, Repubblica Dominicana e Somalia) l’orario scolastico, di ufficio o di fabbrica, andava rispettato esattamente come in Italia. In questo caso una presunta diversità culturale rischiava di escludere molte persone da normali opportunità di lavoro. Testimonianza di un formatore di una ONG

ESEMPIO

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Prendiamo ad esempio il concetto del tempo. La misurazione del tempo determina una percezione della realtà attraverso tale misura. Nelle società capitalistiche, nate in ambiente calvinista, il tempo è denaro. Altrove il tempo è associato ad altri valori. Lo spagnolo, per il quale la componente culturale islamica non è insignificante, “perder tempo” lo esprime con ganar tiempo, cioè “guadagnare tempo”, per sé, per fermarsi a guardare nei propri spazi interiori. Dunque la valutazione del valore del tempo è soggettiva ed è indubbiamente culturale. Spesso la mentalità dei musulmani rifiuta il concetto di una democrazia basata sul consenso di una maggioranza perché nociva alla coesione di una comunità, dove le minoranze sarebbero scontente. Dunque, solo l’unanimità vale e questa si ottiene a prezzo di lunghe, estenuanti discussioni. Non economiche? Forse più durature. E le minoranze non esistono? Più facile per noi pensare che in quelle società non sono rispettate le minoranze, tacciando di immobilismo il mondo islamico antico dove invece hanno sempre trovato posto anche cristiani ed ebrei. Ma il calendario e l’orologio, almeno loro, sono realtà oggettive? Certamente no. Non solo la varietà di modi per calcolare il tempo è facilmente dimostrabile ma il tempo si misura a partire da date diverse. Per il musulmano il tempo che conta inizia con l’Egira del Profeta il 16 luglio del 622 dell’era cristiana. E se oggi siamo nel 1417 è perché il computo degli anni avviene sulla base dei cicli lunari, per cui ogni 32 anni solari il calendario islamico guadagna, grosso modo, un anno. Le ore del giorno, poi, sono diverse e tale diversità si basa su un fatto importante: l’osservazione diretta (astronomica) del tempo. Sebbene in molti Paesi oggi l’orologio funzioni come in Europa, in altri (e nel passato) il giorno comincia al tramonto. La notte di giovedì, dunque, è quella tra mercoledì e giovedì, in quanto giovedì termina al tramonto, di conseguenza, le tre europee sono in realtà le nove. Di più. L’orologio non serve, né i telescopi, per determinare i momenti importanti della vita. Gli arabi sono famosi per i loro studi astronomici e ancor oggi oltre duecento stelle sono ricordate con i nomi dati da astronomi arabi del passato. Eppure, per determinare l’inizio del ramadan, il mese del digiuno, non serve saperne calcolare la data, non serve saper usare un computer: l’inizio è determinato a vista. Occorrono due validi testimoni che annuncino al mondo di aver osservato in cielo il sorgere della nuova luna.

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Quando un immigrato cinese rinnova il proprio permesso di soggiorno, se ci sono variazioni, è quasi certo che l’operatore di polizia farà qualche errore nella trascrizione dei documenti, come una scorretta ortografia del nome o lo stato civile errato. Questo perché la maggior parte dei cinesi non parlano bene l’italiano e non sono perciò in grado di fare rilevare immediatamente l’errore che apparirà evidente solo quando la persona in questione dovrà mostrare il permesso di soggiorno per ottenere altri documenti (con la possibilità che a quel punto l’errore abbia già prodotto conseguenze negative spesso di altissimo costo per l’immigrato). Ma anche quando la persona immigrata è in grado di segnalare immediatamente l’errore, per lo più i poliziotti non vogliono apportare la correzione e insistono per correggerlo alla successiva occasione di rinnovo del permesso di soggiorno. Questi errori sono dovuti a una certa pigrizia dell’operatore di polizia che non considera i tanti problemi che questa apparente banalità causerà all’immigrato. Altre volte gli errori sono in realtà delle valutazioni arbitrarie e soggettive da parte dell’operatore di polizia, come nel caso in cui un uomo cinese che vive in una stanza in affitto presso una donna cinese, al rinnovo del permesso di soggiorno si vede “attribuita” una moglie e si può bene immaginare a quale sequela di interminabili procedure burocratiche dovrà ottemperare quando vorrà aprire una pratica di ricongiungimento familiare con la sua vera moglie che si trova ancora in Cina. Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

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per chi vuole approfondire “Non si può non comunicare”, ha affermato uno dei più grandi studiosi della comunicazione della nostra epoca, Paul Watzlawick. Ogni individuo comunica in maniera molteplice e non può esimersi dal farlo in alcun modo. Basti pensare al viaggiatore che, seduto sul treno, spalanca il suo quotidiano e si tuffa nella lettura: non volendo comunicare non può esimersi tuttavia dal comunicare, e in modo forte e chiaro, che non vuole dialogare e preferisce leggere! Eppure questo processo, che può sembrare normale e quasi meccanico, è fonte di molti malintesi ed una delle esperienze che più spesso abbiamo nella vita è quella frustrante di fare in modo che ciò che esce dalle nostre labbra raggiunga l’orecchio dell’altro con il significato delle nostre intenzioni. Per misurare l’efficacia di una comunicazione non abbiamo altro strumento che il responso che se ne ottiene. Ma perché è così difficile comunicare con efficacia? Perché la comunicazione è il risultato

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della combinazione di un processo di acquisizione di regole che comincia quando nasciamo e di una serie complessa di calcoli che apprendiamo nel corso della vita. Di tutto ciò siamo solo in parte consapevoli. Infatti, a meno di non essere degli esperti di comunicazione, difficilmente saremo consapevoli in ogni momento che quando comunichiamo usiamo spesso tre linguaggi diversi, o meglio, tre livelli di comunicazione: il livello verbale, paraverbale e non verbale. L’elemento verbale è legato alle parole, dunque al linguaggio, che esprime il contenuto della comunicazione: “cosa” stiamo comunicando. Gli altri due elementi invece sono legati al “come” comunichiamo. Gli elementi paraverbali sono il tono, il volume, il ritmo e il timbro della voce. Gli elementi non verbali sono la gestualità, le espressioni del viso, l’abbigliamento, la gestione dello spazio. Ciò cui si presta più attenzione nella comunicazione solitamente è il linguaggio verbale (cioè le parole che si scelgono) e si tende a trascurare, almeno coscientemente, gli altri due aspetti. Ciò è curioso poiché alcune ricerche (Mehrabian) sembrano dimostrare che, mediamente, in una comunicazione il peso della parte verbale è attorno al 7%, il peso della parte paraverbale è del 38% e il rimanente 55% è comunicazione non verbale. Ma perché usiamo il linguaggio non verbale e paraverbale? Perché le parole non bastano? Perché non tutto si può esprimere con le parole in modo adeguato. Lo usiamo così per completare il messaggio (per esempio usando l’abbigliamento come un ulteriore modo per inviare informazioni), per rafforzarlo (la gestualità), a volte lo usiamo al posto del contenuto (pensate a un eloquente, ancorché silenziosa, alzata di sopracciglia) o per comunicare uno stato emotivo (con la voce, il volto, i movimenti del corpo) o gli atteggiamenti che si hanno nei confronti degli altri (con la vicinanza fisica e lo sguardo). Gli elementi non verbali e paraverbali sono così potenti che, nel caso di un conflitto tra la comunicazione verbale e quella paraverbale e non verbale, quest’ultima prevale. In altre parole: il “come” lo dico prevale sul “cosa” dico. Pensate ad esempio, in quanti modi è possibile proferire la parola “bravo”, veicolando di volta in volta sincera approvazione o disappunto o addirittura il significato opposto!


avere acquisito la consapevolezza che le fonti di incomprensione possono essere tante e possono manifestarsi a diversi livelli, è un primo passo importante verso una posizione di dubbio sulla comunicazione e il comportamento dell’altro: non è detto che se una donna originaria di un Paese africano non mi guarda dritto negli occhi stia mentendo, è forse più probabile che stia in questo modo mostrandomi il suo rispetto! Allo stesso modo, è probabile che una donna di religione musulmana, o una persona cinese, abbassino lo sguardo per modestia; > essere gentili e avere pazienza può migliorare la comunicazione perché un tono pacato può forse tranquillizzare l’altro, facilitando così la sua comunicazione con noi. In Inghilterra la polizia fece un’indagine presso le comunità d’origine etnica minoritaria su come avrebbero voluto che la polizia agisse: risultò che la richiesta più forte era di un comportamento gentile e di scusa nel caso di errore. Anche noi abbiamo chiesto ai nostri colleghi e amici di origine etnica minoritaria come vorrebbero i poliziotti e la cortesia e la gentilezza sono risultati tra i requisiti più significativi (si veda il capitolo 6); > rivolgersi alle persone con la formula di cortesia “lei”. Per chi parla bene la nostra lingua appare subito oltraggioso che qualcuno si rivolga a loro con il tu mentre con una persona italiana si sarebbe

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usato il lei. Passate al tu solo quando avrete verificato che la persona non comprende e pensate che l’uso del tu possa facilitare davvero la comunicazione; parlate con le persone di origine etnica minoritaria che vivono nel vostro territorio e chiedete loro se ci sono questioni particolari che gli operatori di polizia dovrebbero tenere presente; se nel vostro territorio è presente una comunità particolarmente numerosa, sarebbe bene assegnare una persona ai contatti con quella comunità di cui, in questo modo, potrà conoscere meglio le usanze, i bisogni e le richieste e con la quale potrà instaurare più facilmente un rapporto di reciproca fiducia; ricordate che per alcuni gruppi di musulmani e non musulmani di certi Paesi non è bene che le donne stringano la mano a un uomo o che si trovino sole con un uomo che non appartiene alla loro famiglia e non insistete dunque per vedere la donna da sola (a meno che questo non sia strettamente necessario per un’indagine e, anche in questo caso, fornite tutte le informazioni e rassicurazioni necessarie, oltre alla ricerca di soluzioni alternative); se fate un errore (per esempio, allungare la mano per stringerla ad una donna che non vuole fare altrettanto con voi, e non per scortesia), semplicemente scusatevi e proseguite. Le persone sono molto più pronte di quanto noi crediamo ad accogliere scuse sincere; fate tutto il possibile affinché nei vostri uffici si possa ricorrere a interpreti in campo sociale (o mediatori linguistico-culturali come spesso vengono identificati) ogni volta che sia necessario. Oggi esistono in tante città anche dei servizi di interpretariato telefonici che facilitano molto l’intervento dell’interprete; producete volantini e fogli informativi in diverse lingue e fate in modo che queste informazioni circolino nelle comunità attraverso la rete di conoscenze e di contatti che avrete stabilito con i rappresentanti delle comunità e le loro associazioni, con i sindacati, gli uffici comunali e i tanti altri modi che risulteranno appropriati nel vostro particolare contesto. Non dimenticate però che alcune persone immigrate non sanno leggere e che spesso la lingua inglese o francese sono per loro la seconda o la terza lingua! È perciò anco-

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ra più necessario che persone della stessa comunità possano veicolare loro le corrette informazioni. Per chi volesse approfondire alcuni aspetti della comunicazione interculturale suggeriamo la lettura di un testo breve ma denso di informazioni che è riportato anche nella bibliografia consigliata. Si tratta di “Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale” di Paolo Balboni (1999). In particolare i capitoli 3, 4 e 5 offrono una lista di tipizzazioni di formule comunicative e comportamenti di macro-gruppi umani. Va tenuto presente che Balboni si rifà alla teoria del software mentale di Hofstede che, ricordiamo, dopo avere avuto enorme successo sia di pubblico che nel mondo accademico, è oggi oggetto di critiche da parte di alcune correnti, in particolare di psicologia culturale.

3.1 - Tutti hanno diritto a capire e a farsi capire Accade spesso che, nei contatti tra gli operatori di polizia (all’Ufficio Immigrazione delle Questure, ai controlli per strada o nelle case, ecc.) e le persone di origine etnica minoritaria, ci siano per diversi motivi incomprensioni che possono portare anche a gravi conseguenze per i cittadini stranieri o per l’efficacia dell’operato della polizia. Se può essere vero che alcune persone fingono di non capire l’italiano, è però vero che, nella maggioranza dei casi, le persone straniere non hanno una conoscenza della lingua italiana che, specie in momenti di tensione e apprensione come può essere per un immigrato il contatto con la polizia, permetta loro di interloquire con serenità ed efficacia. Sono tanti i casi di persone che arrivano persino ad essere detenute senza sapere nemmeno di quali reati sono accusati. Tutte le persone – sia operatori della polizia che pubblico - hanno invece diritto a capire e farsi capire e la polizia, per la delicatezza delle questioni che tratta e per il suo impegno nella difesa dei diritti umani, ha un particolare dovere a fare sì che ciò si realizzi. L’interpretariato dovrebbe dunque essere disponibile in tutti i casi in cui le persone in questione non conoscono l’italiano; parlano poco l’italiano; richiedono un interprete per particolari procedure, come la richiesta di un permesso di soggiorno o per denunciare un torto subito.

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Oggi molte questure hanno contatti con interpreti (o di persona o tramite un servizio di interpretariato telefonico) e si spera che questa prassi si diffonda sempre di più, anche se, va detto, il mondo dell’interpretariato in campo sociale (o della mediazione linguistico-culturale come, a nostro parere erroneamente, viene spesso chiamata3) è ancora poco sviluppato in Italia, la formazione non è sempre di qualità, non esistono lineeguida, né una politica chiara sull’argomento. Ci sono alcuni pericoli nell’uso d’interpreti che vogliamo mettere in evidenza. Spesso, per assenza o impossibilità a contattare degli interpreti professionalmente preparati, si ricorre ai favori di amici o familiari, cosa che rende ancora più complicata una comunicazione già molto difficile. Alcuni studi realizzati nei Paesi anglosassoni hanno dimostrato infatti che usare interpreti non formati, in alcune circostanze, comporta rischi più alti che non avere interpreti per nulla. La presenza di qualcuno che traduca induce infatti la falsa sensazione di sicurezza - sia per l’operatore, sia per il cliente – che sia in corso una comunicazione accurata. Degli interpreti non formati possono invece, anche involontariamente, introdurre distorsioni nella comunicazione in diversi modi: • aggiungere informazioni che non sono state date dal cliente • omettere di tradurre delle informazioni • alterare le informazioni • fornire consigli • non avere dimestichezza con la terminologia specifica • non rispettare la confidenzialità • provare imbarazzo • provocare imbarazzo Ciò che deve essere sempre, in ogni circostanza, evitato, è il coinvolgimento di bambini. Anche quando si lavora con interpreti professionalmente preparati, è bene rispettare alcune regole che facilitano la buona comunicazione. Ecco alcuni suggerimenti: • stabilire la regola con l’interprete e con il cliente che ogni cosa detta deve essere tradotta;

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• fornire in anticipo all’interprete e al cliente tutti gli elementi che possono aiutarlo a comprendere la situazione e il contesto; • ogni volta che è possibile e appropriato, scegliere un interprete dello stesso sesso del cliente; • considerare le possibili differenze politiche e/o di religione; • concedere tempo per le presentazioni e per tentare di creare il più possibile un clima rilassato; • parlare direttamente al cliente e non all’interprete; • parlare con frasi chiare e pause frequenti; • lasciare che l’interprete interrompa se non ha capito o se pensa di dovere tradurre la frase appena pronunciata dall’operatore; • evitare il gergo, le abbreviazioni e le sigle.

note 1

Mantovani G., op. cit., pag. 69.

2

Mantovani G., op. cit., pag. 95.

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C’è, purtroppo, molta confusione fra “interpretariato”, “mediazione culturale” e “advocacy”. Un interprete può fare un lavoro puramente tecnico, semplicemente traducendo, parola per parola, quello che dicono le parti. Nella forma più estrema, l’interprete non deve occuparsi della comprensione del messaggio. Se un immigrato britannico non capisce la differenza fra ‘residenza’ e ‘domicilio’ (concetti indistinti nel sistema giuridico inglese) non è responsabilità dell’interprete spiegarla. Un tentativo di colmare questa lacuna nella comunicazione ha dato vita ad una nuova professione: il mediatore culturale. Purtroppo, i mediatori culturali, per poter svolgere davvero un lavoro di ponte sia linguistico che culturale, dovrebbero avere competenze ampie e approfondite, quasi a diventare antropologi culturali e interpreti specializzati (e probabilmente anche psicologi ed esperti legali). Nell’impossibilità ovvia di essere all’altezza di una prova così difficile, l’operato del mediatore rischia di sfumare nell’”advocacy”, cioè, la difesa di una delle parti. Quale parte difende può dipendere da fattori personali e politici o semplicemente dal fatto di essere pagato da una parte (nel nostro caso la Questura).

5 1 - Il primo passo: indagare in modo efficace Nella gestione dei rapporti della Polizia di Stato con le comunità di etnia minoritaria o immigrate, uno dei momenti più critici è quando l’operatore di polizia è chiamato ad occuparsi di – e possibilmente risolvere – un caso di razzismo. Fino ad oggi non esiste in Italia una procedura specifica per guidare l’operatore di polizia in questo tipo di situazione ma, in considerazione della gravità di tali incidenti e della difficoltà insita nel loro accertamento, siamo convinti che sia necessario offrire, a chi ha responsabilità diretta o indiretta di indagine, delle linee guida e dei principi che possano aiutare a garantire un servizio di polizia efficace anche in questi casi. Inoltre, come già detto nel capitolo 1, le Direttive emanate dal Consiglio dell’Unione Europea (n. 43/2000 e n. 78/2000) e la Raccomandazione (Rec 2001/10) “Codice etico europeo per la polizia” richiamano i doveri della polizia sul rispetto dei diritti fondamentali della persona e dell’agire equo e professionale. I rischi di errori da parte della polizia sono molti, come evidenziato dal rapporto della commissione parlamentare britannica “McPherson Report” che, dopo l’approfondito studio di una nota tragedia nella quale morì nel 1993 un giovane britannico nero1, elenca una triste lista di mancanze e gravi dimenticanze da parte della polizia di Londra. Di particolare importanza è stato il riconoscimento dell’aspetto forse più subdolo nel fallimento dell’erogazione del servizio di polizia, la discriminazione istituzionale, dove è l’istituzione di Polizia nel suo complesso, piuttosto che i singoli individui, a discriminare una parte di quella stessa società che avrebbe invece l’obbligo di servire.

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Siamo convinti che anche la Polizia italiana, così come hanno fatto molte polizie europee, debba procedere ad una riflessione approfondita e ad una revisione degli standard di servizio, delle modalità di erogazione e dei criteri e indicatori di verifica. In attesa di una più ampia riforma, si può pensare che alcuni elementi di novità possano essere gradualmente inseriti a livello locale con esperienze pilota da valutare e, possibilmente, ripetere altrove. Come sempre, prima di illustrare i nostri suggerimenti per l’azione della polizia, vogliamo proporvi alcune informazione e riflessioni su cos’è la discriminazione e come essa agisce.

2 - Come agisce la discriminazione Discriminare significa identificare differenze e ciò può essere sia negativo, sia positivo: se stiamo guidando è importante essere in grado di discriminare tra le varie corsie del traffico. C’è però un altro livello di significato, connotato negativamente, che diventa un’etichetta negativa attribuita a persone, gruppi o entità diverse e questa “discriminazione contro” non è casuale ma segue dei modelli precisi di classe, genere, “razza” o appartenenza etnica, disabilità, orientamento sessuale, età. Quando questa discriminazione esiste essa diventa un’esperienza di oppressione perché agita da soggetti in un rapporto di potere diseguale, o due gruppi sociali, di cui uno più potente e l’altro meno potente. L’oppressione così intesa implica calpestare i diritti di un individuo o di un gruppo e creare così uno svantaggio. Le disparità sono mantenute attraverso processi di discriminazione che hanno l’effetto di distribuire le opportunità della vita, il potere e le risorse in un modo che rafforza le relazioni di potere già esistenti. È proprio attraverso questo processo interattivo tra discriminazione e disparità che lo status quo è mantenuto. La discriminazione agisce a tre livelli2: personale, culturale e istituzionale (o strutturale) e tutti e tre interagiscono tra di loro. Personale o individuale I pensieri, i sentimenti ma soprattutto gli atteggiamenti e le azioni di un individuo, specie se in posizione di potere. La manifestazione più evi-

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dente di un pregiudizio è l’espressione di un’opinione (un giudizio) e il rifiuto di cambiarla o abbandonarla anche di fronte ad un’evidente prova contraria. Può essere consapevole o inconsapevole ma l’effetto non cambia. È importante riconoscere che il pregiudizio (e la discriminazione che ne può seguire) non è unidimensionale e coinvolge persone diverse in situazioni diverse: una donna nera può essere vittima di razzismo e sessismo e tuttavia discriminare gli anziani e i disabili. Un’azione discriminatoria è personale quando l’attore la fa in nome suo; per esempio, rifiutare di sedersi accanto ad una persona nera o scegliere di non invitare un ebreo a cena a casa propria perché non si “sopportano” gli ebrei. Anche quando una persona fa un’azione discriminatoria nell’ambito del proprio lavoro, l’azione può costituire una discriminazione individuale (e non istituzionale). Se, per esempio, l’autista di un autobus non si ferma ad una fermata dove l’unica persona in attesa è nera, e se l’autista sa che il suo compito è di fermarsi per chiunque aspetti l’autobus alla fermata, allora fa questo atto di sua propria volontà e responsabilità3. Culturale Sebbene ogni individuo sia unico, dobbiamo riconoscere che i suoi valori e le sue azioni sono molto legati alle aspettative e norme prevalenti nella società in cui vive. È anche a livello culturale che gruppi e individui possono essere esclusi ed emarginati nella creazione di un “noi” e di un “loro”. È chiaro che il senso di appartenenza, il dare per scontate una serie di cose, ha anche un aspetto positivo, di sentirsi sicuri e integrati, di avere radici e ci permette di affrontare il quotidiano senza dovere mettere in dubbio qualsiasi cosa facciamo, è insomma uno strumento necessario per non avere un corto circuito informativo. Il pericolo in agguato è però l’etnocentrismo, cioè la tendenza a vedere il mondo attraverso i limitati confini della propria cultura e a proiettare su altri gruppi il proprio insieme di valori e norme. L’etnocentrismo offre il maggiore contributo al razzismo perché non riconosce le differenze culturali e la loro importanza per le persone coinvolte e si basa sulla premessa errata che ci sono culture superiori alle altre. Ad esempio, sono manifestazioni di etnocentrismo le dichiarazioni di personaggi di spicco del mondo politico e culturale che affermano la superiorità della cultura occidentale nei confronti di quella orientale o dell’islam nei

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confronti del cristianesimo o il riferimento nei giornali alle origini nazionali o etniche o all’appartenenza religiosa solo di certi gruppi di immigrati. Strutturale (o istituzionale) I modelli culturali non esistono nel vuoto ma sono in costante interazione con fattori sociali, politici ed economici. L’elemento del potere (già presente anche nei livelli personale e culturale) appare qui evidente e si manifesta in norme, regole e prassi che hanno l’effetto di escludere alcuni gruppi dal godimento di certi diritti, per il solo fatto di appartenere a quei gruppi. Questo tipo di discriminazione si manifesta anche dove il potere di discriminare è agito da una persona ma in virtù di un’investitura istituzionale. Per esempio, un professore può discriminare alcuni suoi alunni in forza del suo ruolo istituzionale e non per sua individuale volontà. Molti autori contestano che il razzismo sia dovuto alle idee e ai pregiudizi delle persone. Secondo costoro, ciò che veramente importa sono le strutture di potere, le istituzioni e le pratiche sociali che producono l’oppressione razziale e gli effetti delle discriminazioni. Allo stesso modo, le idee sessiste non sorgono per caso ma per proteggere privilegi, in questo caso per mantenere gli uomini in posizione di potere e privilegio. La Polizia Metropolitana della Gran Bretagna ha adottato questa definizione di discriminazione nelle organizzazioni (detta anche “discriminazione istituzionale”): Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente, ed in ogni aspetto, la comunità che serve, a causa delle origini “razziali” o etniche, della religione o credo di alcuni membri di quella comunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei comportamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario, ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianza di opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un’organizzazione dipendente. Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazione, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore di discriminazione nell’organizzazione (o “istituzione”). Sono state per prime le studiose femministe a mettere in dubbio l’ideologia che sottende ad una società patriarcale e sessista, basata su una

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differenza biologica che confinerebbe “naturalmente” la donna nella casa e nell’allevamento dei figli. Allo stesso modo il razzismo si basa sull’idea che ci siano “razze” biologicamente diverse, alcune delle quali sono inferiori alle altre. Ed è proprio questo processo di attribuire un significato alle differenze e di assegnare ad ognuna livelli di valore diversi che sta alla base della discriminazione, dell’oppressione e dell’esclusione. Un fenomeno che è il risultato di una costruzione sociale e storica è trattato come un evento naturale o come l’inevitabile risultato di caratteristiche naturali cosicché, per esempio, la divisione sociale del lavoro tra uomini e donne è ritratta come il prodotto di caratteristiche e differenze fisiologiche tra i sessi. In altre parole, fenomeni storico-sociali sono privati del loro aspetto storico e descritti e considerati come eternamente ricorrenti e immutabili. Lo stesso processo di “naturalizzazione” interviene quando si considera la vecchiaia come “naturalmente” un periodo di ritiro e disimpegno dalla vita sociale, così come, all’altro capo dello spettro dell’età, sta la costruzione sociale dell’infanzia che, pur essendo cambiato nel corso dei secoli anche all’interno della nostra stessa società, viene ancora relegata a una posizione priva di potere e con scarsa enfasi sui diritti. Così come per le persone disabili è ancora presente un’immagine sociale che li vede prevalentemente come destinatari di cura ed assistenza, lontani quindi da un’esperienza di vita in cui la presenza di un deficit non neghi la possibilità di costruire e godere una qualità di vita globale. Gli stessi meccanismi hanno operato quando le donne cominciarono a lavorare in polizia o nell’edilizia o quando gli stranieri cominciarono a immigrare. L’arrivo di una minoranza in un’organizzazione inizialmente provoca incertezza nella maggioranza, la gente non si sente più tanto sicura sul comportamento da tenere (“posso ancora raccontare quella barzelletta? come mi devo comportare con una persona così?”), al punto che questa insicurezza fa dimenticare ai membri della maggioranza le tante differenze all’interno del loro gruppo (le persone sposate e quelle singole, chi ha figli e chi non ne ha, il ceto di appartenenza, ecc.). Ora essi hanno occhi solo per le differenze tra maschio e femmina, tra abile e disabile, tra autoctono e immigrato. E questa insicurezza, per difesa, porta ad un rafforzamento della cultura esistente e cioè della cultura dominante, la cultura del “qui si fa così”. L’esagerazione delle differenze ha anche un’altra seria conseguenza, quella di spianare la strada per l’esclusione delle minoranze, cosicché a

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donne, anziani, gay e lesbiche, disabili, minoranze etniche sono date minori opportunità di lavoro e di carriera. Per questi outsider diventa quindi difficile penetrare nei circuiti informali dove si prendono veramente le decisioni. I gruppi dominanti usano tre diverse strategie per limitare l’influenza degli outsider che possono essere usate senza volere oppure deliberatamente. Essed4 propone tre concetti fondamentali per capire e descrivere le tre strategie che si riscontrano in tutte le società a maggioranza bianca e che possono essere applicati a qualunque gruppo subordinato: marginalizzazione (o emarginazione), problematizzazione e contenimento. Emarginazione – una forma di esclusione > Ignorare le forme di discriminazione I lavoratori di un’organizzazione non si sentono responsabili per quelle relazioni che escludono gli altri. Razzismo, omofobia, sessismo, ecc. non sono messi in questione da nessuno e lo status quo permane. > Il pensiero gerarchico Il gruppo dominante è convinto della propria superiorità: gli uomini sono superiori alle donne, la cultura europea è la norma ed è superiore, ecc. > Ostacoli alle pari opportunità Ci sono molti modi per rendere l’ingresso difficile agli “altri” o la loro progressione in carriera. Ciò può avvenire in forme più o meno sottili: il non riconoscimento delle qualità, le tattiche di scoraggiamento, il sovraccaricarli di lavoro, il trattenere informazioni fondamentali, ecc. Problematizzazione – ideologie usate dal gruppo dominante per legittimarsi > Denigrare la personalità Le persone sono etichettate come inaffidabili o eccessivamente sensibili. > Denigrare la cultura Le differenze sono spiegate in termini di cultura: “loro sono indietro rispetto a noi” o addirittura gli altri sono considerati incivili. > Denigrare su base biologica

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Le persone sono etichettate come “problematiche” attraverso un processo di criminalizzazione o ascrivendo loro, per esempio, aberrazioni sessuali. Contenimento – una forma di repressione > Negazione della discriminazione Si può ignorare la discriminazione evitando di prendere posizione o con una posizione attiva di diniego in risposta a lamentele di razzismo, sessismo o altro. > Amplificare le differenze I responsabili e i dirigenti possono inavvertitamente amplificare le differenze riservando certi lavori alle minoranze o possono introdurre meccanismi di decisione che premiano la maggioranza. > Il paternalismo Il paternalismo può assumere molte forme, dalla protezione all’aspettativa della gratitudine, tutte cose che rafforzano la dipendenza. > Negazione della dignità Le persone possono essere sminuite o umiliate. > Intimidazione Molestie e intimidazioni possono assumere varie forme, dalla violenza fisica o sessuale, alle minacce verbali o a prepotenze per creare un’atmosfera ostile attraverso scherzi o forme di ridicolizzazione. > Ritorsioni L’assertività può essere punita, le promozioni provocano gelosia e si covano invidie, e si cercano modi per consumare una vendetta. La Dichiarazione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1969) afferma che: «Costituisce discriminazione razziale ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, sul colore, sulla nascita, sulle origini nazionali ed etniche che abbia lo scopo di modificare o limitare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio su un piano di parità dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o qualunque altro campo».

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Nel 1978 l’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, dichiarò che: «Qualunque teoria che asserisca che gruppi “razziali” o etnici siano intrinsecamente superiori o inferiori - sottintendendo così che alcuni avrebbero il diritto di dominare o eliminare altri che sarebbero inferiori - o che attribuisce un giudizio di valore alle differenze razziali, non ha fondamento scientifico ed è contraria ai principi morali ed etici dell’umanità».

Innumerevoli conferenze e dichiarazioni in campo internazionale si sono susseguite negli anni fino al 2001 che fu dichiarato “Anno internazionale della mobilitazione contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza” e che ebbe il suo massimo evento nella Conferenza mondiale di Durban (31 agosto – 8 settembre 2001). Ciononostante il razzismo e le discriminazioni razziali, etniche e religiose sono un’esperienza purtroppo quotidiana per milioni di persone, comprese le persone di origine etnica minoritaria o di religione minoritaria che si trovano nel nostro Paese. Uno dei pochi documenti di ricerca svolta in Italia “Atti di violenza contro gli immigrati” (studio sulle notizie riportate dai giornali condotto dall’Osservatorio sulla Comunicazione Sociale e il Dipartimento Radio e Televisione dell’Università La Sapienza di Roma, che presenta i dati sui primi nove mesi del 2000) riporta nella presentazione le parole dell’allora capo del governo Giuliano Amato: “In Italia uno straniero è vittima di violenza ogni 25 ore”. Secondo questo rapporto, anche escludendo, peraltro in modo piuttosto arbitrario, gli assalti perpetrati da stranieri ai danni di stranieri, il 34,7% di tutti i casi di violenza contro stranieri ha una chiara matrice razzista.

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per chi vuole approfondire Il razzismo classico, quello che si fa risalire a Joseph-Arthur de Gobineau, imputa la diversità culturale ad un elemento naturale, assegna all’altro un valore negativo e spiega tutto individuando nell’elemento genetico-razziale la supposta inferiorità. Le teorie che stanno alla base di questo razzismo, come abbiamo detto, sono state confutate anche sul piano biologico e genetico. È facile inoltre dimostrare che una persona appartenente ad una “razza”, se sin da piccola viene cresciuta ed educata in un ambiente del tutto diverso da quello di appartenenza “razziale”, crescerà come persona socialmente “media” secondo gli standard della cultura nella quale è stata allevata. Oggi difficilmente si troverà qualcuno che si dichiari apertamente razzista, nel senso appena indicato. Ciò non significa che il razzismo, sia come ideologia, sia come pratica quotidiana, stia scomparendo. Tutt’altro. Esso si presenta piuttosto in forme più sottili e perciò più subdole e difficili da combattere: dalla nozione di “razza” si è passati a quella di “etnia” (vedi cap. 3, § 3) e gran parte del dibattito attuale sul razzismo riguarda in realtà non la “razza” biologica, bensì l’appartenenza etnica e la conflittualità interetnica. Ci sono persino rischi di razzismo in quelle teorie che, come il relativismo culturale, concetto caro a molti autori in campo antropologico ed etnografico, nel loro intento originario volevano arrivare ad un’idealizzazione della differenza, alla diversità vista come valore, come fonte di confronto e di arricchimento. È anche per questa via, estremizzandone i contenuti, che si arriva al “giustificazionismo culturalista”, la forma di razzismo oggi più diffusa che considera comunque e sempre valide e rispettabili tutte le manifestazioni di cultura (a meno che non siano palesemente contrarie ad alcuni principi etici basilari come il rispetto della vita, o della dignità umana) e considera ingiusta ogni pressione esterna finalizzata alla modifica di quei tratti. Essa é particolarmente insidiosa perché non necessariamente parte dalla superiorità della propria cultura ma piuttosto dall’irriducibile differenza tra le culture, ogni cultura avendo prodotto senso nel contesto in cui si è sviluppata e dove ha diritto di conservarsi, purché non esca da quel contesto o territorio e non minacci il diritto alla identità culturale degli altri. In

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sostanza, il ragionamento è semplice: tutti gli esseri umani sono uguali ma sono legati a sistemi di significato che si sono differenziati, le “culture” appunto, che vanno rispettate nella loro diversità, e la conclusione è “ognuno a casa sua”. I sostenitori di questa posizione sono convinti che la decadenza comincia quando le culture interagiscono e creano fenomeni di sincretismo, in sostanza confusione, delle culture e dei suoi prodotti. Altrove, in questo testo, si riferisce invece di come tutti gli approcci antropologici, sociologici e di psicologia sociale riconoscano che quelli che appaiono come “risultati” di una cultura «non sono mai stati prodotti da culture isolate, bensì da culture che, volontariamente o involontariamente, combinavano i loro giuochi rispettivi e realizzavano con vari mezzi (migrazioni, influenze, scambi commerciali e guerre) quelle coalizioni (necessarie a produrre quei risultati). (…) La possibilità che una cultura ha di totalizzare quel complesso insieme di invenzioni di ogni ordine che chiamiamo una civiltà, è funzione del numero e delle culture con cui essa partecipa all’elaborazione – il più delle volte involontaria – di una comune strategia».5


discriminazione passiva: tacere quando vengono raccontate barzellette offensive nei confronti delle persone nere, o delle donne, ecc. > discriminazione legale: fino a non molti anni fa in Italia non erano ammesse a concorsi pubblici le persone di età superiore ai 42 anni > discriminazione sottile e probabilmente non intenzionale: in un gruppo di lavoro tutti i partecipanti maschi sono presentati con il loro titolo professionale mentre l’unica donna è presentata come “signora”

Tipi di discriminazione

TIPO 1

TIPO 2

consapevole dichiarato attivo estremo diretto intenzionale cattivo illegale

inconsapevole nascosto passivo sottile indiretto non intenzionale ben intenzionato legale

suggerimenti per la formazione

Può sembrare facile identificare i diversi possibili tipi di discriminazione. Chi non riconoscerebbe infatti come forma estrema, consapevole, dichiarata, intenzionale e cattiva l’aggressione violenta di un gruppo di naziskin ai danni di una persona nera? Ingannevoli invece sono i tanti modi di discriminare che si nascondono persino dietro le buone intenzioni e l’inconsapevolezza degli autori e che nondimeno producono degli effetti. La tabella che segue elenca alcuni tipi di discriminazione. Ti proponiamo di cercare esempi per ognuno dei tipi, specie per quelli riportati nella colonna Tipo 2. Scoprirai quanta discriminazione avviene quotidianamente, anche in situazioni insospettabili.

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per chi vuole approfondire “Tutti uguali – tutti diversi” é lo slogan che in questi ultimi anni in Europa ha avuto grande diffusione anche grazie all’impegno della Commissione Europea nella lotta alla discriminazione razziale lanciata nel 1997, proclamato “Anno europeo contro il razzismo”. In quell’anno l’Unione Europea inseriva ad Amsterdam l’ Art.13 nel Trattato dell’Unione. In base a questo articolo, l’Unione Europea ha acquisito maggiori poteri e autorità per intraprendere opportune misure di lotta contro le varie forme di discriminazione per motivi relativi a sesso,“razza”o origine etniche, religione, credo, disabilità, età e orientamento sessuale. Lo slogan “tutti uguali, tutti diversi” esprime la convinzione che ognuno è diverso dall’altro e tuttavia tutti siamo uguali. L’affermazione non è banale e sottintende un concetto forte: cose diverse hanno lo stesso valore. Si potrebbe dire che non è innovativo perché è assioma delle democrazie l’affermazione che “tutti sono uguali davanti alla legge”. Il problema è che in realtà non tutti hanno le stesse opportunità e le stesse risorse e gli individui non sono in condizione di parità. Genere, appartenenza etnica e religiosa, orientamento sessuale, età, abilità/disabilità sono seri ostacoli all’ottenimento della parità e questo non perché i giovani, gli anziani, le donne, le persone omosessuali o le persone di minoranza etnica siano meno capaci ma perché molte delle persone appartenenti a gruppi dominanti li considerano “inferiori”. In Italia: 1 1 1 1 1 1 1

su 2 persone è uomo su 2 persone è donna su 25 persone ha un background etnico-culturale diverso da quello della maggioranza su 6 persone ha più di 65 anni su 7 persone ha meno di 14 anni su 20 persone è omosessuale su 20 persone è disabile

Il concetto di “parità” è complesso e può essere inteso in modi diversi. Certamente non si confonde con il concetto di “uniformità” perché, anzi, una buona comprensione delle differenze e della diversità è una parte importante del promuovere la parità. Il concetto di parità porta in sé il concetto di diritti, sul piano civile (garanzia delle libertà individuali e uguaglianza davanti alla legge), politico (diritto al voto e alle cariche politiche) e sociale (benessere sociale, sicurezza e appartenenza – nel senso contrario a emarginazione - secondo gli standard prevalenti in una data società).

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Ciò che caratterizza il concetto di parità nelle società contemporanee è che l’ineguaglianza non si dà più per scontata, che non è più inevitabile o naturale e che si può e si deve fare qualcosa per contrastarla. Un modo per promuovere la parità è quello delle pari opportunità. L’approccio delle pari opportunità si basa sul desiderio di raggiungere un punto di partenza uguale per tutti in modo da eliminare lo svantaggio sistematico di alcuni nel lavoro, nell’accesso ai servizi, alla casa, ecc. Questo approccio, nonostante i suoi indubbi meriti, è stato criticato per la sua prospettiva ristretta all’individuo e per il fatto che non si occupa delle strutture di potere che producono le disparità. In altri termini, se l’accento è sulle opportunità invece che sui risultati, il risultato stesso può essere tutto tranne che pari se la cultura generale e la struttura sociale non lo sostengono. Anche la promozione del pari trattamento in situazioni di ineguaglianza rischia di rafforzare l’ineguaglianza stessa.

3 - L’azione della polizia L’accertamento relativo ad un caso di razzismo è, come ogni altra attività d’indagine, un processo di problem solving la cui efficacia non può prescindere da una chiara identificazione del problema. Nel caso di un episodio razziale l’elemento “razziale” deve essere identificato sin dall’inizio con estrema chiarezza. Pertanto dovrebbe essere approntato un modulo specifico per ricomprendere tra i dati registrati anche quelli relativi all’appartenenza “razziale”, etnica, nazionale, alla cittadinanza, al colore della pelle, al credo religioso, che oggi non sono normalmente raccolti, evidenziando – a seconda del caso – il dato in base al quale è stata presuntivamente operata la discriminazione. Inevitabilmente, dare maggiore importanza all’investigazione di questi casi implica un impegno maggiore di risorse umane ed economiche nonché di tempo e, come sempre, il costo di un’indagine efficace è dunque elevato. D’altra parte, il costo del fallimento di un’indagine sarebbe ancora più alto perché andrebbe ad incidere sul livello di fiducia della società e, in


l’ incidente non produce effetti solo sulla vittima diretta ma sull’intera comunità > le vittime di un “episodio razziale” possono essere dunque innumerevoli > la società intera risente delle tensioni ingenerate da siffatta categoria di episodi > c’è l’alto rischio del ripetersi dell’incidente > sussiste un’elevata probabilità che l’incidente rappresenti solo il tassello di un puzzle più ampio che, se ricostruito nella sua interezza, può fornire un quadro completo degli autori > esiste il rischio che, laddove non identificati e neutralizzati, gli autori di un “episodio razziale” possano commetterne di più gravi > potrebbe sussistere la possibilità che gli autori di tali episodi si organizzino formalmente o informalmente in strutture associative dedite a questo tipo di attività. Il servizio di polizia, il cui compito è di sostenere in ogni caso le vittime di tutti i reati, è nei casi di episodi razziali chiamato ad offrire un sostegno ancora più forte. Questo non significa riservare alla vittima di tali inci-

ESEMPIO

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denti un trattamento speciale, quanto piuttosto dare il giusto peso a questo genere di episodi in ragione della paura e della pressione psicologica ingenerata nei soggetti che hanno subìto la condotta discriminatoria. La tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, costituzionalmente garantita e incisivamente ribadita nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, deve essere garantita senza ricorso ad alcuna forma di discriminazione. Laddove pertanto l’operatore di polizia non fornisse un sostegno adeguato alla vittima di un “episodio razziale”, e proporzionato anche alla gravità del fatto, verrebbe meno alla sua missione che è quella di costruire una relazione di servizio con un’altra persona che entra in contatto con lui, quasi sempre in una posizione di potenziale difficoltà psicologica. Ai fini di un’investigazione efficace é importante delineare la figura del trasgressore. Un’attività di intelligence condotta su un episodio razziale richiede dati completi e accessibili sugli autori conosciuti di tali episodi, come pure una comprensione ampia del tipo di persona che può rendersi protagonista di tali episodi, il suo modo di pensare, i suoi valori, i suoi comportamenti, le sue frequentazioni. Ricerche condotte in questo campo hanno evidenziato che sussiste un grado di prevedibilità delle azioni che giovani trasgressori compiranno con l’andare del tempo se non vengono messi in atto programmi correttivi. Spesso, infatti, essi si fanno coinvolgere in forme di abuso e di intimidazione via via sempre più violente. Per esempio, già a partire dall’età di quattro anni, i bambini possono mostrare a scuola o per la strada comportamenti discriminatori acquisiti nell’ambito della famiglia. Cominciando dagli insulti e da atteggiamenti di “bullismo” (o prepotenza) si può passare poi, nell’età adolescenziale e giovanile, a veri e propri reati razziali. È anche significativo che, mentre gli anziani in genere non commettono reati di questo tipo, le loro opinioni e comportamenti possono avere un’influenza notevole sui giovani. Un obiettivo primario per la polizia deve essere dunque identificare, indagare e perseguire gli autori di tali episodi in modo soddisfacente per la vittima e la comunità. Quando l’episodio discriminatorio non ha dato luogo ad un reato perseguibile penalmente la polizia deve avere quale obiettivo di intraprendere azioni alternative in partnership con altre associazioni, gruppi e istituzioni competenti in relazione al caso.

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3.3 - Implicazioni per chi è responsabile di personale sottordinato Gli operatori di polizia che si occupano di episodi razziali sovente si trovano a gestire un dialogo ad alta carica emotiva con vittime e testimoni. Questo dialogo, al di là dell’episodio specifico per il quale si interviene, può riguardare anche altri precedenti episodi dello stesso tipo, mai denunciati o riferiti, ai quali si dovrà estendere l’attività investigativa. Considerata la mancanza, attualmente, di una procedura standardizzata, è estremamente importante che chi ha la responsabilità di persone dia un esempio continuo di comportamenti eticamente corretti nell’approccio ad ogni episodio di discriminazione razziale, rendendosi garante anche dell’uguale correttezza del comportamento dei suoi dipendenti. Sarà sua cura, inoltre, aggiornare continuamente il personale per dargli le conoscenze e competenze appropriate alla gestione di questo particolare tipo di episodio. È inoltre massimamente importante che l’organo di vertice della polizia stabilisca una chiara policy rispetto alla trattazione degli episodi di discriminazione razziale, delineando i comportamenti e lo stile di atteggiamento che gli operatori di polizia debbono assumere al riguardo. Infine, va tenuto presente che operatori che lavorano a lungo o ripetutamente in questo ambito possono avere bisogno di un sostegno psicologico perché sottoposti a forme particolari di stress. I responsabili del personale dovranno essere in grado di rilevare i sintomi di stress professionale negli operatori di polizia in modo da avviarli prontamente alla struttura preposta all’attività di sostegno. Ricordiamo che la Direzione Centrale di Sanità, di concerto con il Centro di psicologia medica applicata della Polizia di Stato, ha approntato la costituzione di gruppi di supporto al personale coinvolto in incidenti critici di servizio di cui entrano a far parte non soltanto psicologi e psichiatri ma anche gli stessi operatori di polizia che, avendo già vissuto esperienze simili, le abbiano sapute efficacemente superare sotto il profilo emotivo.

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3.4 - Il sostegno alla vittima Quando ci si deve occupare della vittima di un episodio razziale, è importante capire quello che prova la vittima stessa, altrimenti certi suoi comportamenti o atteggiamenti possono sembrare inappropriati o inutili, quando non di ostacolo. È necessario cercare di identificarsi con lei per capire la gravità dell’impatto psicologico, il senso d’isolamento, d’impotenza, di rabbia, di frustrazione e vulnerabilità che si prova nella sua situazione. Per capirlo provate a mettervi nei panni di una vittima di atti di violenza e discriminazione. Immaginate, per esempio, che, a casa, una sera, sentite l’odore di carta bruciata. Fuori dal portone trovate una copia di Polizia Moderna in fiamme sullo zerbino. Il giorno dopo venite a sapere che il figlio di un collega è stato picchiato perché “il suo papà fa lo sbirro”. Qualche giorno dopo, trovate la vostra macchina graffiata. Quali sarebbero i vostri sentimenti e le vostre opinioni? Forse alcuni, o anche tutti quelli che elenchiamo qui: • Qualcuno vi odia semplicemente per il lavoro che svolgete. • Non vi conoscono personalmente e probabilmente non vogliono conoscervi. • Sanno che fate il poliziotto e sanno dove abitate. • Com’è cambiata la qualità della vostra vita? • Come si sentirà la vostra famiglia? • Come vi sentite all’idea di lasciare sola la vostra famiglia? • Siete stati identificati fra i vostri vicini. • Adesso fate parte di un gruppo minoritario. • Come si sentono gli altri poliziotti che abitano vicino a voi? • Adesso appartengono allo stesso gruppo sotto attacco. • Adesso tutti questi poliziotti sono vittime che hanno bisogno di supporto e rassicurazione. • Vorreste che qualcosa di efficace fosse fatta per mettere al sicuro la vostra famiglia? • Potreste credere che, qualunque cosa fosse fatta, sarebbe sufficiente?

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• Vi aiuterebbe sentirvi dire che la polizia sta facendo tutto il possibile? • Se gli incidenti continuassero e non ci fosse nessun progresso apparente nell’indagine, come vi sentireste? • Se un gruppo di poliziotti a voi sconosciuti e sconosciuti anche ai vostri colleghi conducesse le indagini, quanta fiducia avreste in loro? • Potrebbe succedere che parlereste volentieri dei vostri sentimenti con le altre vittime ma sareste restii ad esprimere le vostre preoccupazioni con esterni? • Gli altri potrebbero non capire? • Comincereste a sentirvi isolati e frustrati? Con queste riflessioni avete appena cominciato ad avvicinarvi all’impatto che un caso di discriminazione, di molestia, di prepotenza o violenza ha sulle vittime, senza tuttavia arrivare a conoscerne interamente la portata perché: • voi potete togliervi la divisa • voi potete scegliere di non dire ai vostri vicini di casa che lavoro fate • potreste anche pensare di cambiare lavoro. Per quelli che sono visibilmente diversi, come persone di certe etnie minoritarie o nazionalità, persone che convivono in un rapporto visibilmente omosessuale o persone che portano abiti particolari come simboli della loro religione o persone con una disabilità visibile, queste opzioni non esistono. Essere vittima per il colore della pelle, per la sessualità e per la fede è su un’altra scala rispetto ad essere vittima per la propria professione e sarebbe d’altra parte inaccettabile che queste persone dovessero essere costrette a cambiare casa, a nascondere le proprie inclinazioni sessuali o a vestirsi diversamente. Come inaccettabile sarebbe anche che un poliziotto dovesse cambiare la propria professione per evitare di essere bersaglio di attacchi. Molte vittime hanno un atteggiamento negativo verso la polizia tanto che in altri Paesi, dove studi dettagliati sono stati eseguiti, i casi di razzismo risultano quelli meno denunciati. A volte le vittime sentono di aver ricevuto poca protezione nel passato e, nella loro esperienza colletti-

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va, hanno subito degli incontri ostili e pregiudizievoli con la polizia. Le paure da parte delle vittime includono: • che all’incidente o reato non sarà data molta importanza; • che la reazione del poliziotto possa essere discriminatoria; • che informazioni personali possano essere conservate e “schedate”. In una comunità chiusa, ogni incidente ha un impatto che va oltre la vittima e la sua famiglia stretta, divenendo parte dell’esperienza collettiva, nutrendo le percezioni del gruppo verso la società, rafforzando gli stereotipi e il senso d’isolamento. Costruire ponti fra la polizia e le comunità a rischio sarebbe, in un mondo perfetto, il compito di tutte e due le parti. Purtroppo la diffidenza di certe comunità di origine etnica minoritaria o nazionale rende loro difficile questo passaggio, ciò è d’altra parte pienamente comprensibile e deve essere capito ed accettato dalla polizia. In ogni caso, la responsabilità formale e professionale per costruire ponti di comunicazione resta saldamente nelle mani della polizia e spetta alla polizia trovare il modo. La vittima di un caso di razzismo rischia di essere due volte vittima: dapprima per l’incidente che ha subito e in seguito se la risposta della polizia è di indifferenza, insofferenza o rifiuto di riconoscere la gravità dell’esperienza. Gli operatori di polizia possono credere che questo essere vittima una seconda volta non sia giustificato o sia irrazionale ma se ciò sia ragionevole o no è irrilevante, compito della polizia è fare sì che non succeda. Questo fattore è fondamentale nel combattere episodi razziali e deve essere riconosciuto e capito da tutti gli operatori di polizia a contatto col pubblico. Gli effetti psicologici possono lasciare ferite gravi e incidenti apparentemente lievi possono essere devastanti per comunità intere. Gestire con sensibilità i rapporti fra polizia e vittima in questi casi mette a dura prova le competenze interpersonali, comunicative e interculturali della polizia e di ciò l’operatore deve essere consapevole per potere gestire al meglio l’indagine e risolvere il caso. È bene anche ripetere che, nei casi di razzismo, si ha spesso il fenomeno della “vittimizzazione ripetuta”: quando uno stesso reato viene più volte perpetrato a danno della medesima persona o in uno stesso luogo in un periodo di tempo determinato. Alcune ricerche menzionate nel manuale della Polizia inglese su Hate Crime Management9 hanno evidenziato che:

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> la vittimizzazione tende a ripetersi cosicchè l’esperienza passata costituisce il migliore indicatore della vittimizzazione futura. L’analisi delle abitazioni e delle persone già coinvolte in un “episodio razziale” costituisce, dunque, un buon indicatore delle potenziali future vittime di episodi analoghi. La consapevolezza di ciò aiuta ad individuare la potenziale vittima di un “episodio razziale” ed il suo autore eventuale, come pure ad identificare le circostanze di luogo e di tempo in cui lo stesso potrebbe essere perpetrato. Ne consegue un più efficace ed economico impiego delle risorse disponibili; > un secondo “episodio razziale” tende a seguire rapidamente il primo. Se ciò non accade entro un lasso di tempo ravvicinato il rischio della ripetizione dell’evento tende a diminuire. Per avere un effetto significativo non sarà necessario impiegare a lungo misure di prevenzione speciale; > prevenire la vittimizzazione ripetuta protegge i gruppi sociali più vulnerabili senza dover identificarli come tali; > la vittimizzazione ripetuta è fenomeno più frequente, sia in termini assoluti che proporzionali, in quelle aree a più alta incidenza della criminalità che peraltro rappresentano anche le zone interessate dai reati più gravi. Inoltre questo fenomeno può interessare soprattutto i soggetti più indifesi e incapaci di esprimersi. Gli obiettivi della polizia nel suo relazionarsi alle vittime di episodi razziali Anche se ogni incidente è un caso unico e come tale va trattato, ci sono tuttavia alcuni obiettivi fondamentali che tutti gli operatori che si occupano di “episodi razziali” dovrebbero tenere presenti, al di là dell’obiettivo investigativo relativo al reato in sé: • alleviare le paure della vittima: é necessario che la polizia si renda conto pienamente delle gravi conseguenze degli episodi “razziali”; • spiegare - se la vittima non fa obiezioni - che i dettagli dell’incidente possono essere condivisi con altre istituzioni competenti in ordine al problema;

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• ottimizzare la raccolta ed analisi di dati, sfruttando anche quelli provenienti da fonti aperte (p. es. Internet) e dalla comunità e assicurando che tutta l’informazione sia inserita e consultabile in un database interforze; • migliorare la fiducia della vittima nella polizia e sviluppare i contatti con la comunità in modo da costruire una relazione fiduciaria reciproca; • sviluppare un rapporto di sostegno alle vittime in modo che si sentano tranquille nel testimoniare contro gli indagati-imputati; • raccogliere informazioni su una gamma di incidenti che esula dagli incidenti strettamente illegali per avere una prospettiva più ampia sulla natura della “vittimizzazione ripetuta”; • circoscrivere i rischi di una reiterazione dell’ “episodio razziale”; • incoraggiare gli operatori di polizia, nonostante le apparenti difficoltà o reticenze, a procedere contro un “episodio razziale” come metodo primario per combatterne l’insorgenza; • assicurare che i bisogni delle vittime e dei testimoni siano portati a conoscenza del Pubblico Ministero competente (il flusso di informazioni Polizia-Pubblico Ministero deve mantenersi costante per l’intera durata del processo); • coordinarsi con tutte le altre istituzioni ed organizzazioni esterne che hanno competenza nell’azione di sostegno alle vittime e di prevenzione in ordine alla reiterazione di episodi di questo genere.

ESEMPIO

Un giovane rom alcuni anni fa fu fermato dalla polizia per un controllo. Dopo avergli chiesto i documenti e il permesso di soggiorno, al rifiuto,fu maltrattato e insultato dagli operatori che arrivarono persino alla minaccia di ritorsione nell’ipotesi in cui si fosse lasciato “scappare” qualche particolare sull’accaduto. Il ragazzo si rivolse successivamente ad un’associazione per la difesa dei diritti delle persone immigrate che denunciò l’accaduto alla competente autorità giudiziaria. Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

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Che fare se protagonista di un episodio di discriminazione risulta essere un operatore di Polizia? Un episodio come quello sopra riportato è estremamente grave perché significa rinnegare uno degli obiettivi fondamentali della Polizia di Stato che è quello di proteggere ogni persona e di garantire l’applicazione della legge e il rispetto dei diritti fondamentali di ogni individuo. Può essere una difficoltà all’emergere di tali episodi lo spirito di corpo esistente all’interno di un servizio di polizia che potrebbe portarne gli operatori a ignorare, sottostimare o coprire determinati comportamenti posti in essere dai loro colleghi. Per fronteggiare questa eventualità due sono gli obiettivi da perseguire: • effettuare un monitoraggio interno continuo seguito da rilievi disciplinari laddove vengano individuate condotte discriminatorie operate da appartenenti alla Polizia; • sviluppare uno stile trasparente nella trattazione di segnalazioni concernenti comportamenti scorretti eventualmente assunti dagli operatori di polizia (coinvolgendo anche l’URP della Questura).

Cosa fare per identificare e contrastare la discriminazione istituzionale? La discriminazione istituzionale può essere definita così: Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente, ed in ogni aspetto, la comunità che serve, a causa delle origini “razziali” o etniche, della religione o credo, orientamento sessuale, età, disabilità o genere di alcuni membri di quella comunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei comportamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario, ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri di una comunità. Può verificarsi nel fallimento a fornire un servizio appropriato e professionale a tutti i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianza di opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un organizzazione dipendente. Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazione, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore di discriminazione nell’organizzazione (o “istituzione”).

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Questa definizione è basata su quella contenuta nell’inchiesta McPherson (Gran Bretagna, 1997-99). Questo tipo di discriminazione può essere difficilmente identificato e spesso richiede l’aiuto di consulenti specializzati esterni. In ogni caso, è necessario controllare se le procedure, i flussi di comunicazione, la cultura dell’istituzione stessa, garantiscono l’erogazione di un servizio equo e professionalmente adeguato a tutta la comunità che serve e a tutte le persone che ci lavorano.

3.5 - Che fare Il rapporto che si instaura con la vittima di un caso di razzismo deve tener conto dei seguenti elementi: • soddisfare quanto più rapidamente possibile i bisogni della vittima, cominciando dalla necessità di avere una presenza immediata della polizia fino all’ottenimento da parte di essa di una risposta attiva che sia umana e di comprensione; • le prime impressioni sono importanti. Sarà fondamentale, sin dall’inizio, dimostrare empatia e rispetto verso la vittima. Questo atteggiamento rientra a pieno titolo nella professionalità dell’operatore di polizia fondata, prima che sul saper fare, sul saper essere. Il rapporto di empatia dovrà essere mantenuto nel tempo e reso oggetto di monitoraggio costante; • fiducia e confidenza possono essere sviluppate se si dimostra quanto seriamente la polizia considera l’episodio razziale. L’iter investigativo va dunque opportunamente illustrato alla vittima sin dall’inizio facendo quanto è necessario perché quest’ultima si senta coinvolta attivamente e seriamente considerata; • é indispensabile, pertanto, ascoltare le opinioni della vittima e agire di conseguenza, così rinforzando il senso di coinvolgimento e di fiducia di quest’ultima verso la polizia. La trasparenza nell’approccio e il coinvolgimento di organizzazioni esterne saranno anch’esse di aiuto; • con un atteggiamento sensibile e professionale è possibile documentare gli episodi razziali attraverso verbali estremamente det-

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• • •

tagliati, idonei a fornire fonti di prova importanti per l’accertamento in sede penale e per la rilevazione del reale impatto dei casi di razzismo; le opinioni della vittima rispetto al procedimento legale sono molto importanti (per esempio in ordine alla disponibilità della stessa a testimoniare). La polizia dovrà mantenere un coordinamento continuo con l’Ufficio del P.M. competente curando, ove possibile, di farsi delegare le comunicazioni con le vittime con le quali ha costruito un rapporto fiduciario; é indispensabile approntare dei modelli di servizio chiari relativi alle performance della polizia nei casi di intervento su episodi di discriminazione. Ad esempio può considerarsi un risultato positivo di azione che sia stato tratto in arresto l’autore di un reato razziale o che la situazione non si ripeta entro un certo lasso di tempo (da quantificare) dopo l’intervento della polizia. Qualunque tipo di risultato difforme dagli standard in tal senso approntati verrebbe considerato come negativo; il monitoraggio continuo e la valutazione dell’indagine garantiranno il raggiungimento e il mantenimento degli standard. La risposta della Polizia deve rimanere sempre positiva ed efficace, adeguandosi ai bisogni della vittima e alla loro evoluzione nel tempo; qualunque sia la dimensione dell’indagine, è consigliabile che la vittima abbia un referente unico nella polizia con il quale si sente maggiormente a proprio agio; la polizia può assurgere a punto di riferimento di tutte le comunità ed organizzazioni locali idonee a fornire supporto nello specifico ambito. Questo approccio integrato alle problematiche dell’ episodio razziale è in grado di fornire alla vittima il migliore supporto possibile; gli operatori impegnati nel settore della prevenzione hanno un ruolo chiave nell’assistere e consigliare le vittime; laddove le circostanze lo richiedono, dovrà essere approntato un adeguato programma di protezione dei testimoni; sarebbe opportuno formare in maniera specifica degli operatori di polizia incaricati di mantenere il rapporto con la vittima del caso di razzismo e con il suo nucleo familiare;

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• tutti i contatti con la vittima, siano essi personali, telefonici o postali, debbono essere documentati negli atti di indagine; • sarebbe opportuno approntare un opuscolo illustrativo sul servizio erogato dalla polizia a vantaggio delle vittime dei casi di razzismo e di discriminazione in genere; • ogni volta che ciò sia possibile, avvalersi dell’apporto collaborativo dei mediatori culturali; • pianificare una “strategia di uscita” che lasci la vittima e la famiglia soddisfatte dello svolgimento dell’indagine e dell’appoggio fornito.

3.6 - Standard minimi per la registrazione di episodi razziali È indispensabile per l’attività di accertamento di un caso di razzismo registrare il fattore in base al quale è avvenuta la discriminazione. I fattori di discriminazione possono essere molteplici: alla classica discriminazione basata su aspetti fisionomici (colore della pelle, forma degli occhi, ecc.), si è affiancata la discriminazione basata sull’essere espressione reale o presunta di una data cultura (ad es. nomade) ed ancora sull’appartenenza effettiva o ritenuta tale ad un determinato gruppo etnico (ad es. Rom) o religioso (ad es. musulmano, ebreo ecc.). Chiaramente questi fattori non sono scissi l’uno dall’altro, per cui il credo religioso può essere ad un tempo percepito anche come fattore culturale (ad esempio, si parla spesso impropriamente della cultura musulmana piuttosto che della religione musulmana). Sebbene siamo consapevoli della complessità della situazione, sappiamo però che, se non si riesce a identificare e registrare sui sistemi informatici di intelligence il discriminante di ciascun episodio, non avremo materiale su cui lavorare: come indagare, per esempio, sulla matrice antisemita di un reato se non si riconosce l’appartenenza reale o presunta della vittima alla religione ebraica? È poi da notare che non sempre la cittadinanza della vittima è sufficiente a rilevare l’origine della discriminazione, perché molti figli di immigrati hanno, e sempre più spesso avranno, la cittadinanza italiana ma il colore della pelle e altri tratti somatici che ne rivelano, in apparenza, una provenienza diversa.

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L’operatore di polizia che riceve la denuncia dovrebbe quindi potere raccogliere queste informazioni minime fondamentali sulla vittima: • il nome completo della persona che presenta la denuncia; • l’indirizzo; • la data di nascita; • il sesso; • la religione, sulla base di una lista delle principali religioni praticate dai gruppi presenti sul territorio, preventivamente predisposta dalla Polizia insieme con le comunità religiose. Dove la religione dichiarata non fosse tra quelle previste nell’elenco occorrerebbe definirla in uno spazio apposito; • il gruppo etnico di appartenenza, sulla base di una lista di principali gruppi etnici e nazionali presenti sul territorio, preventivamente predisposta dalla polizia insieme con le comunità oppure il gruppo etnico dichiarato dalla persona nel caso che esso non sia ricompreso tra quelli figuranti nell’elenco; • occupazione; • anni di scolarità; • la madrelingua ed eventuali altre lingue conosciute; • se è stata vittima di altri incidenti negli ultimi dodici mesi; • se gli altri incidenti sono stati denunciati o segnalati.10 Se la denuncia è fatta da persona diversa dalla vittima, si devono registrare per questa persona gli stessi dati richiesti alla vittima e la relazione che li lega. È bene inoltre raccogliere almeno questi ulteriori dati sul tipo d’incidente: • specificare il tipo di evento, sia nel caso che si tratti di un reato, sia che non si tratti di reato; • se non si tratta di un crimine, descrivere in dettaglio i fatti; • descrivere il luogo dove sono avvenuti i fatti, ad esempio abitazione, luogo di culto, strada, posto di lavoro, trasporto pubblico, ecc.

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note 1

Si tratta del caso Stephen Lawrence, un giovane nero che fu ucciso alla fermata di un autobus una notte del 1993 a Londra. Quando la polizia arrivò sul luogo del delitto trovò il cadavere di Stephen e il suo amico, pure nero, ferito. La conclusione alla quale la polizia arrivò rapidamente fu che si trattasse di un “regolamento di conti tra due neri”. Le famiglie dei ragazzi non si arresero, furono trovati i veri autori dell’assassinio che, come aveva sempre riferito l’amico della vittima, risultarono essere un gruppo di giovani bianchi. Per indagare sull’episodio fu creata la commissione parlamentare McPherson che concluse i propri lavori con l’affermazione che la polizia di Londra era evidentemente razzista e con una serie lunghissima di raccomandazioni. Oggi le conclusioni di quella commissione costituiscono un punto di riferimento fondamentale per chi voglia combattere il razzismo e, in particolare, la discriminazione perpetrata dalle organizzazioni.

2

Adattato da Thompson N., Promoting Equality – Challenging discrimination and oppression in the human services, Londra, Macmillan, 1998.

3

Ciò non esclude comunque l’azienda di trasporti dalla propria responsabilità vicaria.

4

Essed P., Understanding everyday racism, 1991.

5

Lévi-Strauss C., Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino, 1968.

6

Commissione per l’integrazione, Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2000.

7

D.L. 26 aprile 1993, n. 122 (G.U. 27-4-1993, n. 97) conv., con modif., in L. 25 giugno 1993, n. 205 (G.U. 26-6-1993, n. 148). – Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa. 1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

8

Art. 43 Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (L. 6-3-1998, n. 40, art. 41) 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

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In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità. 9

Polvi et al, 1990, Repeat break-and-enter victimisation, Once bitten, twice bitten, Farrell and Pease, 1993.

10

Siccome, come abbiamo più volte segnalato, i casi di razzismo sono molto sotto-rappresentati, chi raccoglie la denuncia deve indagare ogni possibile precedente al fine di accumulare informazioni per il lavoro di intelligence.

6 1 - Un capitolo speciale Sebbene alla stesura di questo manuale abbiano contribuito, sin dal suo primo concepimento, persone di origine etnica minoritaria – e per questo esse stesse a rischio di discriminazione – abbiamo deciso che fosse opportuno riservare loro l’ultima parola. Demir Mustafa e Tso Chung-Kuen hanno cercato di raccogliere in questo breve capitolo una serie di loro speranze e desideri sul comportamento delle forze dell’ordine italiane nei confronti della popolazione immigrata. Istanze che, pur riprendendo per certi aspetti tematiche già trattate altrove nel manuale, sono presentate qui come una sorta di lista di riferimento, o codice di condotta, per gli operatori di polizia che volessero adoperarsi in tal senso per ragioni di giustizia ed eticità ma non da ultimo anche per migliorare l’efficacia del proprio lavoro, nel rispetto delle minoranze e dei loro diritti. La scelta degli autori è stata quella di presentare, accanto alla lista di riferimento “come vorremmo che i poliziotti agissero”, un breve approfondimento sulla storia delle comunità rom e cinese in Italia, perché è anche attraverso la loro ricostruzione e la loro memoria delle migrazioni che si possono capire le necessità, le aspirazioni, i drammi e le speranze di popoli in movimento, a volte per scelta, più spesso per costrizione. Ognuno si è espresso con il proprio sentire, stile e conoscenza. La scelta di parlare, tra le tante, delle comunità rom e cinese, come d’altra parte l’avere inserito nel gruppo di redazione del manuale una persona rom e una persona cinese, risponde al deliberato obiettivo di COSPE e della Polizia di Stato di dare voce ai gruppi più inascoltati.

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2 - L’Italia in movimento L’Italia è un Paese che da più di due decenni ha spalancato le sue porte agli immigrati. Era, prima degli anni ’80, un luogo di emigrazione piuttosto che di immigrazione, a differenza di altri Paesi europei come la Gran Bretagna, l’Olanda, la Germania, la Francia e altri. In quelle nazioni la cultura di immigrazione è cominciata molti anni prima, sia per la presenza numericamente forte di persone di origine etnica minoritaria, sia per la diversità di appartenenze etno-culturali. Il drammatico cambiamento della situazione politica, economica e sociale in Paesi europei non appartenenti all’UE e in altri continenti ha causato nel passato recente ondate d’immigrazione di massa verso l’Europa comunitaria, fatto nuovo, in particolare verso il Sud dell’Europa e l’Italia. I governi per lo più non hanno affrontato questo fenomeno in modo efficace e competente e ancora oggi mancano leggi, sistemi, programmi e personale adeguato alla preparazione dell’accoglienza degli immigrati e alla loro piena integrazione nella società di arrivo. Il continuo cambiamento del quadro politico che è sfociato in diverse leggi sull’immigrazione, cominciando dalla Legge Martelli (1990), per finire con la Legge Bossi-Fini (2002), non ha migliorato la funzionalità dei servizi d’accoglienza ma, al contrario, ha peggiorato un quadro che sempre più produce stereotipi, pregiudizio etno-culturale e discriminazione. Il servizio di polizia non è sfuggito a questa tendenza e la necessità di agire in un contesto dove sono presenti nuove realtà culturali e religiose senza un’adeguata preparazione ha portato gli operatori di polizia a commettere, volontariamente o no, molti errori e ingiustizie nei confronti degli immigrati. I capitoli precedenti raccolgono una messe di materiali, informazioni e analisi utili per migliorare questa situazione e contribuire a preparare operatori di polizia capaci di lavorare con efficacia e professionalità in società multiculturali e nel rispetto delle diverse identità di ognuno. Proprio partendo da quanto scritto sinora, noi qui vogliamo delineare il profilo del poliziotto ideale dal punto di vista dell’immigrato.

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3 - Come vorremmo che fosse l’operatore di polizia > Una figura protettiva, non oppressiva. Il poliziotto deve essere la persona che protegge l’immigrato da ogni tipo di discriminazione e non solo la persona che ne controlla la presenza regolare sul suolo italiano. > Con una conoscenza di base sulle differenze culturali e religiose. La polizia deve fornirsi di un’adeguata documentazione per la preparazione del poliziotto nell’affrontare la diversità culturale, etnica e religiosa. > Rispettoso delle differenze linguistico-culturali, delle religioni e delle tradizioni degli immigrati. La conoscenza di base aiuta il poliziotto a rispettare la diversità culturale e la religione nel modo giusto. > Paziente nei confronti degli immigrati, specialmente quelli che non parlano l’italiano. La provenienza degli immigrati da Paesi diversi comporta inevitabili difficoltà di apprendimento della lingua italiana, a causa del sistema linguistico-culturale diverso. > Che parli lentamente e in modo chiaro, usando parole semplici ed evitando espressioni dialettali con le persone che non capiscono bene l’italiano. > Rispettoso dei diritti civili degli immigrati, senza abusare del proprio potere di poliziotto. > Gentile con gli immigrati, specialmente in presenza di bambini. Il comportamento non adeguato del poliziotto davanti ai bambini può influire negativamente sulla loro crescita psicologica. > Rispettoso della persona immigrata così come è rispettoso di un cittadino italiano. > Capace di spiegare bene all’immigrato i suoi diritti in ogni situazione. A questo si deve aggiungere la disponibilità di un interprete in caso di incomprensioni, elemento riferibile al servizio di polizia piuttosto che direttamente al singolo operatore.

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3.1 - Diritti e doveri È giusto che gli immigrati pretendano il rispetto dei propri diritti ma è anche giusto che rispettino i propri doveri. Innanzitutto, l’immigrato appartenente alle diverse comunità deve avere una rete di comunicazione e informazione sulle leggi e i decreti da rispettare. Questi canali possono essere di natura pubblica, come gli uffici immigrazione dei quartieri, dei comuni e delle questure, le camere di commercio, le prefetture, le ASL ma anche le associazioni delle stesse comunità, ONG, sindacati, ecc. Gli immigrati, con la chiara consapevolezza di dovere rispettare le leggi, devono organizzarsi per la diffusione di queste informazioni tramite persone preparate adeguatamente (per esempio, i mediatori linguisticoculturali), con volantini, manuali e giornali bilingue. Per costruire un ponte di comunicazione fra le comunità immigrate e le strutture pubbliche per un migliore rispetto dei doveri, le associazioni, o i rappresentanti delle comunità immigrate, devono avere, o dovranno chiedere, incontri periodici con la rappresentanza della questura o dello stesso questore, dove possono informare ed essere informati e risolvere i casi più clamorosi sulla documentazione e regolarizzazione degli immigrati stessi e sui casi di discriminazione.

3.2 - Prospettive per la partecipazione delle comunità minoritarie al corpo di polizia italiano Sappiamo che la Carta di Rotterdam e la politica di molte polizie europee (per esempio quella olandese) dicono che la polizia dovrebbe essere lo specchio della società, cioè rappresentare al suo interno le tante diversità presenti nella società. Noi pensiamo che ciò sarebbe bello, le persone di origine etnica minoritaria potrebbero essere dunque rappresentate anche nelle forze dell’ordine, riconoscersi in esse più facilmente e si darebbe un segnale forte di integrazione alla società nel suo insieme. Tuttavia pensiamo che oggi in Italia numerosi ostacoli di diverso ordine impediscono che ciò avvenga.

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Innanzitutto, sotto l’aspetto legale, esiste l’ostacolo della cittadinanza italiana che è richiesta per esercitare quella professione al servizio dello Stato e oggi sono poche in Italia le persone di origine etnica minoritaria che possiedono la cittadinanza italiana. In fondo però, se ci fosse una volontà politica chiara, questo ostacolo potrebbe essere superato eliminando, per esempio come hanno fatto alcuni Lander tedeschi, il requisito della cittadinanza per essere ammessi nelle forze di polizia. Siamo convinti però che esistono anche altri ostacoli che attengono a un diverso ambito. Nella nostra opinione, avere un operatore di polizia di origine etnica minoritaria dipende da diverse situazioni fondamentali, in particolare il livello d’integrazione nella società italiana e l’immagine positiva o negativa della polizia. Se prendiamo ad esempio la comunità rom essa è molto, molto lontana da questa prospettiva, anche se il desiderio, in sé, esisterebbe. Questa prospettiva è ancora lontana perché, a nostro avviso: > non è ancora sufficiente l’inserimento dei rom nella società italiana; basta vedere i campi nomadi nei quali vivono i rom e la segregazione che essi comportano; > mancanza di documenti per diversi motivi (per esempio, per i ricongiungimenti familiari, per matrimoni precoci non registrati, per la provenienza da Paesi in guerra) e purtroppo il fatto che molti rom siano italiani non li libera dal rischio di discriminazione; > la persistenza di forti pregiudizi nei confronti dei rom; > l’inadeguato livello di studio e scolarizzazione. Solo dopo un inserimento effettivo nella società italiana si potrà prendere in considerazione l’inserimento di persone rom nella polizia. In altri Paesi, dove i rom vivono da molti anni, essi partecipano pienamente alla vita sociale, professionale e politica. Nei Paesi europei non appartenenti all’UE, i rom sono riusciti ad avere un riconoscimento nelle costituzioni come minoranza linguistico-culturale e questo ha permesso loro di partecipare attivamente alla vita di quel Paese. Nella UE invece i rom ancora si organizzano come associazioni o rappresentanti delle varie comunità e non riescono ad essere riconosciuti come portatori di diritti. Per quanto riguarda la comunità cinese in Italia essa è una comunità abbastanza autosufficiente e omogenea perché quasi al 90% proviene dalla stessa provincia di Zhejang. È diffusa tra i cinesi una forte tradizione

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culturale e un forte senso di indipendenza dalla società ospitante. I cinesi provano sempre di risolvere i loro problemi all’interno della propria comunità e solo nel momento in cui appare impossibile trovare una soluzione nell’ambito dell’associazione o del gruppo tentano la via del ricorso all’autorità italiana. Comunque, nelle comunità che conosciamo, i rapporti fra le comunità cinesi e gli enti pubblici sono quasi sempre tenuti, soprattutto per ragioni di competenza linguistica, dal rappresentante delle varie associazioni cinesi mentre manca un diretto rapporto di fiducia tra l’amministrazione italiana e i singoli immigrati. Fino ad ora l’immagine dei poliziotti italiani per gli immigrati cinesi è negativa ed è sempre considerata come una figura oppressiva. Qualunque cinese che collabori con la polizia perde la fiducia dei connazionali e diventa una spia ai loro occhi, tutti cercheranno di allontanarsi da lui e di isolarlo. Questo succede presso tutti i gruppi di cinesi, anche quelli – e sono i più – che non avrebbero nulla da temere dalle forze dell’ordine. Purtroppo, come abbiamo spiegato altrove nel manuale, i rapporti tra i due gruppi sono talmente deteriorati che è necessario un grande impegno da parte di tutti per superare questo problema. Se non cambia quest’impressione sulla polizia non si può pensare che un cinese diventi un poliziotto e, anche se ciò avvenisse, non sarebbe dal punto di vista della comunità cinese un fatto positivo perché egli/ella sarebbe visto come “oppressore”, perché poliziotto e “spia” e perché poliziotto cinese. Fino a che le cose non cambieranno non si può sperare che un cinese voglia diventare poliziotto allontanandosi così dalla propria comunità. Siamo però convinti che degli operatori di polizia ben preparati, capaci di agire con professionalità, consapevoli del rispetto e della gentilezza che è dovuta agli altri, anche quando questi altri sono di origine etnica minoritaria, saranno un potente fattore di cambiamento.

4 - Approfondimento sulle comunità rom in Italia La situazione dei rom in Italia é stata sempre precaria e i rom sono sempre stati oggetto di discriminazione, sebbene essi siano da secoli in questo Paese, accampandosi sempre nei cosiddetti “campi nomadi”, oppure “campi di sosta”, che erano inizialmente creati da loro stessi, con le roulot-

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te e qualche baracca. Tradizionalmente essi svolgevano lavori d’artigianato come lavorazioni del rame, produzione di pentole e altri piccoli mestieri come ombrellai e arrotini. Le donne andavano in giro a prevedere il futuro, leggendo le mani alle persone oppure i fondi di caffè. Ricordate quante volte ci veniva il desiderio di farci leggere il futuro dalla zingara? Oggi però non possiamo dire che questi mestieri sono utili per una sopravvivenza. Per lo più i rom passavano inosservati, soprattutto quando andavano nei piccoli paesi a vendere oppure a offrire i loro lavori di artigianato. Certe volte invece destavano scalpore per cose in fondo banali, come quando passavano i bambini mal vestiti o la zingara si portava dietro i piccoli sporchi e scalzi oppure i bambini tentavano piccoli furti. Tutto ciò finiva magari nelle prime pagine dei giornali locali. È chiaro che i mass media hanno avuto quasi sempre un ruolo fondamentale nel creare e diffondere un’immagine negativa degli zingari. Alcuni gruppi rom sono in Italia da più di sei secoli e perciò hanno già dimenticato la cultura dei loro Paesi di partenza (Macedonia, per esempio) ma non dimenticano la cultura e la lingua dei loro padri, romanes, così come la cultura dei loro antenati, cioè le feste, le tradizioni, le usanze. Il fenomeno del nomadismo ha sempre creato turbamento fra la gente comune, e questo in tutte le culture, soprattutto per una società che non ha l’abitudine di spostarsi da un Paese all’altro come fa gran parte dei rom (o zingari e nomadi, come vengono generalmente chiamati i rom in Italia). Il termine “nomadi” ha due facce: quella di un mestiere legato a giostrai e luna park e quella di un nomade senza fissa dimora che provoca paura nella gente comune e rappresenta un problema ingestibile per le forze dell’ordine e per le istituzioni comunali. “Zingaro” é un’espressione antica, con una forte connotazione negativa che purtroppo i rom si portano addosso da secoli, perché nomadi, perché si spostano sempre, perché legati alla storia antica quando, ancora nell’impero Bizantino, si dicevano dediti alle magie nere. In realtà erano cartomanti, prevedevano il futuro leggendo la mano o i fondi del caffè, mestieri che oggi sono svolti dagli italiani o da altri stranieri. La parola zingaro proviene dal termine greco atinganoe – atingani che vuol dire “intoccabili”, da non confondere con gli “intoccabili” (paria) dell’India, sebbene le ultime ricerche in campo antropologico confermino le loro origini indiane. Rom é la parola con la quale questo popolo definisce se stesso e ha un significato duplice: uomo e marito.

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L’8 aprile del 1971 a Londra si tenne la prima conferenza mondiale con tutti i rappresentanti rom in provenienza dai diversi Stati europei. Fu deciso allora che quella ricorrenza sarebbe diventata il giorno internazionale rom che si festeggia ogni anno (Romani Union). Fu decisa la bandiera bicolore blu (che rappresenta il cielo) e verde (che rappresenta la terra) e in mezzo la ruota del carro che rappresenta il viaggio dall’Oriente verso l’occidente. Fu anche scelto l’inno rom (gelem, gelem= ho camminato, ho camminato) e fu deciso che i rom sono un popolo unico, senza uno stato e senza divisioni etniche. Il popolo rom è un popolo che non ha mai fatto guerre ma le ha sempre subite e dalle quali è spesso stato in fuga. Anche recentemente sono arrivati rom dall’area dei Balcani e dell’ex Jugoslavia, dapprima per ragioni economiche e poi in fuga dalle guerre che hanno colpito l’ex Jugoslavia (Bosnia e Herzegovina nel 1991 e quella in Kosovo con il bombardamento della NATO nel 1999). Sono costretti alla fuga e a cercare altrove un rifugio dove possono vivere una vita tranquilla, senza guerre e senza discriminazioni razziali e/o etnico culturali, senza pulizie etniche. Arrivati in Italia, sono immediatamente spediti presso i “campi nomadi” dove gli stessi rom italiani (tra questi sono chiamati sinti coloro che arrivarono in Italia via terra, attraverso i Paesi est europei) sono segregati in una condizione già di per sé discriminatoria, emarginata, esclusa dalla maggior parte della gente intorno. È chiaro che i rom Balcani non conoscono il fenomeno dei “campi nomadi”, creato e voluto dalle Istituzioni comunali e regionali, con specifiche leggi e decreti, e che oggi comportano piuttosto un nuovo disagio e un problema per quelle stesse Istituzioni. Perciò quando si inseriscono in un campo nomade non sono accettati immediatamente bene da chi vive lì intorno (gli stanziali) e non riescono a trovare un lavoro, meno che mai un lavoro regolare, cadendo così facilmente preda delle offerte della malavita. Questo comporta avere problemi quotidiani con la polizia e i carabinieri, insomma con la giustizia. Molti rom affermano che la polizia però non perde occasione per maltrattarli, offenderli, umiliarli, fermandoli alcune volte anche per banalità oppure per chiedere i documenti e fare accertamenti, trattenendoli anche per ore.

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ESEMPIO

Dopo una preghiera al campo, un rom prende il figlio già addormentato, lo mette in macchina e si dirige verso casa, un normale appartamento del comune. Viene fermato da una volante della polizia che dopo un quarto d’ora è raggiunta, nel posto di controllo, da altre due volanti, ciascuna con due poliziotti a bordo. L’auto è perquisita mentre uno dei poliziotti interroga il rom chiedendogli chi sia, dove abiti, quale lavoro svolga, se ha il permesso di soggiorno regolare, se ha subito condanne in Italia ecc. Chiedendosi il motivo di tanta attenzione, il rom risponde di essere “regolare”, di avere il permesso di soggiorno e un lavoro retribuito. Un secondo poliziotto, rivolgendosi al suo collega, dice: “io li rimanderei tutti a casa loro questi zingari”. Alla domanda del rom: “perché scusi?” il poliziotto reagisce bruscamente continuando a perquisire l’auto, nonostante le rassicurazioni fornite e nonostante il bambino dorma sul sedile posteriore della macchina. Dopo quarantacinque minuti di controllo, avendo trovato due pezzi di legno di venticinque centimetri legati fra di loro con una catena, gli operatori procedono a denunciare il rom per porto d’armi abusivo. Il nostro rom sarà poi assolto in Tribunale. Testimonianza di un rappresentante della comunità rom

ESEMPIO

I rom, avendo spesso una famiglia numerosa composta da genitori, figli, figli sposati, nipoti ecc. sono costretti anche a chiedere la carità per mantenere la famiglia. Un rom con la moglie e due figli minori chiedeva l’elemosina in un paese. Dopo circa un’ora, scattato l’allarme per furto in appartamento ad opera di soggetti non identificati, tutta la famiglia si vedeva raggiunta da una pattuglia della Polizia che procedeva al suo accompagnamento per identificazione presso il locale Commissariato. Senza alcuna domanda, né spiegazione, il capofamiglia veniva perquisito intimandosi a lui di consegnare la refurtiva. Dopo quattro ore di attesa nella stazione di polizia e tutte le relative indagini e confronti, si constatava che non era stata la famiglia rom a rubare. Ciononostante tutti venivano rilasciati dal Commissariato senza nemmeno un cenno di scusa. Testimonianza di un rappresentante della comunità rom

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5 - Approfondimento sulle comunità cinesi in Italia Per tracciare una breve storia dell’immigrazione cinese in Europa si deve risalire alla prima guerra mondiale: prima di allora non esistevano immigrati veri e propri ma soprattutto studenti nelle università europee che tornavano sempre in Cina al termine dei loro studi. Quando scoppiò la prima guerra mondiale, la Cina - che faceva parte dell’alleanza Italia, Francia, Inghilterra contro Germania, Austria, Turchia invece di mandare soldati mandò dei lavoratori per aiutare a costruire le strutture difensive. Qualcuno di questi lavoratori rimase in Europa al termine della guerra, principalmente in Francia, Olanda, Inghilterra, alcuni rimasero anche in Italia. Poiché si trattava di poche persone non facevano notizia e si notavano poco. Questi immigrati erano tutti giovani maschi singoli e non esisteva il problema del ricongiungimento familiare, molti di loro infatti si sposarono con donne locali. Si trattava soprattutto, come dicevamo, di uomini provenienti dalla provincia di Zhejang e tuttora il 90% degli immigrati cinesi in Italia proviene da quella provincia. La seconda onda di immigrazione cinese verso l’Europa avvenne dopo la seconda guerra mondiale, allo scoppiare della guerra civile in Cina tra nazionalisti e comunisti. Molti commercianti e industriali scapparono dalla guerra, spesso facendo sosta a Hong Kong per poi proseguire verso Stati Uniti ed Europa, compresa l’Italia. L’attività degli immigrati cinesi in Europa in quel periodo e per molti anni a venire fu quasi esclusivamente la ristorazione. Negli anni ’70 arrivarono i rifugiati vietnamiti (boat people) che erano però per lo più di origine cinese ed ancora in numero limitato. Nei primi anni ’80 cambiò la politica della Cina con l’apertura verso l’occidente e si permise ai cittadini cinesi che avevano parenti all’estero di raggiungerli. Chi viveva già in Italia cercò quindi di farsi raggiungere dai propri parenti. Con il fallimento e la privatizzazione delle imprese statali in Cina emerse il fenomeno della disoccupazione, specialmente nelle zone rurali e montagnose. La differenza tra il livello di vita nelle città e nelle campagne si acuì e i contadini ebbero sempre più difficoltà a sopravvivere. Molti abbandonarono la loro terra per cercare lavoro in città e quelli che

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avevano parenti in Europa cercarono di fuggire dalla Cina per trovare fortuna all’estero. È proprio questo insieme di condizioni che causarono un’ondata d’immigrazione clandestina dalla Cina verso altri Paesi nel mondo, non solo l’Europa. In maggioranza dunque, i più recenti immigrati cinesi provengono dalla campagna, il loro livello di studi è molto basso e anche i cinesi delle città li tengono ai margini perché ignoranti, sia per ragioni culturali, sia perché ignari della vita urbana e moderna. È facile immaginare dunque lo shock che subiscono quando arrivano in Paesi così diversi anche culturalmente e linguisticamente. Tutte queste ragioni contribuiscono alla difficoltà di un’integrazione dei cinesi nella società italiana, anche se i contadini cinesi hanno reputazione di essere molto forti e capaci di sopravvivere ad ogni disastro, sono grandi lavoratori e finalmente, in queste nuove terre, intravedono la speranza di accumulare capitale e diventare un giorno benestanti. La sostanziale omogeneità della provenienza fa sì che essi si associano molto tra persone provenienti dagli stessi villaggi, per mutua solidarietà. Un fenomeno questo che non si presenta allo stesso modo in altri Paesi europei dove pure la presenza cinese è alta. Infine, negli anni ’90 sono arrivati in Italia immigrati cinesi da un’altra provincia, il Fujian. È una provincia costiera e generalmente le persone hanno un livello di scolarizzazione più alto. C’è anche un interesse e una volontà di esplodere in altri campi di lavoro, non più come succedeva per gli immigrati delle prime generazioni che tendevano a ripetere le occupazioni dei loro connazionali. Nascono così altri mestieri, come per esempio quello delle confezioni; tuttavia l’entità di queste attività è di molto inferiore a quelle complessivamente svolte dai cinesi oggi in Italia.

appendici A - Società pluraliste e multiculturali: come ci siamo arrivati

L’Europa che attrae È vero che l’Europa è sempre stata multietnica, esistono infatti in diversi Paesi delle stabili minoranze etniche (come, per esempio, ebrei e rom) alcune delle quali spesso rivendicano una base territoriale. È però altrettanto vero che è stato nel periodo postbellico che l’Europa ha conosciuto un’importante ondata migratoria di lavoratori e delle loro famiglie, non solo dal Sud dell’Europa e dal Mediterraneo ma anche dalle ex colonie. Si conviene ormai a livello internazionale di raggruppare le cause delle nuove migrazioni in fattori di espulsione (push factors) e fattori di attrazione (pull factors) che sempre coesistono in varia misura.

Fattori di espulsione La popolazione mondiale è aumentata ma soprattutto è aumentata nei Paesi del sottosviluppo (ad un ritmo 2,5 volte più rapido del primo mondo), in particolare grazie alla diminuzione cospicua del tasso di mortalità (maggiore igiene, profilassi delle malattie infettive, vaccini, cure più efficaci), per quanto in molti Paesi in via di sviluppo (PVS) esso permanga

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ancora molto alto, e per il migliorato tenore di vita in alcuni di questi territori. Tuttavia ancora non è diminuito il tasso di natalità. È un fenomeno che anche l’Europa ha conosciuto nel secolo che va dalla metà del 1800 a poco prima della metà del 1900: è il cosiddetto periodo della transizione demografica. Inoltre, mentre la popolazione dei Paesi del Sud del mondo diventa sempre più giovane, quella dei Paesi sviluppati invecchia perché si allunga la speranza di vita alla nascita e si fanno sempre meno figli. È evidente che ciò comporta nei Paesi sviluppati una preoccupante contrazione relativa della popolazione in età produttiva, mentre nel cosiddetto Terzo Mondo aumenta a dismisura l’esercito di riserva dei disoccupati e questo non può che determinare una forte spinta all’emigrazione. La pressione demografica tuttavia non è il solo fattore. Contemporaneamente sono peggiorate le condizioni di vita di una gran parte della popolazione dei PVS : l’80% delle ricchezze nel mondo è raggruppato nelle mani del 20% della popolazione. C’è quindi una coincidenza tra Paesi di emigranti e Paesi che appartengono alla fascia di più basso reddito pro capite annuo. È questo il risultato di un processo di sviluppo (ma che sviluppo?) che condanna all’emarginazione intere regioni del mondo. Un caotico processo di urbanizzazione abbandonato all’azione di forze spontanee (New York e Londra nel 1950 erano le città più popolose al mondo mentre oggi Londra non figura nemmeno più nelle prime venti tra le quali invece sono Città del Messico, San Paolo, Il Cairo e Bombay) provoca un ulteriore degrado dell’ambiente, il tracollo dei trasporti e dei servizi e un generale e ulteriore deterioramento di già precarie condizioni di vita che ingenerano gravi fenomeni di aggressività e violenza. A ciò si aggiunga la corruzione diffusa e la repressione attuata da alcuni Paesi del Sud (ma non solo, si pensi ai regimi militari e dittatoriali di un recentissimo passato di Stati come Grecia, Turchia e Polonia), e poi le guerre civili, gli scontri tra fazioni, i conflitti più o meno mascherati da conflitti etnici e razziali (Ruanda e Burundi, Sri Lanka, ex Yugoslavia). Infine i fattori di carattere ecologico, solo apparentemente naturali, come la siccità e la progressiva desertificazione del Sahel così come di altre zone dell’Africa australe e boreale (Etiopia, Capo Verde, Malawi, ecc.) coniugata ad uno sfruttamento economico irrazionale delle monoculture imposte dai regimi coloniali.

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Fattori di attrazione Accanto ai fattori di espulsione si riconosce l’azione dei fattori di attrazione dei Paesi di accoglienza delle migrazioni. Primo fra tutti il differente livello retributivo tra i Paesi poveri e i Paesi occidentali cosiddetti sviluppati e le incomparabili offerte lavorative. Basti pensare alle aree fortemente industrializzate del Nord dell’Italia, oggi in crisi per necessità di manodopera ad alta flessibilità e basso costo, disponibile anche per attività pericolose e nocive e prestazioni anomale per orari e ritmi, che non si riesce a recuperare sul mercato interno. Aggiungiamo anche di una manodopera altamente ricattabile quale quella che deve fare i conti con la “clandestinità” e che può dunque essere facilmente tenuta nell’illegalità, nel sommerso, insomma nel lavoro nero. Con gli operatori di questi comparti, del resto, buona parte dei lavoratori stranieri sono spesso conniventi non solo per necessità ma anche perché tendono a monetizzare in proprio una parte degli oneri evasi che diventano rimesse. Infatti, spesso il progetto migratorio prevede di realizzare il maggior risparmio nel minor tempo possibile e certamente è più disposto a lavorare chi vive lontano dalla propria famiglia, in un ambiente che, piuttosto che estraneo, è ostile. Ci sono però anche fattori di carattere culturale che determinano un’attrazione verso l’occidente: la diffusione dei modelli di vita occidentale sempre più veicolati dalle facili comunicazioni d’oggi, l’effetto di una globalizzazione che tende a massificare valori ed orientamenti (unica forza di contrasto a livello internazionale, non dimentichiamolo, sono oggi certe forme di integralismo islamico). Per più secoli però il flusso dei movimenti andava da un’Europa povera e sovrappopolata verso i nuovi mondi da valorizzare che furono quindi oggetto di una rapida conquista e di una lunga dominazione coloniale. Si calcola che solo fra il 1840 e il 1940 si siano definitivamente trasferiti oltremare cinquanta milioni di europei. Gli italiani diedero un cospicuo contributo a questi spostamenti tanto che si calcola oggi che i discendenti di italiani all’estero siano cinquantotto milioni, una popolazione dunque più numerosa di quella residente sul territorio nazionale. È però dal 1950 che il saldo migratorio tra l’Europa e il resto del mondo si fa positivo perché l’Europa comincia ad avere bisogno di manodopera e la importa dai Paesi del Terzo Mondo (termine coniato proprio in quell’epoca per designare, accanto ai due blocchi contrapposti, i Paesi

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dell’Asia, Africa e America Latina di nuova indipendenza o ancora in lotta). Contemporaneamente questi flussi interessavano sempre più anche gli USA, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, così come il Giappone e alcuni Paesi produttori di petrolio.

Le tre fasi delle migrazioni internazionali in Europa1 È consuetudine suddividere la storia delle migrazioni internazionali nell’Europa del dopoguerra in tre fasi: • la prima fase (1950-1967) della ricostruzione post-bellica; • la seconda fase (1967-1982) della crisi strutturale e della nuova divisione internazionale del lavoro; • la terza fase (dal 1982 ad oggi) della crisi dei PVS e della ripresa delle economie capitaliste. Nella prima fase (1950-1967) le migrazioni internazionali rispondono ad una reale domanda di lavoro delle aree d’immigrazione, costituite quasi esclusivamente da Paesi industrializzati dell’Europa centro-settentrionale già in precedenza importatori di manodopera e provengono per lo più dalle aree europee meno sviluppate. È l’epoca della ricostruzione post-bellica e della manodopera necessaria al suo compimento e sono proprio gli immigrati, provenienti per lo più dal bacino del Mediterraneo, che costruiscono il miracolo economico di molti di questi Paesi (Germania, Svizzera, Regno Unito, Belgio, Francia). L’Italia partecipa in questi processi solo come Paese d’emigrazione ma bisogna tenere presente che al suo interno sono presenti forti migrazioni dalle regioni del Sud verso il Nord industrializzato che risponde alle stesse logiche. In alcuni Paesi, in particolare in Germania, si sviluppa il modello del “lavoratore ospite” che considerava i lavoratori stranieri come dei migranti reclutati a termine e per dei compiti definiti, con diritti limitati e che sarebbero rientrati in patria appena avessero raggiunto i propri obiettivi con profitto sia per il Paese ospitante che per il Paese d’origine. Quest’immigrazione aveva inoltre il pregio, come nella fase attuale in Italia, di riservare agli immigrati i lavori meno graditi ma il difetto, visibile negli anni a venire, del consolidarsi di sentimenti e posizioni razziste in tutta la società ma soprattutto nelle classi lavoratrici.

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In realtà le cose andarono assai diversamente da come erano state pensate e molti degli immigrati finirono per radicarsi nel Paese d’immigrazione, divenendo quindi una componente estranea e permanente della sua popolazione. Nella seconda fase (1967-1982) le migrazioni internazionali subiscono il contraccolpo della crisi economica (la stagflazione degli anni ’70, gli aumenti del prezzo del petrolio, la fine della forza propulsiva dell’industria pesante che aveva fatto la ricostruzione economica) e delle misure di carattere amministrativo che tendono a bloccare le immigrazioni. È l’epoca in cui i Paesi industrializzati decentrano parte della produzione in Paesi poveri a causa dell’aumento del costo della manodopera e nascono così i nuovi Paesi industriali (Brasile, Iran, India, Singapore, Corea del Sud sono alcuni esempi). Tuttavia, due elementi fondamentali permangono a rendere ancora “redditizia” una certa quota di manodopera straniera: a) non tutte le attività possono essere dislocate altrove (turismo, edilizia, lavoro domestico); b) la clandestinizzazione che favorisce la flessibilità del mercato e, come abbiamo visto, la ricattabilità della stessa manodopera, con il sostanziale effetto di creare un doppio mercato del lavoro: un mercato garantito e protetto per manodopera locale e un mercato illegale e senza garanzie per la manodopera straniera. Infine, le migrazioni in realtà non si arrestano anche perché continuano ad operare i fenomeni di espulsione dai Paesi del Terzo Mondo ma diventano per lo più illegali e cominciano ad estendersi ad altri Paesi: è l’epoca in cui alla migrazione dai Paesi del Sud Europa comincia a sostituirsi quella dai Paesi extraeuropei. L’Italia in questo periodo è ancora ai margini del fenomeno e interessata alla ricerca di manodopera interna, ancora relativamente flessibile e a buon mercato. In quegli anni in Italia giungono soprattutto esuli e rifugiati politici: cileni, argentini, eritrei, palestinesi, ecc. Nella terza fase (dal 1982), le migrazioni internazionali aumentano coinvolgendo sempre più nuovi Paesi, sia come aree d’emigrazione che come aree d’approdo. Esse sono sempre meno motivate da richiesta di manodopera e sempre più dai fattori di carattere espulsivo nei Paesi di provenienza. È proprio in questi anni infatti che cominciano a prodursi e ad evidenziarsi i drammatici effetti dell’esplosione demografica, del degrado ecologico, politico e sociale e del disastro economico nei Paesi più poveri. Queste catastrofi non naturali colpiscono non solo i Paesi poverissimi ma anche quelli che avevano fatto ben sperare per le loro ricchezze (petrolio

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come in Nigeria, Venezuela, ecc.) o perché dotati di altre ricchezze naturali (Brasile), o per le risorse sociali operate (Tanzania, Cina, Cuba, ecc.). A questi Paesi si aggiungono quelli dell’Europa dell’Est con la caduta dei regimi a economia centralizzata. Con il progressivo e fermo irrigidirsi dei meccanismi di selezione degli immigrati dei Paesi di tradizionale immigrazione, rimangono aperti in questi anni per i migranti i Paesi dell’Europa Meridionale, come dice Melotti “più per la loro incapacità di fare rispettare le norme restrittive all’immigrazione, anche in essi vigenti, che per un’effettiva scelta in tal senso”. Si tratta ora di persone in fuga dalle aree più disastrate del mondo, sempre più disponibili quindi a qualunque sfruttamento pur di costruire una seppur fragile base economica. Le caratteristiche dell’immigrazione di questi anni, immigrazione che per la prima volta coinvolge in pieno l’Italia, danno vita a fenomeni nuovi come un tasso di disoccupazione alto tra gli immigrati, forme di marginalità, specie in aree urbane e aumento dei fenomeni di razzismo e xenofobia. Si tratta non solo di disoccupazione ma di vero e proprio sradicamento e di perdita d’identità che caratterizzano come un fenomeno sociale e politico, prima che economico, la fase attuale delle migrazioni. Oggi la popolazione immigrata sull’insieme della popolazione europea rimane pari al 5% (la metà rispetto a quello che si riscontra negli Stati Uniti e un terzo rispetto al Canada). La percentuale è rapidamente cresciuta negli Stati mediterranei negli ultimi anni, mentre è stabile o addirittura in ribasso nel Nord Europa. Come tutte le migrazioni precedenti, anche quelle più recenti mostrano una chiara tendenza a stabilizzarsi, tanto che i dati che si riferiscono alle acquisizioni di cittadinanza nel 1999 mostrano un aumento rispetto all’anno precedente del 13%, indice significativo appunto della tendenza ad insediamenti stabili, assieme alla tendenza crescente ai ricongiungimenti familiari2. Se si pensa poi che, nei Paesi del Nord Europa (per esempio Gran Bretagna e Olanda), non figurano tra questi i molti che, pur essendo cittadini naturalizzati, appartengono a minoranze etniche, la realtà multiculturale di questi Paesi è ben più ampia della presenza straniera.

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L’Italia multietnica Confrontando i dati presentati nel Dossier Caritas sull’immigrazione 2002 con quelli elaborati nella nuova edizione dello stesso Dossier immigrazione (2003), emerge con evidenza il considerevole aumento della popolazione immigrata in Italia. Nel 2002 la presenza straniera regolare in Italia era stimata a circa 1.600.000 persone, pari al 2,8% della popolazione, una percentuale che supera di poco la metà della media europea. I dati aggiornati all’anno 2003 stimano la presenza straniera complessiva in Italia a 2.469.324 persone, includendo non solo i lavoratori ma tutti i soggiornanti regolari (quindi anche i familiari giunti nell’ultimo anno grazie alle possibilità offerte dai ricongiungimenti familiari, i nuovi permessi di soggiorno concessi nell’anno), comprese le persone in attesa di regolarizzazione prevista dalla legge Bossi-Fini. Per raggiungere l’80% del totale dei soggiornanti occorrono ben trenta nazionalità, e questa ripartizione policentrica della presenza immigrata in Italia, e cioè in diversi gruppi nazionali di notevole consistenza, attribuisce al contesto italiano una specificità rispetto ad altri Paesi europei dove la presenza degli immigrati si concentra per lo più in grandi gruppi etnici (come ad esempio indiani, pakistani e afrocaraibici in Gran Bretagna). La tipologia dei permessi di soggiorno (secondo i dati del Ministero dell’Interno al dicembre 2001) è per il 95% del totale per lavoro, motivi familiari e altro (adozione, residenza elettiva, ecc.); ciò indica un’immigrazione stabile, come una dimensione strutturale della nostra società che esige una correlativa politica di accoglienza e inclusione. I soggiornanti stranieri al 31 dicembre 2002 (1.512.324) sono così ripartiti per provenienza continentale (Dossier Caritas 2003): 642.362 Europa (sono aumentati molto negli ultimissimi anni i Paesi dell’Europa Centro Orientale, arrivando ad oltre il 30% del totale), 401.440 Africa, 279.816 Asia, 178.593 Americhe e 2.655 Oceania. Si evidenzia che: • sono rappresentati tutti i continenti con gruppi consistenti; • non vi è la preponderanza di uno o pochi gruppi per cui si può continuare a parlare di policentrismo dei gruppi etnici; • i grandi gruppi nazionali hanno conosciuto uno sviluppo differenziato nei passati dieci anni con oltre il doppio da Polonia e Pakistan,

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tre volte Cina, India, Bangladesh e Nigeria, sei volte Albania e Perù, nove volte la Romania. La ripartizione territoriale degli immigrati in Italia ha mostrato nei tempi recenti aspetti innovativi. Il Nord Ovest (32,7%) e il Nord Est (24,1%) arrivano insieme al 56,8% della presenza immigrata per cui il Nord si accredita sempre più come l’epicentro dell’immigrazione: la Lombardia da sola accoglie quasi un quarto di tutti gli immigrati3. Come si legge nel Dossier CARITAS 2003, la tendenza demografica negativa, che porta a prevedere a metà secolo la diminuzione di almeno dieci milioni di persone nella popolazione italiana, sarà bilanciata dall’incessante aumento del numero degli immigrati, sempre più necessari per rispondere al fabbisogno delle imprese e alla crescente richiesta di lavoratori per l’assistenza familiare. Ciò che ci attende è già realtà in diversi Paesi (Canada, Svizzera, Stati Uniti, ad esempio) e mette in evidenza la necessità strutturale dell’immigrazione. “Il vero problema, quindi, non è il numero degli immigrati quando questi sono necessari per i bisogni della società, bensì la mancanza di politiche che riescano ad essere inclusive nei confronti delle persone delle quali si ha bisogno.”4 Purtroppo, così come accade nel resto dell’Europa, il razzismo e la xenofobia contro queste minoranze sono diventati sempre più evidenti e, anche se non è l’immigrazione a “provocare” fenomeni di razzismo – la “sindrome da accerchiamento” non è giustificata dalle statistiche, secondo le quali soltanto il 5% della popolazione in Europa è straniera - , è però vero che una popolazione immigrata consistente pone con più evidenza la questione della necessità di politiche d’integrazione per la promozione di una società interculturale e di lotta alle discriminazioni.

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B - I diritti umani

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tra universalismo e relativismo Il fondamento giuridico per tutta la legislazione sui diritti umani è ancora oggi la ‘Dichiarazione Universale dei Diritti Umani’ (DUDU), approvata dall’Assemblea Generale della nascente Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) il 10 dicembre1948. Da allora ogni anno in quel giorno si celebra in tutto il mondo la giornata internazionale per i diritti umani. Si trattò di un fatto rivoluzionario: per la prima volta veniva scritto un documento che conteneva il “codice etico” di condotta degli uomini a livello mondiale, andando oltre i limiti dei confini statali che caratterizzavano le precedenti carte dei diritti umani (dalla dichiarazione d’indipendenza della Virginia nel 1775 e dalla Rivoluzione francese in poi). La Dichiarazione fu l’atto fondativo del nuovo “diritto internazionale dei diritti umani”, che metteva in discussione il principio tradizionale e assoluto della “non ingerenza” negli affari interni di un altro Stato. Infatti in materia di diritti umani, per la prima volta, si operava una limitazione della sovranità statale. L’idea di fissare una carta internazionale dei diritti venne nel corso della seconda guerra mondiale, quando fu evidente la necessità di fondare un nuovo ordine mondiale in cui fossero banditi i massacri e le atrocità cui negli anni Quaranta si stava assistendo. Essa fu il frutto del lavoro di un comitato di redazione di otto membri, composto dai rappresentanti dell’Australia, del Cile, della Francia, della Gran Bretagna, del Libano, degli Stati Uniti, dell’URSS. Tra i padri fondatori che lavorarono al progetto il principale fu il francese René Cassin. L’approvazione avvenne con 48 voti favorevoli sui 58 Paesi che allora formavano l’ONU, con 8 astensioni (Unione Sovietica, Polonia, Cecoslovacchia, Yugoslavia, Ucraina, Bielorussia, Sudafrica, Arabia Saudita), mentre due Paesi non parteciparono al voto (Honduras e Yemen). Un gruppo di Paesi occidentali, con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, di fatto guidò i lavori, mantenendo la leadership. Ad essi si aggregarono anche i Paesi dell’America Latina. I Paesi asiatici ebbero scarso peso, eccetto quelli musulmani, guidati da Arabia Saudita e Pakistan, che espressero delle riser-

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ve legate alla propria tradizione musulmana, in materia di religione e di vita familiare. Contro la proposta occidentale furono schierati i Paesi dell’Europa socialista. La Dichiarazione Universale, concepita all’interno delle dinamiche della guerra fredda, fu alla fine un compromesso fra posizioni diverse, che tuttavia trovarono un punto d’incontro. Lo scontro che si ebbe, dunque, nell’elaborazione della Dichiarazione vide una contrapposizione tra le grandi democrazie occidentali e i Paesi dell’Europa socialista. All’interno delle Nazioni Unite era allora assai minoritaria la presenza dei Paesi in via di sviluppo, che vivevano ancora spesso in regime coloniale. Cassese individua tre fonti ideali che concorsero all’elaborazione del testo finale: il giusnaturalismo della tradizione occidentale, lo statalismo dei Paesi socialisti, il nazionalismo5. Gli occidentali proponevano la loro concezione “giusnaturalista”, secondo la quale gli uomini erano dotati in natura di alcuni diritti della persona che lo Stato era tenuto a rispettare. Si trattava dei diritti civili e politici, i soli che gli occidentali intendevano proclamare a livello mondiale. Come si legge nell’articolo 1, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, ovvero i diritti umani sono preesistenti allo Stato, il quale basava il proprio consenso su di un “patto sociale” che aveva proprio lo scopo di proteggere gli uomini e non certo di assoggettarli ad esso. Dall’altro lato i Paesi socialisti sottolinearono la centralità dei diritti economici e sociali, in base alla loro concezione “giuspositivista”, secondo la quale lo Stato poteva concedere per sua scelta una serie di garanzie sociali ed economiche, sotto forma di organizzazione generale della collettività. Nell’articolo 22 si afferma infatti che l’individuo non vive isolato, ma inserito nella società, per cui è compito dello Stato garantire a ciascuno la sicurezza personale e il godimento dei diritti. Inoltre i Paesi socialisti chiesero l’inserimento del principio di eguaglianza (ossia il divieto di discriminazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, nazionalità o altro status), il “diritto di ribellione” contro autorità oppressive, il diritto delle minoranze nazionali a veder riconosciuti e rispettati i loro diritti di gruppo e il diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali. Si trattava cioè di estendere la fascia dei diritti civili e politici in una direzione forte su cui gli occidentali non erano però disposti a dare l’assenso. Infatti gli emendamenti vennero tutti respinti.

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Un fattore importante di dissenso riguardava il fatto che per i Paesi socialisti i diritti umani non avrebbero dovuto ledere la sovranità nazionale degli Stati, nel senso che si doveva concepirli in modo da renderli compatibili con il sistema statale. Il ruolo della comunità internazionale avrebbe dovuto essere quello di stabilire dei parametri e direttive sui diritti umani, lasciando poi allo Stato il compito di precisare nel dettaglio quei parametri generali, senza ulteriori controlli. I Paesi occidentali ritenevano ci dovesse essere un continuum tra l’azione internazionale e quella nazionale, per il semplice fatto che gli organi internazionali dovevano avere la possibilità di controllare il rispetto delle norme internazionali da parte dei singoli Stati, i quali spesso le accettavano solo formalmente. Questa questione rimase sempre aperta e ancor oggi viene talvolta riproposta. Una terza matrice, infine, quella nazionalista, era ispirata alla salvaguardia della sovranità nazionale e si rese evidente nella rinuncia ai diritti di ribellione, di petizione contro gli abusi e di protezione delle minoranze nazionali. Un aspetto fondamentale fu poi la decisione di non attribuire valore giuridico vincolante alla Dichiarazione, che rimaneva un impegno di carattere etico-politico, in attesa di norme attuative che comportassero obblighi giuridici per gli Stati. I limiti più evidenti della nuova carta erano senz’altro il fatto che essa non proclamava il diritto dei popoli all’autodeterminazione (per il riconoscimento del quale bisognava aspettare i Patti Internazionali del 1966), non accordava il diritto di petizione alle vittime delle violazioni dei diritti umani (diritto in parte riconosciuto dal Protocollo facoltativo annesso al Patto sui diritti civili e politici del 1966), non riconosceva il diritto dei popoli oppressi a ribellarsi contro un regime dispotico. Si dovette attendere fino al 1966 perché fossero approvati dalle Nazioni Unite i due “Patti Internazionali”, ovvero il “Patto Internazionale sui diritti civili e politici” (con annesso un Protocollo facoltativo) e il “Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, che dovevano tradurre in norme vincolanti per gli Stati ratificanti i principi fondamentali enunciati nella Dichiarazione. Tutti assieme, con l’aggiunta dei “Protocolli” opzionali ai Patti, formarono la “Carta Internazionale dei Diritti Umani”. Aperti alle ratifiche da parte degli Stati, il Patto sui diritti civili e politici entrò in vigore nel 1973, mentre l’altro entrò in vigore nel 1976. Al 7 luglio 2003 il primo risulta ratificato da 149 stati, il secondo da 147. L’Italia ratificò entrambi nel 1978.

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Innanzitutto il fatto che i Patti fossero due sta ad indicare la cristallizzazione in seno alla comunità internazionale della divisione nel modo di intendere i diritti umani da parte dei due blocchi geopolitici. La prima importante novità fu che entrambi i Patti iniziavano con due disposizioni, agli articoli 1 e 2, in cui si affermava il “diritto all’autodeterminazione dei popoli” e in cui vi era una clausola intesa a vietare ogni discriminazione, nel godimento dei diritti enunciati, “fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica o qualsiasi altra condizione”. L’affermazione che i popoli “decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”, per il quale fine “possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali” (articolo 1), colmava dunque una grave lacuna della Dichiarazione Universale, che non aveva parlato di “diritti dei popoli”, per non contrastare con le potenze occidentali coloniali. Qualcosa era però cambiato nel frattempo: il diritto internazionale recepiva i mutamenti storici legati al processo di “decolonizzazione” degli anni Cinquanta e Sessanta. Al Patto sui diritti civili e politici, per l’impossibilità di trovare un accordo diverso, fu aggiunto un “Protocollo opzionale”, che conferisce al Comitato dei diritti dell’uomo, istituito per vigilare sull’applicazione delle norme, il potere di ricevere e di esaminare “comunicazioni provenienti da individui, i quali pretendano essere vittime di violazioni di un qualsiasi diritto enunciato nel Patto”. Questa possibilità di ricorsi individuali, peraltro molto contrastata a livello internazionale, era una manifestazione evidente dei progressi fatti nel campo della tutela dei diritti umani (anche se ancora oggi non esiste un’analoga facoltà nell’ambito dell’altro Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali). Tale protocollo al 7 luglio 2003 risulta ratificato da 104 Stati (tra cui l’Italia dal 1978, ma non gli U.S.A.). Il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali estendeva la sfera dei diritti inclusi nella Dichiarazione, dove mancava il diritto alla parità di remunerazione tra uomini e donne, quello al miglioramento delle proprie condizioni di vita, la tutela delle lavoratrici madri, la protezione dei bambini dallo sfruttamento economico e sociale. Accanto al processo di “internazionalizzazione” della tutela dei diritti umani, grazie al rafforzarsi delle Nazioni Unite e delle loro agenzie, si

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verificava anche un processo parallelo di “regionalizzazione” della protezione, ovvero i vari Paesi e continenti realizzavano propri strumenti di attuazione della Dichiarazione Universale. In accordo con quanto stabilito nella Carta delle Nazioni Unite, sono diversi gli organi che all’interno dell’ONU si occupano della realizzazione dei diritti umani. Tra questi svolgono una funzione centrale l’Assemblea Generale, il Consiglio economico e sociale, la Commissione dei diritti dell’uomo. Ad essi si aggiungono diverse agenzie specializzate delle Nazioni Unite, che svolgono un ruolo di rilievo nella realizzazione pratica dei diritti. Tra queste ricordiamo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS - WHO). Accanto al sistema internazionale di protezione dei diritti umani si svilupparono sistemi di protezione a livello regionale, tra cui il più articolato è certamente quello della comunità europea. Innanzitutto a livello europeo, in seno al Consiglio d’Europa, fu elaborata la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 novembre 1953. La ratifica italiana venne con la legge n. 848 del 1955. Ad integrazione della stessa furono elaborati alcuni Protocolli aggiuntivi, tra cui il Sesto nel 1983 prevede l’abolizione della pena di morte. La Convenzione, dopo aver enunciato i diritti fondamentali, istituì due organi, la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte europea per i diritti dell’uomo che, assieme al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, avevano il compito di garantire il rispetto dei diritti sanciti. La Commissione è competente ad esaminare, oltre ai ricorsi di uno Stato parte contro un altro parte, anche ricorsi individuali o di gruppi di individui o di organizzazioni non governative; promuove, inoltre, la conciliazione tra le parti in causa e, se questa non si verifica, può ricorrere alla Corte europea per i diritti umani o al Comitato dei Ministri, al quale trasmette un rapporto. Possono ricorrere alla Corte, le cui sentenze hanno forza vincolante per gli Stati, oltre alla Commissione, anche lo Stato accusato oppure lo Stato di cui l’individuo leso è cittadino. Per quanto riguarda nello specifico i diritti economici, sociali e culturali nel sistema di protezione europeo, occorre ricordare la “Carta sociale europea”, redatta dal Consiglio d’Europa e sottoscritta dagli Stati a Torino il 18 ottobre 1961. In

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base ad essa gli Stati hanno l’obbligo di presentare rapporti che ne valutano l’attuazione, i quali vengono analizzati da un Comitato di sei esperti indipendenti, eletti dal Comitato dei Ministri. Il 18 dicembre 2000 la Commissione Europea ha approvato la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che riunisce in un testo unico i diritti enunciati in fonti diverse e aggiorna la precedente Convenzione Europea. Nel preambolo si afferma che i popoli europei hanno deciso di condividere un futuro di pace, fondato sui “valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”, nonché sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Oltre ai tradizionali diritti, si inseriscono il diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali (art. 8), il diritto degli anziani a condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), la protezione dei consumatori (art.38), la tutela dell’infanzia (art. 24), la piena integrazione dei disabili. Si vietano la pena di morte e la tortura o maltrattamenti (art. 4), la schiavitù (art.5), le espulsioni collettive (art. 18). Si riconoscono il diritto di sciopero e il diritto di asilo. Resta da vedere se questa carta avrà valore vincolante sugli ordinamenti interni degli Stati, in quanto costituisce un passo avanti notevole sulle politiche sociali, sull’immigrazione, sul diritto di asilo e sulla democrazia. All’esperienza europea, la prima e la più evoluta, si ispirò nel quadro dell’“Organizzazione degli Stati Americani” (OSA) la “Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo”, firmata a San Josè de Costarica il 22 novembre 1969 ed entrata in vigore il 18 luglio 1978. Più recentemente fu adottata nel quadro dell’ “Organizzazione per l’Unità Africana” (OUA) la “Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli”, siglata a Banjul il 10 gennaio 1981, per un sistema africano di protezione dei diritti umani, entrata in vigore nel 1986. Un’esperienza importante è quella svolta dalla comunità degli Stati arabi, per le specificità culturali che la distinguono dall’esperienza dei Paesi europei. Da un lato, infatti, c’è il giusnaturalismo e la libertà della persona, dall’altro la legge islamica, in cui l’individuo è sottomesso ad Allah, da cui ogni cosa dipende. All’interno della Lega degli Stati Arabi nel 1966 fu istituita una Commissione Permanente Araba per i Diritti Umani, che cominciò l’elaborazione di una Carta Araba dei Diritti Umani. Dei progetti furono presentati nel 1971, nel 1985 e infine nel 1993, quando finalmente si arrivò all’adozione della Carta, il 15 settembre 1994.

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Tale documento, aperto alla ratifica degli Stati, garantisce i diritti di libertà della Dichiarazione Universale, i diritti dei popoli a disporre delle proprie ricchezze e a determinare da sé il proprio sviluppo. Viene limitata la pena di morte, escludendola per i minori di anni 18, per le donne incinte e per i prigionieri politici. L’articolo 29 riconosce il diritto di sciopero e di costituire sindacati, nonostante l’opposizione di alcuni Stati arabi. L’articolo 34 obbliga gli Stati a combattere contro l’analfabetismo; l’articolo 39 riconosce il diritto dei giovani a sviluppare la propria capacità intellettuale e fisica. L’articolo 37 riconosce alle minoranze il diritto a manifestarsi e alla libertà di culto. Tale Carta è un passo avanti verso la piena accettazione della Dichiarazione Universale e dei Patti da parte della comunità dei paesi Arabi. Tuttavia il meccanismo giuridico per l’applicazione della Carta è primitivo, se rapportato a quello dell’Unione Europea (un “Comitato di esperti arabi”, sette in tutto, che deve esaminare i rapporti periodici da parte degli Stati membri, ma senza raccogliere denunce degli individui od organismi della società civile). L’emanazione della Carta fu preceduta da alcune dichiarazioni, tra cui la Dichiarazione di Decca sui Diritti Umani nell’Islam del 1983 e la Dichiarazione del Cairo, adottata il 2 agosto 1990 dalla Conferenza dei Ministri degli Affari Esteri della Organizzazione della Conferenza Islamica (O.C.I.). Esse proclamano il rispetto della Sharia come motivo principale per dare uguaglianza agli uomini e sradicare gli egoismi, nel tentativo di fare ascrivere i diritti umani all’interno della tradizione islamica come parte integrante e intrinseca all’Islam. Si riconosce che gli uomini hanno gli stessi diritti e responsabilità, senza distinzioni di razza, colore, lingua, religione, sesso, opinione politica e status sociale. Tuttavia non si fa esplicito riferimento alla Dichiarazione Universale. Una volta gettate le basi del diritto internazionale dei diritti umani, l’evoluzione successiva vide un progressivo processo di “specializzazione”, attraverso la stipula di convenzioni e accordi internazionali su singoli diritti, preceduti spesso da dichiarazioni delle Nazioni Unite. Tra le altre, ricordiamo la “Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” (in vigore dal 1969, con 168 Stati aderenti al 7 luglio 2003, tra cui l’Italia dal 1975); la “Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, adottata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, che ha istituito il Comitato contro la tortura (133 ratifiche al 7 luglio 2003); la

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“Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna”, adottata il 18 dicembre 1979 ed entrata in vigore il 3 settembre 1981 (ratificata da 173 Stati al 7 luglio 2003, in Italia dal 1985); la “Convenzione sullo status di rifugiato”, sottoscritta a Ginevra il 25 luglio 1951; la “Convenzione sui diritti dell’Infanzia” (entrata in vigore il 2 settembre 1990, con 192 Stati parte al 7 luglio 2003, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 27 maggio 1991). Il 15 dicembre 1989 vi fu l’adozione del “Secondo Protocollo opzionale” annesso al Patto internazionale sui diritti civili e politici, finalizzato all’abolizione della pena di morte, che i Paesi aderenti si impegnavano ad eliminare totalmente (49 al 7 luglio 2003). Nel corso degli anni ‘60 e ‘70, anche per il contributo dei Paesi in via di sviluppo, si vennero affermando sulla scena internazionale una nuova serie di diritti umani, detti “diritti di solidarietà” o “diritti di terza generazione”. L’espressione fu usata per la prima volta a metà anni Settanta da Wasak, direttore dell’Istituto internazionale dei diritti umani di Strasburgo. Essi comprendevano il diritto all’ambiente, il diritto alla pace, il diritto al patrimonio comune all’umanità, il diritto allo sviluppo. Il diritto alla pace venne proclamato dall’Assemblea Generale il 12 novembre 1984, quando si affermò che “i popoli del nostro pianeta hanno il sacro diritto alla pace e di conseguenza la salvaguardia del diritto dei popoli alla pace e la promozione della sua realizzazione costituiscono un fondamentale obbligo di ogni Stato”. Il diritto allo sviluppo fu formalmente riconosciuto in una dichiarazione delle Nazioni Unite del 1986, certamente in ritardo. L’ampliarsi e storicizzarsi della legislazione in materia di diritti umani nel tempo ha reso meno attuale il tema della pretesa “universalità” di norme che in pratica, sostenevano molti critici, provenivano da un’unica matrice culturale. A tal proposito si possono distinguere almeno due scuole di pensiero. Da un lato ci sono gli “universalisti”, fautori della tesi della rivoluzionarietà dei diritti umani in quanto portatori di una nuova etica globale; dall’altro ci sono i “relativisti”, che in ambito filosofico e antropologico sostengono la tesi dell’egemonia politico-diplomatica e culturale dell’Occidente nell’elaborazione dei diritti umani. Recentemente sta prevalendo una linea di mediazione tra l’impianto teorico e politico dei diritti e la sua realtà locale di applicazione. Infatti le culture non occidentali hanno prodotto delle proprie carte dei diritti, come emanazione della Dichiarazione Universale. Gli antropologi vedono una conflittualità aperta tra Occidente, che fonda i diritti sull’esclusività dell’individuo, slegandolo

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da appartenenze culturali ed etniche, e altre culture che esaltano proprio tali appartenenze. Secondo Antonio Papisca, il fatto che i diritti umani siano innati e connaturati alla persona, dunque inalienabili e inviolabili come nella tradizione liberale, è un baluardo in difesa degli stessi e della persona contro ogni mutamento storico o politico che possa rimetterli in discussione, riportando la sovranità statale al di sopra della sovranità della persona. Non a caso tra i maggiori critici della universalità dei diritti umani ci sono alcuni Stati autoritari (come Malaysia, Singapore, Emirati Arabi, Cina). Dall’altro lato un numero crescente di organizzazioni per i diritti umani, anche in Asia e Africa, asseriscono la loro universalità. Se inizialmente la piattaforma dei diritti fu il frutto del lavoro di pochi Stati occidentali, tuttavia dagli anni ‘60 in poi gli Stati del Sud del mondo sono stati protagonisti dell’evoluzione dei diritti umani. Anche la dicotomia della guerra fredda tra diritti civili e politici contro diritti sociali ed economici si è venuta ricucendo tra gli anni ‘80 e ‘90, quando in varie dichiarazioni si è affermata l’indivisibilità dei diritti umani. In altre parole, non era vero che per raggiungere un certo grado di ‘sviluppo’ economico certi Stati erano legittimati ad ignorare o trascurare diritti politici o sociali di libertà e democrazia. Solennemente ciò fu affermato nella Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna nel 1993. Un problema, denunciato da Papisca, è quello della tendenza in atto a legare i diritti umani a quelli di cittadinanza, in questo tradendo i dettami della Dichiarazione Universale. Infatti, se i diritti spettano alla persona in quanto tale, in quanto avente una dignità umana, non si potrà vincolare il godimento dei diritti al fatto di avere o no una cittadinanza, come ad esempio quella europea. I diritti sono della persona prima che del cittadino. Su questi temi è acceso un forte dibattito interno alle istituzioni europee.

La legislazione italiana nel campo della discriminazione “razziale”, etnica, religiosa e nazionale La materia degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e delle relative azioni civili e penali, è regolata essenzialmente dagli articoli 43 e 44 del decreto legislativo n.286/1998 (Testo

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Unico sull’immigrazione) e dalle disposizioni contenute nella legge n.654 del 1975 – di ratifica della convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale – nonché nel decreto-legge 26.4.1993, n.122, convertito con modificazioni nella legge n.205 del 1933 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa). Accanto a questi provvedimenti di fondamentale importanza, le due direttive europee (n.43/2000 e n.78/2000) recentemente recepite nell’ordinamento italiano. Riportiamo di seguito gli articoli citati (43 e 44) che la nuova Legge Bossi-Fini (n. 189/2002) sull’immigrazione non ha abrogato, perché di fondamentale importanza per la tutela dei diritti delle persone a rischio di discriminazione. “1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica (…)”. Questa definizione riprende a sua volta letteralmente la definizione di discriminazione che si ritrova nella convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale di New York (1966). L’Articolo prosegue identificando gli autori degli atti di discriminazione: “2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

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c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. Il presente articolo e l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia. Art. 44. Azione civile contro la discriminazione (L. 6-3-1998, n. 40, art.42). 1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni

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altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell’istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda, emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorra, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto. 6. Contro i provvedimenti del pretore é ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all’articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. 8. Chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 é punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale. 9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti dell’azienda

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interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell’articolo 43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle Regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, é immediatamente comunicato dal pretore, secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell’appalto. Tali amministrazioni o enti revocano il beneficio e, nei casi più gravi, dispongono l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto. 12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell’applicazione delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri, vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.” Di seguito si riporta integralmente il testo del decreto legislativo con cui il Governo italiano ha recepito la direttiva 2000/43/CE, per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

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DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n. 215 Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. (GU n. 186 del 12-8-2003) Testo in vigore dal: 27-8-2003 IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; Vista la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; Visto l’articolo 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’allegato B; Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’economia e delle finanze; Emana il seguente decreto legislativo: Art. 1. - Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. Art. 2. - Nozione di discriminazione 1. Ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è

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trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di seguito denominato: «testo unico». 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. 4. L’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è considerato una discriminazione ai sensi del comma 1. Art. 3. - Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; e) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale; f) assistenza sanitaria; g) prestazioni sociali; h) istruzione; i) accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio. 2. Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.

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3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. 4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. Art. 4. - Tutela giurisdizionale dei diritti 1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico. 2. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le associazioni di cui all’articolo 5, comma 1. 3. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile. 4. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 6. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 4 e 5, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 7. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Art. 5. - Legittimazione ad agire 1. Sono legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per

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conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione. 2. Nell’elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 6. 3. Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Art. 6. - Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità è istituito il registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di trattamento. 2. L’iscrizione nel registro e’ subordinata al possesso dei seguenti requisiti: a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno un anno e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a base democratica e preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento, senza fine di lucro; b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l’indicazione delle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari; c) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute; d) svolgimento di un’attività continuativa nell’anno precedente; e) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in giudicato, in relazione all’attività dell’associazione medesima, e non rivestire i medesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi settori in cui opera l’associazione. 3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità provvede annualmente all’aggiornamento del registro. Art. 7. - Ufficio per il contrasto delle discriminazioni 1. È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità un ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica, con funzioni di

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controllo e garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela, avente il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. 2. In particolare, i compiti dell’ufficio di cui al comma 1 sono i seguenti: a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anche secondo le forme di cui all’articolo 425 del codice di procedura civile; b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell’autorità giudiziaria, inchieste al fine di verificare l’esistenza di fenomeni discriminatori; c) promuovere l’adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle associazioni e degli enti di cui all’articolo 6, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all’origine etnica; d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione; e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle discriminazioni per razza e origine etnica, nonché proposte di modifica della normativa vigente; f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attività svolta; g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni e gli enti di cui all’articolo 6, con le altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni. 3. L’ufficio ha facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dell’espletamento dei compiti di cui al comma 2. 4. L’ufficio, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro da lui delegato, si articola secondo le modalità organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del consiglio dei Ministri, con cui si provvede ad apportare le opportune modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 23 luglio 2002, recante ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 4 settembre 2002. 5. L’ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando,

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aspettativa o fuori ruolo, nonché di esperti e consulenti esterni. Si applica l’articolo 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127. 6. Il numero dei soggetti di cui al comma 5 e’ determinato con il decreto di cui al comma 4, secondo quanto previsto dall’articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400 e dall’articolo 9 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 303. 7. Gli esperti di cui al comma 5 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche. 8. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano. Art. 8. - Copertura finanziaria 1. Agli oneri finanziari derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’ufficio di cui all’articolo 7, nel limite massimo di spesa di 2.035.357 euro annui a decorrere dal 2003, si provvede ai sensi dell’articolo 29, comma 2, della legge 1° marzo 2002, n. 39. 2. Fatto salvo quanto previo dal comma 1, dall’attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a Roma, addì 9 luglio 2003 CIAMPI Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie Maroni, Ministro del lavoro e delle politiche sociali Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunita’ Frattini, Ministro degli affari esteri Castelli, Ministro della giustizia Tremonti, Ministro dell’economia e delle finanze Visto, il Guardasigilli: Castelli

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C - La comunicazione interculturale

Suggerimenti per un corretto uso e la corretta interpretazione delle schede sulle religioni Per la corretta interpretazione delle schede che seguono è bene leggere i capitoli 3 e 4 del manuale, oltre alle precisazioni che seguono, avendo chiaro che ridurre religioni millenarie, diffuse in tanti Paesi diversi e che uniscono miliardi di credenti nel mondo a poche, misere pagine, può apparire un’operazione “presuntuosa” se non se ne comprendono gli scopi e i limiti che gli stessi autori del manuale e di questi testi denunciano. Le schede sono state scritte per fornire agli operatori di polizia un modello per la raccolta delle informazioni che hanno rilevanza per il lavoro quotidiano sul territorio. Per esempio, se un poliziotto dovesse organizzare la perquisizione di una casa di persone di religione musulmana, dovrebbe sapere che ci possono essere principi o usanze particolari da rispettare, forse il non introdurre cani nell’abitazione o togliersi le scarpe prima di entrare. Cercare di entrare con le scarpe e con un cane potrebbe creare una resistenza causata da un profondo sentimento di offesa all’imposizione di tanta impurezza e sporcizia dentro la casa. Il poliziotto che non è consapevole del motivo di una reazione ostile alla perquisizione (un’esperienza probabilmente spiacevole per chiunque) rischia di interpretarla come il tentativo di nascondere qualcosa di illecito – interpretazione che potrebbe portare ad un’enorme perdita di tempo per tutti quanti e un alto livello di stress e conflitto. Conflitti forse evitabili se il poliziotto – consapevole - spiegasse, con comprensione per l’offesa che sarebbe procurata, la necessità di usare il cane, oppure potrebbe togliere le scarpe o promettere di pulirle molto bene o anche soltanto spiegare il proprio rammarico di non poterle togliere perché in servizio. È bene sapere poi che non in tutte le famiglie queste usanze sono rispettate con rigore. Va detto per chiarezza che se è necessario perquisire una casa con l’ausilio di un cane, allora la casa deve essere perquisita. Capire – e dimostrare di capire - il disagio delle persone che ci abitano non significa necessariamente scusarsi per il lavoro che si deve svolgere ma ridurre la tensio-

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ne, sia se la persona che si ha davanti è colpevole di qualche reato oppure no, il che rende la vita più semplice per tutti. Alcuni altri esempi di situazioni nelle quali è bene avere qualche informazione sulle comunità che abitano il territorio e sulle loro usanze, abitudini, principi: il sistema dei nomi (qual è il nome e qual è il cognome? Esiste un cognome?); le pratiche rispetto alla morte (se, nel caso di una morte violenta, si dovesse eseguire un’autopsia, come conciliare questo con l’usanza – o precetto - di seppellire la salma entro ventiquattro ore?); quali lingue si parlano (nel caso in cui si presenti il bisogno e la possibilità di chiamare un’interprete); ebrei ortodossi possono essere più vulnerabili durante il sabato se seguono il principio di non usare il telefono (non potranno chiamare aiuto se non in caso di pericolo di morte e gruppi antisemiti spesso ne approfittano). Infine, perché delle schede sulle religioni e non su gruppi etnici? Per un primo, ovvio, motivo. Questo manuale è indirizzato ad operatori di polizia che lavorano su tutto il territorio dello stato italiano dove oggi risiedono centinaia di comunità e di persone di diverse origini etnico-culturali e provenienze geografiche. Sarebbe perciò impossibile fornire delle informazioni sensate ed utili a tutti. Esiste tuttavia un secondo motivo, legato al momento storico attuale che, specie dopo l’11 settembre, vede particolarmente forte (e pericolosamente viva) la contrapposizione di un “noi” e di un “loro”, di un “noi contro loro” che si radica in una contrapposizione religiosa (quasi sempre confusa con appartenenza etnica e culturale) che non ha alcuna giustificazione e che potrebbe essere ancora più pericolosa se condivisa da operatori di polizia che svolgono compiti così delicati e importanti per il mantenimento dell’ordine e della pace sociale. L’invito è dunque a leggere queste schede cogliendone gli elementi che possono essere utili per il vostro lavoro, a verificare se esse descrivono con sufficiente precisione le comunità presenti nel vostro territorio e, infine, a migliorarle e a completarle dove necessario.

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scheda su ISLAM Parlare di Islam significa abbracciare una realtà complessa e diversificata al suo interno, in termini sociologici, culturali e anche strettamente religiosi. Non è opportuno mai affermare recisamente qualcosa pensando che sia applicabile all’intero “universo islamico”. La maggioranza dei musulmani segue il rito sunnita (oltre 80%) che si divide in quattro scuole di diritto. Le differenze sono minime e non riguardano i dogmi e gli obblighi fondamentali. Anche i musulmani sciiti seguono le stesse prescrizioni e si differenziano soprattutto per alcune norme giuridiche. A loro volta gli sciiti sono suddivisi in varie correnti. Gli sciiti si trovano in Iran, Iraq, in parte del Libano, Yemen, India e Pakistan. In Italia il numero dei musulmani è aumentato in rapporto all’ondata migratoria che ha investito il Paese soprattutto dalla fine degli anni ’80. Si può ritenere che oggi vi siano in Italia 6-700.000 musulmani regolarmente residenti. La percentuale di clandestini musulmani tocca probabilmente oltre il 50% di essi. Esistono diverse decine di migliaia di musulmani italiani, in parte naturalizzati, ma anche italiani d’origine. La maggior parte degli immigrati musulmani proviene dal Marocco, dalla Tunisia, da altri Paesi arabi (Egitto, Siria, Algeria, Libia, Yemen, Palestina ecc.) e inoltre dal Pakistan, Bangladesh, Iran, Turchia, Somalia, Senegal e altri Paesi dell’Asia e dell’Africa, nonché molti bosniaci e albanesi. Origini L’Islam nasce in Arabia dalla predicazione del Profeta Muhammad (Maometto, ma la parola italianizzata è sgradita ai musulmani) nel settimo secolo dell’era cristiana: centro spirituale dell’Islam è la città di Mecca (Makka) in Arabia Saudita. Credenze Islam significa sottomissione alla volontà di Dio (Allah); esso si basa su cinque Pilastri: 1) la dichiarazione di fede (Non c’è altro Dio che Iddio (Allah) e Muhammad è l’Inviato di Dio); 2) la Preghiera canonica cinque volte al giorno per tutti gli adulti; 3) l’elemosina rituale (zakat) ossia una sorta di decima annuale sulle proprietà devoluta per le necessità della comunità; 4) il digiuno (dall’alba al tramonto) per i trenta giorni del mese di Ramadan; 5) il Pellegrinaggio a Mecca almeno una volta in vita se non impossibile economicamente o per ragioni di salute. La religione islamica riconosce, oltre all’ultimo Profeta Muhammad, una serie di altri messaggeri precedenti da Adamo a Noè ad Abramo, Mosè e Gesù. Tutti gli uomini e donne sono uguali di fronte a Dio e responsabili delle loro azioni;

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per quanto riguarda la dimensione sociale vi è in alcune realtà una divisione di ruoli tra una donna che cura la casa e l’educazione dei figli e un uomo dedito al lavoro esterno. Sacre scritture e altre fonti La Torà e i Vangeli sono stati superati dalla discesa del Sacro Corano in arabo. Non occorre leggerlo nella lingua originale. Il volume che racchiude il Corano non va toccato con mani sporche o impure. Altra fonte di conoscenza della Legge divina è la Tradizione del Profeta (Sunna), racchiusa in raccolte canoniche tra cui le più importanti sono quelle di al-Bukhari e Muslim. Luoghi di culto Un musulmano può pregare ovunque con la sola condizione che il luogo sia pulito, abitualmente si usa pregare su un tappetino specifico. La moschea (casa di Allah) è il luogo comunitario per la preghiera. Può consistere di un semplice cortile o di una stanza. Le grandi moschee sono destinate ad accogliere la preghiera del venerdì a mezzogiorno in cui i musulmani, pur non essendo individualmente obbligati, si raccolgono ad ascoltare il sermone di un Imam (semplice guida spirituale e non col ruolo di tramite tra il fedele e Dio). In tal caso uomini e donne pregano separatamente. La preghiera non può essere interrotta tranne in casi di estrema urgenza. Occorre perciò attenderne la fine prima di ottenere una risposta anche da chi prega in casa ed è sconsigliato passare davanti a chi sta pregando. Per la preghiera occorre essere in stato di purità (abluzioni preventive) e correttamente vestiti di abiti puliti (che coprano dall’ombelico alle ginocchia per gli uomini e tutto il corpo a esclusione di viso e mani per le donne). Festività Vi sono solo due festività nel corso dell’anno, oltre ad alcuni giorni solenni (la ricorrenza della morte di Husain per gli Sciiti, il Natale del Profeta, la Sua ascesa in cielo, la notte del destino, ecc.). La Grande Festa (al-Id al-Kabir o Id al-Adha) ricorda il sacrificio di Abramo e si celebra il 10 del dodicesimo mese lunare durante il Pellegrinaggio. La Piccola Festa (al-Id as-Saghir o Id al-Fitr) si celebra al termine del mese di Ramadan (nono mese lunare). Il calendario lunare islamico inizia nell’anno 622 e consiste di 354 giorni (mediamente 11 giorni meno di quello solare): il 1424 è iniziato il 4 marzo 2003. Rispetto al calendario internazionale quindi le festività risultano mobili.

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Morte Il musulmano viene sepolto in terra col viso rivolto alla Mecca avvolto in un sudario bianco e dopo che il corpo è stato lavato, possibilmente nella stessa giornata. In Italia si seguono i regolamenti vigenti. Non è ammessa la cremazione e le cerimonie si limitano a una speciale preghiera comunitaria. Norme alimentari È proibita la carne di maiale e di animali non macellati secondo le regole rituali, che consistono nel taglio delle arterie carotidi e il dissanguamento dell’animale (anche il sangue è vietato come alimento) dopo aver pronunciato sull’animale un’invocazione a Dio. In Italia tale tipo di macellazione è consentita dalle leggi vigenti che sono le stesse per gli ebrei. La carne macellata con rito ebraico è lecita (halal) per i musulmani. Altri tipi di carne che per consuetudine sono considerati proibiti (haram) sono quella di asino, degli animali carnivori (cani, gatti, aquile ecc.), dei rettili e degli anfibi. Gli alcolici e gli stupefacenti sono considerati proibiti in quanto ottenebrano la coscienza. In genere tutte le sostanze nocive alla salute, se non proibite sono sconsigliate (tabacco ecc.). Usi Presso molti musulmani vigono regole che riguardano il vestiario soprattutto femminile e il contatto fisico tra i due sessi. Le donne evitano di mostrare in pubblico parti del corpo che non siano il viso e le mani. La copertura del viso è una pratica che non trova fondamento nella religione. La modestia nel vestire si addice comunque sia a uomini che a donne e comporta anche la non ostentazione di ricchezze (proibiti agli uomini gioielli d’oro e l’uso della seta). Molti uomini non stringono la mano alle donne quando salutano. In genere presso le comunità arabe la posizione della donna è di netta subordinazione. Meno marcato tale uso presso comunità asiatiche e africane. La separazione dei sessi è piuttosto forte, comunque, e ciò si riverbera in molte situazioni (visite mediche effettuata da dottoresse su donne, perquisizioni, ecc.). Spesso usi e tradizioni poco o nulla hanno a che vedere con la religione e si tratta solo di costumi in uso nei Paesi d’origine, talvolta anche in contrasto con la religione (per es. l’infibulazione). La circoncisione è d’uso presso i maschi, meno presso le femmine, ma è semplice tradizione e non obbligo. Ogni pratica mutilante o modificante il corpo è proibita (compreso il tatuaggio e il piercing). L’uso dei cosmetici è proibito quando si prega (ma non sono tali l’henné e il rimmel (kuhl) sugli occhi).

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Lingua Non è obbligatoria la conoscenza dell’arabo, ma tale lingua rimane la lingua del Corano e quindi riveste grande importanza nella preghiera. Le comunità musulmane in Italia hanno diverse lingue. Gli arabi stessi spesso non conoscono la lingua standard e parlano solo il dialetto del Paese d’origine. Molti maghrebini parlano berbero, i senegalesi in genere il wolof, i somali il somalo: tutte lingue molto diverse dall’arabo. I Pakistani in genere parlano urdu o panjabi e i bangladeshi il bengali. Altre lingue “islamiche” importanti sono il turco e le altre lingue della stessa famiglia, il persiano (farsi), il curdo, il malese/indonesiano ecc. Gli albanesi parlano inoltre albanese e i bosniaci una varietà di serbo-croato. Nomi La casistica dei nomi è varia e complessa: in genere dipende dal Paese di provenienza. Tra i musulmani italiani è d’uso spesso acquisire un nuovo nome al momento della conversione, ma senza valore ufficiale. In molti Paesi non esiste il cognome, ma si usa il patronimico. In genere molti musulmani anche non arabi hanno un nome arabo. Spesso esiste il problema dell’identificazione di persone il cui nome è scritto in caratteri latini in modi diversi: in realtà il nome è uno solo se scritto per esempio in caratteri arabi, ma viene traslitterato in modi diversissimi, spesso nello stesso Paese di origine. Per esempio uno stesso nome si trova trascritto Hussein, Husain, Hosein, Houssine, Hocine, Husseen, Housaine e in altri modi ancora. Le signore non prendono il cognome del marito. In genere in Italia oggi si considera cognome anche il patronimico, ma tale pratica può ingenerare confusione: i figli di una signora hanno “cognome” diverso dalla madre.

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Scheda su EBRAISMO Essere ebrei vuol dire far parte di una popolazione che segue delle tradizioni che risalgono a quelle dei tre Patriarchi: Abramo, Isacco e sopratutto Giacobbe. Quest’ultimo viene chiamato anche Israel, e dà il nome al popolo ebraico di cui è uno dei patriarchi. La tradizione ed il comportamento del popolo ebraico o popolo di Israele è dettata dalla Torà, (termine che significa insegnamento) conosciuta anche con il temine Pentateuco, in quanto è composta da cinque libri, scritti secondo la tradizione ebraica da Mosé, sommo Profeta di Israele, sotto dettatura divina. Gli ebrei sono sparsi in diverse parti del mondo: la Diaspora è la dispersione del popolo ebraico al di fuori della terra di Israele. L’elemento di unità è quindi dato dal mantenimento delle tradizioni e dal perseguimento degli stessi precetti. Il numero di cittadini ebrei è diminuito in Europa del 75% e in Italia del 25% in seguito alle persecuzioni razziali iniziate in Germania nel 1933 ed in Italia nel 1938 e culminate nello sterminio durante la seconda guerra mondiale. Oggigiorno gli ebrei Italiani sono circa 35.000 e 12 milioni sono gli ebrei nel mondo. Origini L’origine del popolo ebraico risale ad Abramo, il quale ha per primo la percezione dell’unità di un unico Dio che è padrone non soltanto della terra e creatore di ogni essere vivente, ma è colui che ha creato l’universo e tutto ciò che è in esso. Il patto eterno stabilito fra Dio ed Abramo riguarda tutta la sua discendenza, ed è la circoncisione a cui si sottopongono tutti i figli maschi al compimento dell’ottavo giorno di vita. Ne sono esenti soltanto coloro che hanno dei seri e accertati rischi di salute. Credenze L’ebraismo è la prima delle tre grandi religioni comandate monoteiste. Nell’ebraismo non esistono santi e non viene fatta dall’uomo nessuna raffigurazione iconografica di tipo religioso. Il giudizio morale ha un valore personale in quanto l’uomo è a diretto contatto con Dio e non esistono intermediari, come non si pratica la confessione. Gli ebrei sono ancora in attesa dell’età messianica. I Rabbini sono maestri, persone sagge che hanno studiato ma non c’è una dottrina ebraica. Esiste invece una comune prassi ebraica: secondo il loro insegnamento (la Torà) gli ebrei si devono identificare per quello che fanno, non per quello in cui credono. Sacre scritture La TORAH (Pentateuco) di Mosè (la prima e la più importante delle tre parti dell’Antico Testamento) è considerato il libro sacro per eccellenza, per il contenuto fondamentale rispetto alle regole da seguire. Alla Torà scritta, si integra la Torà orale, ricevuta secondo la tradizione sempre da Mosé sul Monte Sinai ma tramandata oralmente da padre in figlio fino a che nel 200 d.e.v.6 è stata codificata da Rabby Jehudà. Il commento e la discussione rabbinica al testo è raccolto in un’opera mastodontica chiamata TALMUD.

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Luoghi di culto Il luogo di culto per eccellenza era il Tempio di Gerusalemme. Dopo la sua distruzione, non sono più esistiti altri templi ma solo Sinagoghe. La sinagoga (parola che deriva dal greco) è il luogo di riunione della comunità e di studio, l’intensa attività di studio è infatti una parte fondamentale della formazione degli ebrei. Festività Il calendario ebraico segue un ritmo lunare e non solare come quello a cui qui siamo abituati, la dicitura dei mesi è differente e gli anni non si contano ovviamente dalla nascita di Cristo, bensì dalla creazione del mondo: all’inizio del 21° secolo il calendario ebraico segna 5764 anni d.e.v. dalla comparsa del primo uomo sulla terra. Le festività ebraiche sono dettate dal testo della Torà e sono in considerazione di episodi fondamentali inerenti la formazione storico-politico-religiosa del popolo ebraico. Eccone alcune tra le fondamentali: SHALOSH REGALIM, tre Pellegrinaggi, chiamati così in base ad uno specifico precetto del testo mosaico che dice: “per tre volte durante l’anno, ti mostrerai al cospetto del Signore tuo Dio”; PESACH: cade intorno al Periodo della Pasqua cattolica e ricorda l’uscita dall’Egitto ed il passaggio del Mar Rosso, in questo periodo é proibito cibarsi di pane e cibi lievitati, in ricordo di quando gli ebrei, nella fretta di uscire dall’Egitto, non ebbero il tempo di far lievitare il pane; SHAVUOT: cade sette settimane dopo la festa di Pesach e ricorda la donazione del Decalogo, elemento fondamentale per la costruzione di un popolo; SUCCOTH: verso ottobre c’è la festa delle “capanne”, durante la quale, attraverso l’abitazione dentro capanne di frasche, si ricorda il periodo di quarant’ anni di permanenza del popolo nel deserto, prima dell’ingresso nella terra di Israele; ROSH HA SHANA’: il capodanno in cui si commemora la creazione del mondo e la comparsa dell’uomo sulla terra. In questo giorno inizia un periodo penitenziale, in cui si fa un esame delle azioni buone e non buone commesse nell’anno appena trascorso per promettersi in seguito un miglioramento di vita nell’anno che è appena entrato; KIPPUR è il giorno dell’espiazione delle colpe commesse nell’anno trascorso. Il riposo settimanale per gli ebrei è lo SHABBATH che dura dal venerdì all’imbrunire fino al tramonto del sabato. Durante questo lasso di tempo un ebreo praticante non può svolgere nessuna attività che rientri nella categoria ”lavoro”. Sarebbe auspicabile quindi rispettare la sua posizione qualora si rifiutasse di guidare, di scrivere o anche solo firmare un documento; di usufruire di mezzi pubblici o privati (quindi, per esempio, anche salire su una “volante”). Norme alimentari Le regole inerenti l’alimentazione ebraica vengono chiamate dalla tradizione KASHERUT, termine che deriva da KASHER che significa adatto; nel caso specifico adatto ad essere mangiato dagli ebrei. Le regole della kasherut sono estremamente complesse e minuziose e si basano prettamente su una forma di rispetto per la vita di esseri viventi e la non mescolanza di forme diverse di generi alimentari. La regola fondamentale da seguire in questo caso è la divisione tra carne e latticini. Sono inoltre proibiti alcuni tipi di carne come quella di cavallo. Questi punti possono essere tenuti in conto ad esempio nel caso dei pasti in carcere per un detenuto ebreo.

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Lingua L’ebraico è la lingua ufficiale dello stato d’Israele. Esso è una rielaborazione dell’ebraico biblico, che è la lingua dei testi sacri e della liturgia sinagogale, per la lettura e lo studio della Torà per tutti gli ebrei. La sua utilizzazione ha la finalità di tenere il popolo unito spiritualmente, anche se fisicamente abita in ogni parte del globo terrestre. È una forma e un mezzo di unità. Leggi È importante sapere che esiste una legge dello Stato chiamata INTESA (vi è un’intesa per molte religioni) che tutela gli ebrei che vogliono rispettare le loro festività col diritto all’astensione dal lavoro su richiesta del singolo. Anche nell’esercito può essere concessa questa facoltà. Ovviamente, nel rispetto di questo accordo, il sabato e le altre festività ebraiche non si possono tenere concorsi o esami pubblici.

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scheda su CRISTIANESIMO Il Cristianesimo si rifà all’insegnamento e alla testimonianza di Gesù Cristo, riconosciuto come Figlio e Rivelatore di Dio, come sua Parola venuta nel mondo a rivelarne il “mistero”. In quanto religione, il Cristianesimo propone una serie di riti, gesti e parole attraverso i quali ci si mette in contatto con Dio. In quanto a religione che, però, si rifà alla testimonianza di Gesù Cristo, esso suppone una decisiva adesione di fede. Senza fede in Cristo, Signore e Rivelatore del Padre, oltre che Maestro di vita e di sapienza, i riti resterebbero un fatto meramente oggettivo, senza nessuna valenza soggettiva e, dunque, una realtà incapace di coinvolgere la vita e i sentimenti delle persone. Divisioni Il Cristianesimo, a causa di contingenze storiche drammatiche e nelle loro conseguenze, purtroppo, non ancora superate, appare oggi diviso in diversi tronconi che seguitano ad essere tali nonostante un lodevole e sempre più significativo impegno nella ricerca dell’unità. Le confessioni cristiane, che pure riconoscono l’unico Cristo e ritengono il suo Vangelo come fondamento e ragione di vita, si separano in Cattolicesimo, Ortodossia, Luteranesimo, Anglicanesimo e altre confessioni minori. Il Cattolicesimo, che si riconosce sotto la guida del Romano Pontefice, abbraccia il mondo occidentale, il Centro e Sud America, parte del Nord America, alcuni stati balcani, Nazioni Africane cresciute all’ombra di Stati Europei e cristianizzate dai missionari, giovani nazioni dell’Estremo Oriente. L’Ortodossia raccoglie i popoli e le nazioni dell’antico Oriente greco-romano e la Russia, guidata dal Patriarcato di Mosca. Il Luteranesimo è presente in modo particolare nella Germania, nell’Olanda e nei Paesi del Nord Europa. L’Anglicanesimo riguarda l’Inghilterra e il Regno Unito. Esso mantiene ancora quelle dimensioni di Chiesa nazionale che, per ragioni storiche, lo caratterizzarono fin dalle origini. Sarebbe difficile dare delle varie confessioni le specificità teologiche. Basti sapere che gli studiosi sono impegnati nella ricerca di quell’unità, indubbiamente difficile, ma che pur tanto gioverebbe al futuro, alla crescita e alla credibilità del Cristianesimo. Credenze I Misteri fondamentali della fede cristiana sono tre – tre sono le cose veramente straordinarie, è stato scritto: l’unità e la trinità di Dio, la divinità e l’umanità di Gesù Cristo, la verginità e la maternità di Maria Santissima. Il calendario cristiano si sviluppa e ruota intorno a questi elementi fondamentali che sono, allo stesso tempo, oggetto di estatica contemplazione e motivo di stupita venerazione.

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Il Cristianesimo insegna a condurre la vita intorno ai Dieci Comandamenti e alle Otto Beatitudini. I Comandamenti sono gli stessi affidati da Dio a Mosè sul monte Sinai; le Beatitudini sono quelle che Gesù proclamò dal monte come da una cattedra solenne. Il Cristianesimo, infatti, riconosce come ispirati da Dio, e quindi come storia sacra, dunque come libro di Dio, sia i libri che raccontano le vicende e la saggezza del popolo d’Israele (Antico Testamento), sia i libri che raccontano la vicenda e la saggezza di Gesù e della Chiesa apostolica (Nuovo Testamento). I Dieci Comandamenti sono come la grande strada su cui i singoli e i popoli sono chiamati a strutturare la loro vita individuale e sociale. Le Otto Beatitudini sono invece la strada della perfezione praticata ed insegnata da Gesù. Fra gli uni e le altre nessuna opposizione, ma continuità e crescita, in coerenza con quanto affermato da Gesù stesso, il quale disse: “Non sono venuto ad abolire, ma a perfezionare la Legge” (Mt 5,17). L’amore di Dio e l’amore del prossimo costituiscono la quintessenza del Cristianesimo. Nella visione Cristiana, “prossimo” è ogni uomo. Qui, dunque, si supera il concetto di clan o nazione o di razza o di condizione e si stabilisce il criterio dell’amore universale. L’uomo è amabile perché è figlio di Dio. Questa affermazione vale sempre e comunque, in tutte le direzioni dello spazio e della storia. Il Cristianesimo predica un Dio attento alla storia dell’umanità. Come sua creatura privilegiata, l’uomo è seguito passo passo dal Signore che ne riscatta il destino, sia con la redenzione operata da Gesù con la sua morte e risurrezione, sia con la salvezza eterna generosamente offerta a quanti, amando, praticano la giustizia e la verità. Il Dio del Cristianesimo è un Dio condiscendente, e l’espressione massima di questa sua condiscendenza sono proprio le braccia di Gesù aperte sul mondo. Nomi e Volti Nomi importanti del cristianesimo sono: Maria, la Madre di Gesù e la Madre di Dio; Giuseppe, padre putativo di Gesù; Pietro, apostolo e primo Papa; Paolo, organizzatore di cristianità, testimone e martire; Giovanni Evangelista, discepolo e apostolo, fondatore di una scuola di pensiero all’interno della quale furono redatti il quarto vangelo e l’Apocalisse; gli apostoli. Sacre scritture I libri cristiani sono: i quattro vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), gli Atti degli Apostoli (Luca), le Lettere (Paolo, Pietro, Giacomo, Giovanni, Giuda), la Lettera agli Ebrei (Anonimo), l’Apocalisse (Giovanni). A questi libri, che narrano direttamente o interpretano la vicenda storica di Gesù, sono da aggiungere i libri dell’Antico Testamento, che la figura di Cristo preparano o profetizzano: il Pentateuco, i Libri Storici, i Libri Sapienziali e Libri Profetici. Tutti questi libri sono inseriti in un’unica grande collezione che ha come titolo la “Bibbia”. Per chi la desideri, sono varie le edizioni che aiutano a leggere e a capire la Bibbia. Fra le altre, per l’essenzialità e per la competenza scientifica, ricordiamo in questa scheda La Bibbia di Gerusalemme.

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I Luoghi del Culto Le chiese hanno un duplice scopo: quello di consentire alla comunità in quanto tale di radunarsi e di raccogliersi, e quello di conservare le specie eucaristiche, sia per l’adorazione personale e comunitaria, sia per il conforto dei malati e dei moribondi. Le feste Cristiane Le principali feste cristiane sono: la Pasqua, che fa memoria della Risurrezione di Gesù e che è preceduta da quello che appunto è chiamato il triduo pasquale: giovedì santo (che ricorda l’ultima cena), venerdì santo (che ricorda la passione e morte del Signore), sabato santo (che nella celebrazione della veglia pasquale rivive tutte le tappe della storia della salvezza); la Pentecoste, che ricorda la discesa dello Spirito Santo; il Natale (25 dicembre), che ricorda la nascita di Gesù. Usi Nel giorno del Battesimo, giorno in cui il cristiano s’innesta nella Chiesa, al cristiano si impone il nome. La Cresima è il giorno della piena assunzione di responsabilità circa la fede e dunque impegno forte alla testimonianza. La Comunione è il giorno del primo incontro con il Signore nell’Eucaristia. Questi tre sacramenti sono detti i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il calendario cristiano è scandito dai nomi dei santi. Giorni di digiuno e astinenza sono il Mercoledì delle Ceneri, con il quale comincia il tempo penitenziale della Quaresima, e il Venerdì Santo, in cui la Chiesa ricorda la morte del Signore Gesù. Sono giorni di astinenza dalle carni, ma non di digiuno, tutti i venerdì di Quaresima.

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Scheda su BUDDHISMO Il buddhismo rappresenta una forma di spiritualità molto diversa da quelle delle religioni bibliche (ebraismo, cristianesimo, islamismo) e costituisce un insieme di tradizioni e di fenomeni molto complesso, con profonde differenziazioni al suo interno, che però, in genere, non sono sfociate in scontri violenti. Due sono le maggiori correnti del buddhismo, il Theravada (“Dottrina degli antichi”), più comunemente noto con il nome di Hinayana (“Piccolo veicolo”), che però è denominazione molto limitativa, e pertanto è preferibile evitarla, e il Mahayana (“Grande veicolo”): i seguaci del Theravada sono diffusi soprattutto a Sri Lanka e nell’Indocina, quelli del Mahayana nell’Asia centrale e orientale. La forma di Mahayana diffusa in Tibet e tra i tibetani all’estero è conosciuta come lamaismo dal nome lama (“superiore”) attribuito ai maestri spirituali. Una denominazione complessiva del buddhismo che si fa strada anche in Occidente è buddhadharma, termine indiano che vale all’incirca come “dottrina e pratica buddhista”. I dati statistici relativi al numero dei buddhisti nel mondo variano anche di molto: secondo alcune fonti i buddhisti sono circa 360 milioni di persone, secondo altre parecchi di più. Questa incertezza è dovuta anche al fatto che almeno in alcuni Paesi è diffusa l’usanza di aderire sia al buddhismo sia a un’altra tradizione spirituale, per esempio in Giappone spesso le stesse persone seguono sia la tradizione nazionale, lo shintoismo, soprattutto per le usanze e le pratiche della famiglia e della comunità, sia il buddhismo, specialmente per le esigenze di una spiritualità più intima. Il buddhismo non si è mai posto limiti geografici o etnici per la diffusione del suo messaggio, e almeno dalla fine del sec. XIX si sta diffondendo anche in Occidente. Oggi i buddhisti italiani sono forse 75.000 circa. Bisogna comunque tenere presente che anche in Italia le forme di adesione possono essere molto varie e non escludono necessariamente un’adesione ad altre tradizioni. Testi fondamentali e lingue I testi più antichi del buddhismo sono molto probabilmente quelli in pali, un’antica lingua indiana, che costituiscono il canone, cioè la raccolta delle opere fondamentali, del Theravada: si tratta del cosiddetto Tipitaka (“I tre canestri”, che comprendono discorsi attribuiti al Buddha, insegnamenti e racconti vari); ai secoli attorno all’inizio della nostra era risalgono i principali testi del Mahayana, che sono in sanscrito, l’antica lingua dei dotti dell’India. Va chiarito che solo in certi casi le opere canoniche assumono un valore analogo per esempio alle sacre scritture che il cristianesimo considera rivelate da Dio: in genere si tratta comunque di testi autorevoli, che sono tali soprattutto all’interno di una certa corrente o in determinate diramazioni di essa. Nel corso del tempo sono stati spesso reinterpretati, integrati, o addirittura sostituiti con altri. Naturalmente con la diffusione del buddhismo al di fuori dell’India alle opere indiane se ne sono aggiunte altre, originali o tradotte, in cinese, giapponese, coreano, tibetano, ecc. Queste sono le lingue usate dai buddhisti dei vari Paesi; ad esse si aggiungono oggi le lingue europee, e l’inglese come lingua internazionale.

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Origini, storia e dottrine Il buddhismo deve le sue origini storiche a un nobile indiano d’incerta età (V sec. a.C.?) nato nella regione himalayana orientale, Siddhartha Gautama, che, rinunciando agli agi, avrebbe abbandonato la casa e la famiglia dandosi a vita ascetica, per cercare la soluzione al problema angoscioso del dolore e dell’insoddisfazione dell’esistenza, un problema universale che in India assume una dimensione del tutto speciale a causa della credenza che la vita sia solo un anello di una catena senza principio e senza fine fatta di nascite, morti, rinascite, ecc., il samsara, regolata da una legge di retribuzione delle opere compiute (il karman). Il futuro Buddha era uno dei tanti giovani che in quel periodo cercavano la liberazione dal samsara. Dopo una ricerca di anni avrebbe trovato la verità, raggiungendo il risveglio (bodhi), e da allora è stato conosciuto come il Buddha, lo “Svegliato”. Senza entrare in quei tecnicismi in cui eccelle la sottile intelligenza analitica buddhista, si può sintetizzare la verità da lui raggiunta nel riconoscimento che la dolorosità e l’insoddisfazione dell’esistenza nascono da fattori come il desiderio e l’ignoranza: annullandoli con una rigida disciplina di autocontrollo si può giungere a una condizione non dipendente da alcunché, cioè il nirvana (“estinzione”), che è molto difficile da definire, perché non è una specie di paradiso per anime perfette, tanto più che il buddhismo antico nega l’esistenza di un’anima permanente (è molto probabile che i buddhisti nel corso del tempo e a seconda della corrente del buddhismo di appartenenza abbiano inteso, e intendano, il nirvana in modi diversi). Dopo una vita tutta dedicata alla predicazione e all’insegnamento, il Buddha sugli ottant’anni sarebbe entrato nel parinirvana (“estinzione completa”). Ai suoi discepoli, soprattutto monaci e monache, ma anche laici, questi ultimi ovviamente tenuti a una disciplina meno rigida, il Buddha lasciò, oltre al modello della sua vita, una dottrina e un’embrionale organizzazione monastica che, con vari mutamenti, continua ancora oggi. Il Buddha in origine non era un dio, il buddhismo era una dottrina di perfezionamento spirituale e di distacco dal mondo, più che una religione come la si intende in Occidente; ma poi la venerazione per questa grande figura spirituale, le esigenze dei devoti, le tradizioni dei vari Paesi in cui il buddhismo si è diffuso, aprirono ampi spazi a bisogni che possiamo chiamare religiosi. Il Buddha storico fu visto come uno dei tanti Buddha che nei vari cieli e sulla terra incarnano la perfezione e la verità. Queste esigenze trovarono un pieno sviluppo nel Mahayana, nel quale i Buddha, i loro collaboratori Bodhisattva, che potremmo chiamare dei quasi-Buddha, e le loro partner femminili costituiscono un pantheon ricchissimo. Molti sono stati e sono gli sviluppi del Mahayana che in parte lo avvicinano all’induismo: tra questi, oltre all’intensa devozione religiosa e alla fioritura di grandi scuole filosofiche, la diffusione di pratiche di tipo yogico, in particolare di uno yoga che si usa denominare, dai testi (tantra) in cui è insegnato, tantrico e che punta soprattutto alla ricerca di una condizione di libertà e di potenza che possiamo chiamare magica: lo yoga tantrico ha avuto una grande diffusione in Tibet e in altri Paesi. Nelle diversissime forme del buddhismo un elemento centrale comune è dato dall’attenzione per l’interiorità, per la ricerca meditativa.

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Luoghi di culto Il grandissimo rispetto per il Buddha mentre era in vita non si traduceva ancora in atti di culto. Alla sua morte, dopo la cremazione, cominciò ben presto una forma di venerazione per le sue reliquie. A poco a poco, a partire da sacrari e tumuli, si è sviluppata una ricchissima tradizione figurativa: templi, pagode, statue, pitture, con alcuni capolavori di valore mondiale. A tutti i luoghi legati agli avvenimenti principali della vita del Buddha e delle figure principali del buddhismo vanno in pellegrinaggio, per portare offerte, purificarsi, ecc., numeri consistenti di devoti. Comunque i buddhisti, pur non disdegnando, certo, i luoghi e le immagini direttamente destinati a finalità di culto, come anche musiche, canti, processioni e rappresentazioni, possono praticare dappertutto e anche in silenzio, dato il carattere soprattutto interiore di questa tradizione. All’inizio i monaci si dovevano accontentare di ripari provvisori. Poi, grazie alla generosità di patroni devoti, comparvero i primi monasteri. Strutture di questo tipo si sono poi diffuse, raggiungendo talora dimensioni gigantesche, in tutte le terre nelle quali è avvenuta l’espansione del buddhismo: insieme luoghi di perfezionamento spirituale, di devozione, di culto e anche di studio (sono rimaste famose le cosiddette antiche università buddhiste: conventi indiani dove giungevano per istruirsi nel dharma, ma anche nelle varie scienze, cinesi, tibetani, coreani, ecc.). Feste In genere i buddhisti rispettano i calendari delle diverse tradizioni, quindi le feste stagionali, ecc., magari reinterpretandole. Una rilevanza ancor maggiore hanno alcune feste tipicamente buddhiste, come quella del vesàkh che nella notte di plenilunio del mese omonimo (tra aprile e maggio) celebra i tre massimi avvenimenti della vita del Buddha: la nascita, il conseguimento del risveglio e la completa estinzione. Si festeggiano anche le ricorrenze di altri avvenimenti, per esempio gli anniversari dei grandi santi, nei Paesi in cui essi sono vissuti, ma anche all’estero, tra i buddhisti emigrati da tali Paesi. Usanze funebri Il buddhismo ha grandi capacità di adattamento alle usanze dei vari Paesi in cui giunge, ovviamente se non contrastano in misura troppo forte con il dharma. Anche le usanze e le pratiche funerarie variano da Paese a Paese, e a seconda dei defunti: è ovvio che le onoranze funebri per un grande santo sono molto diverse da quelle rese ai defunti comuni, perché nel primo caso si tratta, per così dire, di un patrimonio spirituale con cui tutta una comunità vuole mantenere un legame, non soltanto di una persona la cui morte coinvolge presumibilmente solo un numero ristretto di familiari e conoscenti. I rituali sono spesso celebrati da monaci, come accade per esempio in Sri Lanka, dove si pensa che cerimonie funebri caratterizzate da donazioni agli officianti servano a un propizio trasferimento del merito acquisito da questi ultimi. Per passare a un altro Paese di cultura tipicamente buddhista, ma profondamente radicata in tradizioni e usanze locali, come il Tibet, nel Paese delle nevi le salme ricevono e soprattutto ricevevano, prima dell’omologazione che gli occupanti cinesi cerca-

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no d’imporre, i trattamenti più vari: cremazione, sepoltura, abbandono dopo uno smembramento perché possano cibarsene gli animali, ecc.: è evidente che usanze di quest’ultimo tipo, praticabili in Tibet, molto vasto e con bassissima densità di popolazione, non possono essere mantenute dai tibetani emigrati nel nostro Occidente così densamente popolato. Specialmente degna di nota è la recitazione del cosiddetto Libro tibetano dei morti, in realtà “Liberazione dallo stato intermedio (tra la morte e un’eventuale nuova nascita) mediante l’ascolto”, recitazione che si compie dopo il decesso, per liberare il defunto dalla rinascita o almeno per indirizzarne la rinascita verso le migliori condizioni spirituali possibili. Alimentazione Il buddhismo più antico prediligeva un’alimentazione di tipo vegetariano, questo soprattutto per ragioni di carattere morale (esigenze di rispetto per la vita anche animale, di evitare l’accumulazione di karman negativo) ma i monaci, dovendo vivere di elemosina, sono tenuti ad accettare in dono qualunque cibo, purché non si tratti di animali uccisi espressamente per loro. I buddhisti hanno usanze alimentari molto varie a seconda del Paese da cui provengono, e anche a seconda della corrente o tradizione cui appartengono, comunque molti di loro sono vegetariani, integrali o solo parzialmente. In genere comunque si pensa che il cibo debba essere assunto con quella moderazione che il buddhismo raccomanda come via di mezzo tra gli eccessi, secondo un ideale di vita semplice che mira a non provocare né squilibri né eccessivi coinvolgimenti con le esigenze del corpo. Nomi Molti buddhisti, e in linea generale i monaci, hanno nomi che si richiamano al Buddha, al dharma, ecc., come Buddhadasa (“Servo del Buddha”), Buddhadatta (“Dato dal Buddha”), ecc.

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I gruppi di contatto tra cittadini di origine etnica minoritaria e operatori di Polizia Riflessioni metodologiche su di un’esperienza a Bologna, Modena e Torino Le indicazioni che seguono sono state elaborate in seguito all’esperienza dei gruppi di contatto riunitisi a Torino, Modena e Bologna in seno ai progetti Napap e Pavement7. Non rappresentano uno schema di regole assolute perché per ogni situazione sono necessarie modalità di organizzazione e di gestione differenti. Tuttavia possono fornire alcuni utili suggerimenti per gestire al meglio incontri di tal genere, nel caso in cui si ripeta l’esperienza.

Partecipazione La costanza nella partecipazione ai gruppi di contatto è lo strumento migliore, anche se non sufficiente, per la buona riuscita del progetto, pertanto l’organizzazione, insieme alla preoccupazione di sollecitare la massima presenza degli immigrati e/o cittadini di etnie minoritarie, deve aggiungere la premura di assicurarsi la collaborazione dei dirigenti degli uffici delle Forze dell’Ordine di cui è richiesta la presenza, di modo che nei periodi programmati non siano loro assegnati altri incarichi.

Programma degli incontri È importante stabilire fin dall’inizio il numero minimo degli incontri in base ad una griglia di argomenti da trattare, programmando un tempo determinato per la discussione di ogni tema. I punti focali da trattare possono ovviamente essere modificati nel corso degli incontri: può accadere che i partecipanti propongano essi stessi nuove problematiche, oppure che ritengano poco importanti alcuni punti prestabiliti, o ancora impieghino tempi diversi da quelli previsti per la trattazione di un certo argomento. Parimenti, anche il numero di incontri dovrebbe potere essere variabile.

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Orari e durata degli incontri Gli orari e le giornate devono essere stabiliti assieme ai partecipanti per andare incontro alle esigenze dei più. Se infatti per le forze dell’ordine queste ore rientrano nelle giornate lavorative, allo stesso tempo per gli stranieri si tratta di ‘tempo libero’, per cui è necessario individuare la fascia oraria (preferibilmente il tardo pomeriggio) che non coincida con le ore di lavoro. Inoltre è possibile scegliere giornate non lavorative - per es. il sabato - solo su esplicita richiesta del gruppo, perché è impensabile pretendere disponibilità nelle uniche giornate di riposo della settimana. È utile stabilire la data dell’incontro volta per volta, cercando per quanto possibile di conciliare le esigenze della maggioranza. La durata degli incontri non dovrebbe (se non in casi eccezionali) superare le due ore; la concentrazione diminuisce e la discussione rischia di diventare meno proficua. È inoltre consigliabile non accumulare più di un incontro per settimana. Tuttavia, queste non dovrebbero essere regole fisse: dove un gruppo si sente di proseguire oltre le due ore o decide di incontrarsi in momenti sociali (cene, ecc.) questo dovrebbe essere incoraggiato.

Facilitatori Deve essere chiaro ai partecipanti che il facilitatore non ha il compito di insegnare loro qualcosa. Il ruolo del facilitatore dovrebbe essere quello di proporre gli argomenti (essendo quindi preparato sull’argomento), di stimolare il dibattito, di fare in modo che la discussione non venga monopolizzata dai più loquaci sollecitando gli interventi dei più timidi, infine di evitare che la discussione si allontani dal tema intrapreso. È ugualmente importante che il facilitatore non domini il gruppo. Se possibile dovrebbe portare il gruppo ad un’autonomia che renderà possibile la continuazione del lavoro del gruppo anche senza il supporto di un facilitatore esterno. È importante che il facilitatore arrivi per primo agli appuntamenti e sia pronto ad accogliere gli altri. È il punto di riferimento del gruppo, e questo contribuisce a creare coesione fra i partecipanti, premessa indispensabile perché si riesca a lavorare insieme con profitto.

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Uso di strumenti È necessario prendere nota della discussione. Anzitutto, è importante avere materiale scritto da rielaborare al momento della stesura delle conclusioni; in secondo luogo, è fondamentale che il gruppo non abbia l’impressione che del dibattito, alla fine, non rimanga traccia. È utile quindi l’uso della lavagna a fogli mobili su cui un facilitatore o uno dei partecipanti scriva ed evidenzi parole e ‘concetti chiave’ durante il corso della discussione. Appesi intorno alla sala, i cartelloni così preparati possono diventare utili in qualunque momento del dibattito per riprendere discorsi precedenti, per evitare di ritornare su argomenti considerati conclusi e per mettere in evidenza le contraddizioni che spesso emergono. Altrettanto utile può essere la presenza di un osservatore non partecipante, esterno al gruppo, che raccolga in maniera più estesa la discussione, riportando quindi anche singoli interventi che possono risultare decisivi nella stesura delle conclusioni. In questo caso è necessaria la totale estraneità dell’osservatore alla discussione. È anche possibile, per introdurre nuovi argomenti, fornire al gruppo articoli, o altro materiale, come spunto per la discussione o per presentare aspetti particolari del problema affrontato.

Stesura delle conclusioni Perché l’incontro conclusivo non risulti dispersivo, sarebbe utile che il facilitatore e l’osservatore non partecipante preparassero in anticipo una bozza di conclusioni tenendo ben presenti tutti gli appunti raccolti e facendola pervenire prima dell’ultimo incontro al gruppo che avrebbe così il tempo di rielaborarlo per presentare poi le proprie proposte di modifica. Nel caso non lo si faccia, potrebbero riaccendersi dibattiti considerati ormai esauriti e ciò impedirebbe la necessaria concentrazione per la stesura del documento finale. Inoltre una bozza di conclusioni faciliterebbe i partecipanti nel ripercorrere le varie tappe della discussione.

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Compenso per i cittadini di etnia minoritaria Se per le forze dell’ordine gl’incontri rientrano nelle ore di servizio, i cittadini di etnia minoritaria, mettendo a disposizione il proprio tempo libero, hanno diritto ad un compenso, o quanto meno ad un rimborso spese. Questo peraltro potrebbe costituire un incentivo importante alla partecipazione.

Il luogo d’incontro Il luogo d’incontro deve essere facilmente raggiungibile da tutti. La scelta del luogo degli incontri deve prendere in considerazione la disparità di potere tra gli immigrati e/o i cittadini di etnie minoritarie e le forze dell’ordine. Quindi potrebbe essere inopportuno tenere gli incontri presso la Questura o il Comando di PM che potrebbero, tra l’altro, indurre un rischio di accuse di “collaborazionismo” da parte di altri rappresentanti delle comunità immigrate. Meglio sarebbe organizzare gli incontri presso la sede di un’organizzazione degli immigrati o dei cittadini di etnie minoritarie o in un luogo neutro, quale una sede del Comune (o dei quartieri) diversa dal Comando di Polizia Municipale e normalmente frequentata da persone di origine etnica minoritaria e immigrati.

Alla fine degli incontri Se gli incontri fanno parte di un progetto più ampio, è importante che tutti i partecipanti, terminati gli incontri, siano tenuti al corrente degli sviluppi del progetto e di eventuali aggiornamenti per mantenere costante l’interesse e il loro coinvolgimento, e quindi motivarli nel caso in cui si richieda loro un ulteriore contributo anche in momenti successivi del progetto. Il gruppo di contatto può costituire la premessa per la creazione di un dialogo costante tra immigrati e/o cittadini di etnie minoritarie e forze dell’ordine che continui anche al di là del progetto. Bologna, gennaio 2001 Il gruppo di lavoro dei Gruppi di contatto tra cittadini di origine etnica minoritaria e operatori di Polizia nei progetti NAPAP e PAVEMENT

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D - Lista delle organizzazioni italiane impegnate nella lotta alla discriminazione razziale, etnica e religiosa Nota: la lista non è certamente esaustiva e nemmeno aggiornata all’ultima ora ma può costituire una traccia per i nostri lettori che si trovano ad operare in tutta Italia. A loro spetta comunque il compito di verificarne l’attualità ed eventualmente completarla. COSPE - Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti Via Slataper 10 - 50134 Firenze Via Lombardia 36 - 40139 Bologna c/o ITIC G. Galilei P.zza Sopranis 5 - 16126 Genova www.cospe.it CICL - Centro Islamico Culturale della Liguria Via Coronata 2/r - IT16152 Genova [email protected] ANOLF - Associazione Nazionale Oltre Le Frontiere P.zza Campetto1/7 - Genova IT ANOLF - Associazione Nazionale Oltre Le frontiere Via Rainusso 56/58 IT 41100 Modena [email protected] www.cislmodena.it/anolf/index Anolf Lombardia - Associazione Nazionale Oltre le Frontiere-Lombardia Viale F. Testi, 42 - IT 20099 Sesto San Giovanni [email protected] Anolf - Matera - Associazione Nazionale Oltre Le Frontiere Piazza Matteotti, 11, c/o Cisl - IT 75100 Matera Laboratorio migrazioni Salita della Fava Greca 8 - IT 16128 Genova [email protected] CSTM - Centro Studi Terzo Mondo via G. B. Morgagni, 39 - IT 20129 Milano [email protected] LIDLIP - Lega Internazionele per i Diritti e la Liberazione dei Popoli - sezione di Milano via Bagutta, 12 - IT 20121 Milano [email protected] Microcosmo Onlus Via Sport 9/D - IT 20020 Arese (MI) [email protected]

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CGIL Milano - Centro Immigrati - Confederazione Generale Italiana del Lavoro Milano C.so di Porta Vittoria, 43 - IT 20122 Milano [email protected] http://www.cgil.milano.it/CDLM/CentroImmigrati/Index.htm ASPP - Associazione Proiezione Peters C.P.169- Udine IT [email protected] www.fvg.peacelink.it/sogno/index.html CeSI - Centro Solidarietà Immigrati P.zza della Chiesa, 1 - IT 33050 Zugliano, Pozzuolo del Friuli (Ud) CdC - Centro delle Culture Via dell’Industria, 20/a - IT 34144 TRIESTE [email protected] Associazione Il Ponte Via Marconi, 36/b - IT 34133 Trieste [email protected] www.ilponte.ts.it CIR - Consiglio Italiano per i Rifugiati Corso Umberto I, 2 - IT 88061 Badolato, Catanzaro [email protected] www.cir.onlus.org Associazione Ricreativa Culturale Italiana Arci “Centro Servizi” Via P. Battaglia, 15 -IT91028 Partanna TP [email protected] [email protected] www.arci.it/sicilia.territoriali/singoli/trapani.html www.comune.partanna.tp.it/rete_civica/uffici/sportello/arci.asp Arci Circolo Samarcanda via Barone Lombardo, 38 - IT 92024 Canicattì (Ag) [email protected] Arci Nuova Associazione -Comitato di zona Jesi-Fabriano Via Posterma, 2 - IT 60035 Jesi (AN) [email protected] www.comune.jesi.an.it/arci/ Associazione Senza Confini Corso Mazzini, 64 - IT 60121 Ancona [email protected] http://space.tin.it/associazioni/tbugari/main.html E.T.N.I.C.A project - Provincia di Ancona - VIII Settore, Ufficio Progetti Comunitari Corso Stamira, 60 - IT 60100 Ancona [email protected] http://etnica.provincia.ancona.it Centro Lavoratori Stranieri della CGIL Piazza Cittadella, 36 - IT41100 Modena [email protected]

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Unione Italiana Sport Per tutti Comitato Regionale Emilia-Romagna, UISP Emilia-Romagna Via Riva Reno, 75/III – IT 40121 Bologna [email protected] www.progettoultra.it CESTAS - Centro Educazione Sanitaria Tecnologie Appropriate Sanitarie Via C. Ranzani, 13/5/F - IT 40127 Bologna [email protected] www.cestas.org Associazione Trama di Terre Via Aldovrandi, 31 - IT 40026 Imola (BO) [email protected] www.tramaditerre.org Centro di accoglienza per stranieri Via Marconi,11 - IT41015 Nonantola (MO) [email protected] http://www. comune.nonantola.mo.it Centro Stranieri del Comune di Modena Viale Montekosica, 6 - IT 4110 Modena [email protected] www.comune.modena.it/antenne Apm - Associazione per i Popoli Minacciati Portici/Lauben, 49 - IT 39100 Bolzano / Bozen [email protected] www.gfbv.it Ufficio Informa Immigrati del Comune di Belluno Via Gabelli, 11 - IT 32100 Belluno [email protected] www.comune.belluno.it/sportelli/informaimmigrati Gruppo Martin Buber - Ebrei per la Pace Via Nomentana, 55 - IT 00101 Roma [email protected] [email protected] Tavola della Pace Via della Viola, 1 - IT 06122 Perugia [email protected] www.tavoladellapace.it Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace Via della Viola, 1 - IT 06122 Perugia [email protected] www.entilocalipace.it Associazione Sportiva Afrogrifo Via Campo di Marte, 8/M - IT 06124 Perugia [email protected]

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Centro Baha’i - Perugia via Caprera,1 - IT 06100 Perugia [email protected] www.bahai.it/umbria/ Comune di Pistoia Centro Interculturale Via Trinci, 2 - IT 51100 Pistoia [email protected] www.comune.pistoia.it L’altro Diritto: Centro di Documentazione su carcere, marginalità e devianza Piazza Indipendenza c/o Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto n.9, 50129 IT Firenze [email protected] http://dex1tsd.unifi.it/altrodir/index.htm Abusuan Via Strada Vallisa, 67/68 - IT 70122, Bari [email protected] http://www.abusuan.com/it/navigation.htm# Il mondo nell’isola via Trento e Trieste, 10 - IT 24036 Ponte S. Pietro (BG) Asce - Associazione Sarda Contro l’Emarginazione - Onlus Vico San Nicolò, 3 - IT 09047 Selargius [email protected] http://web.tiscali.it/a_s_c_e/ Ideadonna - Insieme per i diritti all’eguaglianza e all’autodeterminazione della donna via San Anselmo, 27 - IT 10125 Torino [email protected] [email protected] www.arpnet.it/idead Associazione Oasi Via Rocco Cocchia, 16 - IT 84129 Salerno [email protected] http://www.voloasi.freeweb.supereva.it Associazione islamica Zayd ibn Thabit via Piazza larga al Mercato, 35 - IT 80142 Napoli [email protected] http://www.rcm.napoli.it/zayd/ Associazione ricreativa e culturale italiana - Napoli - Arci Nuova Asociazione- Napoli Piazza Dante, 89 - IT 80135 Napoli [email protected] http://www.arcinapoli.it ICS - Consorzio italiano di solidarietà via Roma 28 - IT 34100 Trieste [email protected] http://ip21.mir.it/ics/

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E - Bibliografia consigliata per l’approfondimento

Criminalità e sicurezza Bandini T., Gatti U., Marugo M.I., Verde A., Criminologia. Giuffrè, Milano, 1991. Barbagli M., Immigrazione e reati in Italia. Il Mulino, Bologna, 2002. Melossi D., Stato, controllo sociale, devianza. Bruno Mondatori, Milano, 2002. Palidda S., Polizia post-moderna: etnografia del nuovo controllo sociale. Feltrinelli, Milano, 2000. Pastore M., Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati. Quaderni ISMU 9/95. Ruggiero V., Economie sporche: l’impresa criminale in Europa. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

L’ immigrazione in Italia Colombo A., Etnografia di un’economia clandestina – Immigrati algerini a Milano. Il Mulino, Bologna, 1998. Dal Lago A., Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale. Feltrinelli, Milano, 1999. Osella C., Il popolo invisibile. Edizione Gruppo Abele, Torino, 1997. Stella G.A., L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Rizzoli, Milano, 2002.

Minoranze etniche e religiose Cacini S., La lingua degli shinte rosengre e altri scritti. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 2001. Carpati M., Zingari ieri e oggi. Edizioni Lacio Drom, Roma, 1993. Donini P.G. (a cura di), Il vicino e l’altrove. Islam e Occidente: due culture a confronto. Marsilio, Venezia, 2003. Gomes A.M., “Vegna che ta fago scriver”. Etnografia della scolarizzazione in una comunità di sinti. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1996.

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Gritti R., Allam M., Islam, Italia. Chi sono e cosa pensano i musulmani che vivono tra noi. Guerini e Associati, Roma, 1998. Kenrick D., Zingari dall’India al Mediterraneo. ANICIA, Roma, 1998. Kopciowski E., I libri dei profeti e la Torà oggi. Marietti, Genova, 1994. Marcetti C., Mori T., Solimano N., Pontecorboli A., Zingari in Toscana. Fondazione Giovanni Michelucci, Firenze, 1992/1993. Pardo L., Limud, Limudì – Uno studio, il mio studio. Bologna, Ed. Dehoniane, 1999. Piasere L., Italia Romanì vol. I. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1996. Piasere L., Italia Romanì vol. II. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1999. Piasere L., Pontrandolfo S., Italia Romanì vol. III. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1999. Rivera A., L’inquietudine dell’islam. Edizioni Dedalo, Bari, 2002. Toaff E., Elkann A., Essere ebreo. Bompiani, Milano, 1994. Williams P., Noi non ne parliamo. I vivi e i morti tra i Manus. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1996. Franci G.R., Il buddhismo (collana “Farsi un’idea”), Il Mulino, Bologna, 2004. Pasqualotto G., Il buddhismo. Bruno Mondatori, Milano, 2003. Gnoli R. (a c. di), La rivelazione del Buddha. Mondadori, Milano, 2001.

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Wieviorka M., La differenza culturale. Laterza, Bari, 1999. Remotti F., Contro l’identità. Laterza Bari, 1996. Semproni A., Multiculturalismo. La sfida della diversità nelle società contemporanee. Franco Angeli, Milano, 1996, Zani B., Selleri P., David D., La comunicazione. Carocci, Roma, 1998.

Razzismo, xenofobia, discriminazione Basso P., Razze schiave e razze signore. I Vecchi e nuovi razzismi. Franco Angeli, Milano, 1998. Bernadac C., Sterminateli. Fratelli Melita Editori, Roma, 1991. Bravi L., Altre tracce sul sentiero per Auschwitz. Il genocidio dei Rom sotto il Terzo Reich. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1999. Burgio A., L’invenzione delle razze. Studi sul razzismo e il revisionismo storico. Manifestolibri, Roma, 1998. Colasanti G., Il pregiudizio. Franco Angeli, Milano, 1994. Cotesta V., Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale. Laterza, Bari, 1999 Delle Donne M., Convivenza civile e xenofobia. Feltrinelli, Milano, 2000. Garonzi L., Art. 13. L’Unione Europea contro le discriminazioni. Istituto Provolo, Verona, 2000. Mazzara B.M., Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni interetniche. Carocci, Roma, 1996. Wieviorka M., Il razzismo. Laterza, Bari, 1996.

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Definizioni

antisemitismo Ostilità verso un gruppo particolare di persone che si considerano o vengono considerate ebree. In quanto rappresentazione psicologica, l’antisemitismo contiene elementi di irrazionalità, fanatismo e ossessione; si nutre di pregiudizi e stereotipi. Dal punto di vista sociale, come il razzismo, appare il prodotto degli antagonismi sociali esistenti, funzionale alla razionalizzazione delle crisi e dei conflitti socio-economici (ebreo come “capro espiatorio”).

assimilazione Definisce un processo unidirezionale di adattamento dello straniero al nuovo ambiente sociale. Ci si aspetta che l’individuo rinunci alle proprie caratteristiche linguistiche, sociali e culturali a favore di un suo completo assorbimento nella società ospitante.

criminalizzare Dal dizionario Zingarelli: • considerare criminale, trattare alla stregua di criminale, riferito specificamente a problemi o comportamenti politicamente o socialmente rilavanti: p.e., criminalizzare i drogati. Dal dizionario Garzanti: • considerare criminale ciò che giuridicamente non lo è: criminalizzare il dissenso è tipico dei regimi dittatoriali.

discriminazione Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica Gazzetta ufficiale n. L 180 del 19/07/2000 PAG. 0022 - 0026 ”Articolo 2

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Nozione di discriminazione 1. Ai fini della presente direttiva, il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. 3. Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri. 4. L’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è da considerarsi una discriminazione ai sensi del paragrafo 1.”

discriminazione nelle organizzazioni (o istituzionale) Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente ed in ogni aspetto la comunità che serve, a causa delle origini ”razziali” o etniche, della religione o credo, orientamento sessuale, età, disabilità o genre di alcuni membri di quella comunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei comportamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario, ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri di una comunità. Può verificarsi nel fallimento a fornire un servizio appropriato e professionale a tutti i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianza di opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un’organizzazione dipendente. Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazione, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore di discriminazione nell’organizzazione (o “istituzionale”). Da “Promuovere il mainstreaming: linee guida per l’erogazione e l’uso di servizi di consulenza sulla discriminazione istituzionale”, prodotto nell’ambito del progetto europeo “Consultancy on institutional discrimination” promosso da COSPE, RADAR, Reading CRE, DIMITRA con il sostegno della CE.

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diversity management La “gestione della diversità” è nata come metodo per migliorare la produttività, la creatività e l’efficienza di un’organizzazione, sia questa un’impresa privata, un’istituzione pubblica o un’associazione di volontariato. Tuttavia essa ha anche un effetto di contrasto alla discriminazione perché valorizza le diversità e le considera una ricchezza. Valorizzare la differenza deve avvenire a livello personale, interpersonale e nelle organizzazioni e ad ogni livello devono essere evidenti le ragioni e i vantaggi di valorizzare le diversità. Bisogna dunque cominciare dal livello personale e valutare che la prima differenza da essere valorizzata è la nostra personale. Ogni lavoro che valorizzi la diversità dovrebbe cominciare con una comprensione di chi siamo noi esattamente – culturalmente, demograficamente ed antropologicamente e cioè in relazione all’età, all’appartenenza etnica o cosiddetta “razziale”, alla religione, al genere, al Paese, alla comunità di origine, alla lingua, alle inclinazioni sessuali, all’educazione, alla classe sociale, e ai tanti altri aspetti che voi stessi potete elencare pensando ad una lista di elementi che vi descriva. Molti concordano sul fatto che uno degli scopi più importanti nella vita è di sviluppare al massimo la propria individualità e le proprie potenzialià che, in fondo, è un modo per dire essere i più diversi che possiamo essere, anzi unici, perché il massimo che io posso essere è molto diverso dal massimo di qualcun altro, date le differenze nelle esperienze di vita, nelle prospettive, nei talenti e nelle personalità.

immigrato La nozione di immigrato indica la persona nata all’estero, che si è installata nel Paese della sua attuale residenza, che abbia o no acquistato la nazionalità del Paese di residenza. Nel linguaggio comune, come in quello istituzionale e mediatico, con questo termine ci si riferisce indifferentemente a migranti, profughi, rifugiati: la categoria di immigrato consente di operare una gerarchizzazione all’interno della totalità apparentemente neutra degli stranieri, ed è spesso usata in modo stigmatizzante. Sono la storia, l’ideologia, la collocazione di classe a decidere la differenza tra straniero e immigrato. Alcuni stranieri non saranno mai immigrati (come ad esempio i nordamericani, i cittadini UE, ecc.); altri lo sono per definizione (come quelli provenienti dal sud del mondo). Se il termine straniero può essere usato semplicemente per designare uno status giuridico, quello di immigrato, in un certo uso che ne viene fatto, può rinviare ad una condizione sociale.

interculturalità Mira a preservare l’integrità della persona e delle collettività attraverso l’interazione positiva e la pacifica convivenza tra tutte le collettività, compresa quella autoctona. Per questo modello è necessario tenere conto delle esigenze dei nazionali e delle

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loro insicurezze di fronte al complesso fenomeno dell’immigrazione. È altrettanto necessario tenere presente le esigenze delle comunità immigrate e quindi l’accoglimento delle istanze dei nazionali va contemperato al riconoscimento delle diversità di tali collettività. Riconoscere e rispettare le differenze non deve però portare alla creazione di cellule isolate: l’obiettivo di fondo dell’integrazione è, al contrario, quello di realizzare interazioni positive tra nazionali e immigrati nel quadro di un dialogo che si articoli in più dimensioni, estendendosi così a tutte le sfere del convivere, e che sia in grado di arricchire entrambe le parti in causa. Una distinzione così netta tra multiculturalità e interculturalità sembra essere soprattutto italiana, mentre nel mondo anglosassone, e anche nell’Unione Europea, si parla più spesso di multiculturalismo, per quanto il termine sia inteso quasi sempre nell’accezione che si dà oggi in Italia alla parola interculturalità. Le società interculturali sono dunque società dove le diverse culture, i diversi gruppi nazionali, etnici e religiosi che vivono in uno stesso territorio mantengono relazioni aperte di interazione, scambio e mutuo riconoscimento dei propri valori e stili di vita e di quelli degli altri. È un processo, non una meta, dove si intrattengono relazioni eque nelle quali è riconosciuta ad ognuno la stessa importanza, dove non ci sono superiori ed inferiori. Molti autori vedono quindi come fondamentale nel termine interculturalità la capacità di lasciarsi “contaminare” e la capacità di decentrare i propri punti di vista. Nel multiculturalismo invece é evidente la separazione tra le culture che si palesa, per esempio, anche nelle separazioni spaziali tra i vari gruppi che vivono nelle grandi città inglesi, americane, canadesi. Dobbiamo a Umberto Eco l’introduzione del termine “transcultura”, che fa riferimento al termine anglosassone “cross-cultural”, per accentuare ulteriormente l’idea di dinamicità delle culture che nell’incontro si influenzano e si modificano reciprocamente. Balboni8 distingue la logica interculturale dalla logica multiculturale intesa, quest’ultima, come fase transitoria verso un’omogeneizzazione che negli Stati Uniti è definita come “melting pot”, dove ogni differenza culturale si deve fondere in una nuova realtà. L’interculturalità sarebbe invece “un atteggiamento costante, che prende atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogeneizzazione e mira solo a permettere l’interazione più piena e fluida possibile tra le diverse culture”. (…) Entrare in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i propri valori e far propri quelli del luogo in cui si espatria, significa: conoscere gli altri; tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera dell’immoralità che, secondo i nostri standard non intendiamo accettare; rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle diverse storie delle varie culture; accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti”. (Balboni, op. cit. pag.17)

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La caratterizzazione di Balboni ha il merito di mettere in evidenza ciò che comporta per il gruppo maggioritario la scelta dell’interculturalità. Essa presenta tuttavia, a nostro avviso, due limiti: il primo, di non esplicitare come questa prospettiva, quando riferita allo spazio pubblico e non a quella del privato cittadino, arrivi necessariamente a mettere in discussione l’asimmetria di potere tra il gruppo maggioritario e i gruppi minoritari; il secondo è il richiamo a elementi di moralità/immoralità che attengono unicamente alla sfera etica mentre meglio sarebbe parlare di diritti umani, nozione che chiama in causa l’agire politico e giudiziario. Sappiamo d’altra parte, che il carattere universale dei “diritti umani”, così come espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, è messo in discussione da alcuni analisti e da alcuni governi in quanto frutto di un’elaborazione che riflette la cultura occidentale e il volere dei Paesi occidentali che, in quegli anni, dominavano l’assemblea delle Nazioni Unite, al punto che sono state prodotte altre dichiarazioni (Carta africana dei diritti dell’uomo e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del Consiglio Islamico d’Europa). Tuttavia, in considerazione delle ampie aree di sovrapposizione tra le varie carte dei diritti dell’uomo su questioni come il diritto all’incolumità personale, alla libertà e ad una vita degna, e per l’ampio consenso su cui i principi enunciati sono fondati, alcuni autori (E. Berti, Il contributo della dialettica antica alla cultura europea, Conferenza tenuta al Senato della Repubblica il 25 febbraio 2003) ritengono possibile assumere i diritti umani come premesse a partire dalle quali si può argomentare per costruire le norme fondamentali di un’etica pubblica. COSPE da qualche anno ha adottato il termine interculturalità perché è il più ottimista, anche se si tratta più che altro di un principio che ad oggi non influenza le scelte politiche né a livello centrale né a livello locale e non sembra ancora avere ricadute sulla vita dei cittadini e delle cittadine.

integrazione C’è chi identifica l’integrazione con l’assimilazione etnica e, per questa via, arriva a dire che “L’integrazione degli immigrati implica la progressiva diminuzione fino all’eliminazione totale delle differenze etnico-culturali tra i vari gruppi di società globale”9 in una progressione che vedrebbe la prima generazione di immigrati disadattata e non integrata, la seconda a metà strada e la terza totalmente integrata. È evidente che questa concezione dell’integrazione è inaccettabile per due ordini di motivi: innanzitutto da un punto di vista etico perché l’assimilazione è generata dalla presunta superiorità della cultura che accoglie; in secondo luogo da un punto di vista pratico perché esso ignora che, accanto a spinte all’omogeneizzazione, esistono, e sempre più forti, dei processi di differenziazione etnico-culturale. Alcuni autori sono passati poi al concetto di conflitto culturale. Per questa via si è arrivati a dipingere un quadro a tinte piuttosto fosche delle migrazioni, trasformando l’immigrato in un individuo per lo più asociale e incapace di adattarsi alle nuove condizioni di vita (criminalità, conflitti familiari, malattie psichiche e psicosomatiche, ghettizzazione, emarginazione) che necessita del nostro aiuto. È evidente l’aspetto paternalistico, e quindi discriminatorio di questo approccio.

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Il problema di questo approccio è che vede il conflitto culturale come negativo e dunque da eliminare o ridurre e scarta a priori l’idea che il conflitto culturale possa invece esprimere la dialettica positiva tra le culture. È questo paternalismo il responsabile di molte strumentalizzazioni da parte di coloro che sostengono che rimandare a casa loro gli immigrati sia cosa buona per loro stessi perché li si rimanda nel loro ambiente socio-culturale dove si sentono a proprio agio. È dunque difficile dare una definizione unica del termine “integrazione” anche perché esso non descrive un traguardo ma, secondo il “Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia”10 della Commissione per l’integrazione del 2000, esso si situa piuttosto in un continuum che va dall’assimilazione all’interculturalità:

islamofobia Paura, diffidenza e rifiuto verso persone di religione musulmana. Alla base di tale disposizione è il pregiudizio antimusulmano, ossia la tendenza a “razzizzare” l’appartenenza religiosa, e a vedere negli individui di religione musulmana i rappresentanti di una totalità assolutizzata, essenzializzata, immutabile, sottratta alla storia e al mutamento, contrapposta ai caratteri di modernità, dinamismo, disposizione al continuo cambiamento attribuiti al mondo europeo. Il musulmano diventa così figura paradigmatica dell’alterità.

mainstreaming “Il mainstreaming ha lo scopo di integrare la lotta contro il razzismo come un obiettivo in tutte le azioni di una comunità e nelle politiche a qualunque livello (…). Per questo, si devono usare azioni generali e politiche per combattere il razzismo prendendo in considerazione attivamente, e in modo che sia visibile a tutti, l’impatto che queste azioni e politiche avranno nella lotta contro il razzismo, sin dal momento in cui esse sono pensate”. Da Realizzazione del piano d’azione contro il razzismo – mainstreaming la lotta contro il razzismo, rapporto della Commissione Europea.

marginalizzazione o esclusione Le politiche che si ispirano a questo principio riducono la partecipazione degli individui solo ad alcune, determinate, sfere della società (in genere quelle connesse col mercato del lavoro) rifiutandogli invece l’accesso alle altre dimensioni.

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multiculturalismo Coesistenza tra più gruppi che riescono a preservare le proprie tradizioni nei confronti del gruppo maggioritario. I vari gruppi rimangono distinti tra loro e dal gruppo maggioritario in ordine a lingua, cultura e tradizioni. Il rischio è la segregazione, la costituzione di comunità ripiegate su se stesse e non interagenti tra di loro.

pregiudizio Opinione o sentimento, di solito sfavorevole, precostituito sulla base di una limitata e inadeguata informazione (o perfino senza riferimento ad alcuna informazione, conoscenza o ragione). Spesso i pregiudizi sono sostenuti perfino di fronte alla prova del contrario.

razza Può sembrare strano che istituzioni internazionali, soprannazionali e nazionali usino la parola “razza” che, oggi sappiamo, è stata sconfessata dalla comunità scientifica, specie dai biologi che hanno riconosciuto come la divisione degli esseri umani in “razze” non abbia fondamento scientifico. Infatti, gli esseri umani possono più utilmente essere classificati, da un punto di vista biologico, secondo mille altri elementi che attraversano tutti i gruppi cosiddetti “razziali”. Molti gruppi sociali, per parte loro, rivendicano la loro differenza ( i neri, per esempio, e questo non attiene unicamente al colore della pelle), così come le donne l’hanno rivendicata nei confronti degli uomini. L’usare il termine razza offre la possibilità di dare un nome, e quindi riconoscere, la discriminazione che viene operata da alcuni soggetti e da organizzazioni nei confronti di altri proprio sulla base dell’appartenenza razziale e ci permette quindi di identificare il razzismo.

relativismo culturale Affermazione dell’uguale validità di tutte le culture umane e dei loro sistemi di valore. Proposto dalla scuola antropologica americana del novecento, postula la necessità di giudicare ogni valore in riferimento all’ambiente culturale in cui nasce. In una versione radicale, il relativismo conduce alla separazione tra le culture, considerate ingiudicabili, determinate, chiuse nella loro autonomia e di conseguenza non comunicanti fra loro, e rischia quindi di precludere la via al dialogo ed allo scambio interculturale.

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stereotipo Immagini fisse associate ad una categoria o gruppo sulla base di una limitata ed inadeguata informazione o conoscenza. Incasellando persone in quella categoria o gruppo, si ascrivono loro individualmente le caratteristiche associate alla categoria. Spesso gli stereotipi sono sostenuti perfino di fronte alla prova del contrario.”

xenofobia Indica la disposizione di una persona ad avere paura di altre persone o gruppi di persone percepiti come stranieri. La paura, la diffidenza e il rifiuto dello straniero nascono dall’idea che la contaminazione con l’Altro possa distruggere la propria identità etnica o culturale.

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note

1

Adattato da N. Leotta, E. Margelli (a cura di), Immigrazione svantaggio sociale e diritti umani, Acra (Associazione di Cooperazione Rurale in Africa e America Latina), Milano, 1991, Pubblicazione fuori commercio

2

Nella sola Francia, nel decennio 1990-1999, le acquisizioni di cittadinanza sono state 600.000 (dieci volte di più rispetto all’Italia) e il loro numero continua ad essere in aumento.

3

Per una analisi precisa della ripartizione territoriale e dei modelli d’insediamento si veda CARITAS, Dossier statistico immigrazione 2003, Ed. Nuova Anterem, Roma, ottobre 2002.

4

Caritas, op. cit.

5

Cfr. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Sagittari Laterza, Roma-Bari 1988, pagg. 36-38.

6

“dopo l’era volgare”, espressione ebraica per indicare l’era dopo Cristo.

7

NAPAP (NGOs and Police Against Prejudice), progetto transnazionale europeo sulla formazione della Polizia per l’agire in una società multiculturale. PAVEMENT (Paving the way across Europe for Art.13 of the Amsterdam Treaty), progetto transnazionale europeo con l’obiettivo di produrre raccomandazioni alla CE e ai governi nazionali per un’efficace implementazione dell’Art. 13 del Trattato che si esprime contro le discriminazioni operate sulla base dell’appartenenza etnica e religiosa, di genere, di orientamento sessuale, età e disabilità.

8

Balboni P.E., Parole comuni culture diverse, Marsilio Editori, Venezia, 1999

9

C. Giordano in Demetrio, Favaro, Melotti, Ziglio (a cura di), Lonatano da dove, Franco Angeli, Milano, 1990.

10

Da Commissione per l’integrazione, Dipartimento per gli Affari Sociali - Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia - Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, Dicembre 2000, pagg. 4 e seguenti.

progretto grafico: Cardo Riccardo finito di stampare nel giugno 2004

È il compimento di un lavoro avviato cinque anni fa, la storia di una collaborazione tra Polizia di Stato e COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti), nata per contribuire a fare della Polizia italiana una polizia capace di adeguarsi alla società che cambia, in grado di offrire un servizio adatto ad una società multietnica e multiculturale. Grazie al progetto europeo NAPAP (NGOs and the Police Against Prejudice), finanziato dalla Commissione Europea e dalle Polizie di molti Paesi europei, nel 1997 (dichiarato “anno europeo contro il razzismo”), prese avvio la formazione a carattere sperimentale di operatori di Polizia di Stato e di alcune Polizie Municipali. Da allora la collaborazione tra COSPE e Polizia di Stato si è consolidata dando vita, tra l’altro, alla formazione di formatori di polizia, alla traduzione della Carta di Rotterdam e, da ultimo, a questo manuale. Anche questo manuale è prodotto nell’ambito di un progetto europeo chiamato TRANSFER e ha perciò potuto godere del sostegno e del parere dei tanti amici e colleghi di altri Paesi dell’Unione, alcuni dei quali ormai ci accompagnano in questo lavoro da anni - come la Scuola di Polizia di Catalogna e il Centre UNESCO de Catalunya; altri - come l’Accademia di Polizia di Stoccolma e Mångfald Utveckling, An Garda Siochana (Polizia d’Irlanda) e i numerosi rappresentanti di associazioni irlandesi - conosciuti proprio grazie al progetto TRANSFER.

Con il contributo del "programma di lotta contro la discriminzione" della Comunità Europea.

Il libro è il risultato degli sforzi di una squadra costituita da operatori di polizia, persone a rischio di discriminazione per ragioni “razziali”, etniche e religiose e persone impegnate nella lotta alla discriminazione. E’ dunque il prodotto evidente della possibilità di dialogo e comprensione tra realtà diverse e di quella comunicazione attraverso le diversità che è l’elemento centrale di tutto il testo. Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sulla Polizia vista dalle persone di origine etnica minoritaria sono opera di Tso Chung-Kuen e Demir Mustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia specifica e la supervisione sono del Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persio che, assieme a Patrick Johnson, ha prodotto il capitolo sulla discriminazione. Il capitolo sulla criminalizzazione dei migranti è da attribuire a Cristian Poletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4, i suggerimenti per la formazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha curato la scheda sull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica di Bologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sul buddhismo e padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. Costantino Tessarin ha redatto l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è di Marina Pirazzi. Il manuale è stato letto dal comitato di consulenza costituito da Udo Enwereuzor, Cosimo Braccesi, Rossella Selmini, Samanta Arsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, Giulio Soravia, Mato Jora e da numerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputo offrire spunti e suggerimenti importanti per il suo miglioramento.

Il servizio di polizia Il servizio di polizia per una società multiculturale - un manuale per la Polizia di Stato

Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti ONLUS

Questo lavoro è stato ideato ad uso di quei funzionari, responsabili di Uffici e Reparti della Polizia di Stato italiana, chiamati a formare i propri operatori ad agire come Servizio e non come Forza di Polizia, in un contesto sociale connotato dalla diversità la quale impone l’acquisizione di un saper essere, prima ancora che di un saper fare, improntato alla mediazione dei conflitti, alla negoziazione, alla capacità – come sottolinea il Codice Etico Europeo per i Servizi di Polizia - di comunicare, di comprendere le problematiche sociali, culturali e comunitarie, combattendo il razzismo e la xenofobia.

per una società multiculturale un manuale per la Polizia di Stato

Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione