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Notizie sullo stato dell'architettura del paesaggio in Italia. Fabio Di Carlo - Giugno 2013. L'attuale stato di crisi dell'università italiana, di cui tutti parlano ...
Notizie sullo stato dell’architettura del paesaggio in Italia Fabio Di Carlo - Giugno 2013

L’attuale stato di crisi dell’università italiana, di cui tutti parlano diffusamente, rischia di travolgere anche uno spezzone della formazione, quale quello dell’architettura del paesaggio, di grande importanza, ma ancora con alcune debolezze strutturali. Siamo in una fase interlocutoria e credo quindi possa essere utile rappresentare la situazione, anche se, per chi come me si è da sempre interessato di Architettura del Paesaggio - o meglio di Arte dei Giardini, come ho sempre amato definirla - tracciare un quadro della situazione rispetto all’insegnamento di queste materie, richiede una distanza critica non semplice rispetto agli avvenimenti recenti. Il coinvolgimento diretto e quindi i toni a tratti passionali potranno testimoniare tale difficoltà in questo senso. Ma con l’ottimismo che è proprio di chi fa paesaggio – cosa c’è di più ottimistico di piantare un albero o di seminar qualcosa - voglio iniziare con una buona notizia. Quest’anno al XXII Festival International des Jardins di Chaumont-sur-Loire sono presenti tre giardini di giovani progettisti di paesaggio italiani. Ogni anno il festival, che è l’appuntamento più significativo rispetto all’innovazione sul giardino e sul paesaggioi, realizza circa 25\28 giardini sperimentali, di cui alcuni da grandi firme del paesaggismo ed altri attraverso un concorso internazionale aperto a progettisti di giardini, creativi ed artisti, gruppi multidisciplinari, nonché a studenti di scuole di progettazione del paesaggio. I tre giardini sono di Daniela Borroni, Susanna Rossellini e Simona Venturelli con Courir pour voir la couleur du vent, provenienti tutte dal Politecnico di Milano; Matteo Veronese e Martina Mangolini, che hanno studiato a Genova e Venezia, con Le sentiment bleu; Fabio Ferrario, architetto formatosi poi al paesaggio a Roma, con Elisabetta Pallone, graphic designer, che hanno realizzato Le parfum du blanc, un giardino con una pergola pensata come “corno dell’abbondanza…Sotto l’ombra della pergola, ci si ritrova in un’atmosfera isolata dal mondo … riscoprire la bellezza della semplicità e la purezza dei colori che simboleggiano il trionfo dei fiori bianchi e dei loro profumi ancestrali” (dalla relazione di progetto).

Non sono di certo i primi e gli unici ad avere raggiunto questi risultati. Sin dagli anni iniziali di apertura dei corsi di paesaggio, si capiva chiaramente che la creatività italiana riusciva ad esprimersi bene anche nello specifico del progetto di giardino. Solo per ricordarne altri usciti dalla scuola di Roma, nel 2003 nella manifestazione “Hortus Artis” presso la Certosa di Padula, condotta da Achille Bonito Oliva, un gruppo di studenti iirealizzò COMPOST, affianco ad opere di WEST8, di Atelier Le Baltò, di Topotec1 ed altre grandi figure di prestigio internazionale. Di nuovo a Chaumont-sur-Loire, nell’edizione 2007 studenti di paesaggio di Roma realizzarono UNDERGARDEN, una riflessione tra street art e giardinoiii. E poi, last but not least, un gruppo che includeva i promotori stessi di questa rivista, nel 2008 realizzavano REPOS ÉTERNELiv, pubblicato su riviste del settore in Italia e in diversi altri paesi. Potrei andare avanti a lungo con i risultati recenti e passati, della scuola di Roma e di tutte le altre italiane, con altri concorsi, contesti ed eventi; oppure potrei raccontare delle evoluzioni professionali di molti giovani paesaggisti. Tutto testimonia di un possibile futuro potenzialmente promettente e che gli studenti che in questo decennio trascorso hanno frequentato i corsi di studi in paesaggio in Italia, erano e sono rappresentazione di un livello di formazione che permette in termini qualitativi un confronto diretto con il panorama internazionale. Il quadro attuale vede invece questi corsi, paradossalmente, sempre più spesso marginalizzati. Ci si trova spesso a dover discutere sulla progressiva conclusione proprio di quei corsi di studi che hanno prodotto questi risultati: un personale ridotto a circa 30 unità su tutto il territorio a causa del suo mancato rinnovo, corsi che chiudono o che si fondono con altri sino a perdere di visibilità e continue discussioni sul “diritto” di

esistenza di questa formazione. L’obiettivo principale di questo breve saggio sarà quindi fare una riflessione sull’insegnamento dell’architettura del paesaggio nel nostro paese a circa dodici anni dall’introduzione di questi esperimenti nelle nostre università e sulle motivazioni di questo stato di crisi. Il titolo, non a caso, è in realtà la parafrasi di quello di un libro che Pierluigi Nicolin pubblicò nel 1994, “Notizie sullo stato dell’architettura in Italia”v, dove in sintesi l’autore si chiedeva perche mentre in tutta Europa si assisteva ad una esplosione dell’interesse verso la cultura architettonica, connessa ad un’innovazione generale della produzione progettuale e realizzativa, in Italia regnasse una pluridecennale stagnazione. Erano i tempi di Tangentopoli, molti progetti si fermavano per la crisi che ne derivò, altri semplicemente perché erano figli distorti di quella stagione. L’Italia non era in sostanza, dal dopoguerra, un paese, se non sul piano delle riflessioni teoriche e di poche realizzazioni, a cui guardare per lo sviluppo della cultura architettonica. Molta produzione edilizia ordinaria, le città senza autore che continuavano a crescere, in particolare le periferie, senza identità ed interesse né per i fruitori, ne per gli addetti ai lavori. Dopo circa vent’anni siamo di nuovo in crisi profonda, ma nel frattempo non si fa altro che parlare di architettura, su tutti i magazine, in televisione e su altri media. Anche alcune nostre città hanno i loro edifici firmati da archistar che, come nuovi landmark e fuochi di attrazione, fanno parte dei circuiti di turismo, specializzato e non. Forse non è tutto cambiato, soprattutto rispetto alla produzione e alle trasformazioni ordinarie delle città e rispetto al lavoro di tutti quei professionisti non classificabili come star, ma qualcosa di certo si è modificato rispetto alla consapevolezza che l’architettura esiste. Il parallelo, vent’anni dopo, spostato sull’architettura del paesaggio, in particolare sul suo insegnamento, con crisi istituzionale ed economica evidenti, mi sembra abbastanza semplice ed evidente. Anche di paesaggio oggi si parla moltissimo, spesso anche in sedi non proprie e con grandi approssimazioni. Ma di nuovi paesaggi e in particolare di interventi significativi, ne realizziamo molto pochi nel nostro paese, soprattutto di esempi innovativi, tali da rientrare nel novero degli interessi degli architetti del paesaggio. E quindi ai nostri colleghi, professionisti e\o docenti, che conoscono molto bene il nostro paesaggio agrario e i lustri di paesaggi, parchi e giardini storici, se ci chiedono quali nuovi interventi di paesaggio sono stati realizzati o in corso di studio o realizzazione, preferiamo continuare a dire, come diceva P. Nicolin nel ’94, “… per paura di fare brutte figure, diciamo sempre più spesso che non succede niente”. La domanda sostanziale è quindi quale prospettiva culturale, didattica, accademica stiamo costruendo in questa fase nel nostro paese a fronte di un’aspettativa diffusa, della società, nei nostri partner europei, perfino del Presidente Napolitano che ci ha richiamati in uno dei suoi discorsi di fine d’anno in questo senso? Alcune precisazioni: distanze e miopie Preciso che intendo parlare dell’architettura del paesaggio e del suo insegnamento, non dello stato del paesaggio in Italia in generale. Ovvero voglio evitare alcuni possibili equivoci e prendere alcune necessarie distanze funzionali alla comprensione di queste parole. Voglio anzitutto evitare di parlare del problema del paesaggio e della gestione del territorio in tutta la sua ampiezza problematica, strada che per le sue implicazioni ci distrarrebbe dal nostro oggetto principale. Preferisco poi esplicitare chiaramente una posizione ideologica e prendere una chiara distanza verso chi sovente parla di una sorta di “grande malato”, il paesaggio appunto, che nell’immagine troppo spesso veicolata dai principali mezzi di comunicazione, appare come grande problema, anziché come opportunità. Un paesaggio sul quale sembra quasi che le uniche azioni trasformative da intraprendere possano essere esclusivamente cautelative: curare, preservare, tutelare, e ancora tutti i verbi con prefisso ri- o re-: ristrutturare, recuperare, riqualificare, ripristinare, ed altro. Posizioni di grande rispetto e a volte di interesse, ma che mal celano spesso un’idea conservativa e di mantenimento del patrimonio come problema prevalente o spesso unico. Quasi che il paesaggio fosse un bene statico, invece di quel sistema evolutivo, espressione costantemente aggiornata delle società che lo producono, come invece da più parti è invocato. Penso invece al paesaggio come occasione di progetto e come viatico quindi per questa sorta di miopia che genera solo posizioni di protezione e tutela del patrimonio e dell’ambiente, come strumenti unici per la loro conservazione e trasmissione futura. Sono inoltre distante dall’identificazione unica del paesaggio con quello dei luoghi naturali o antropici di alta qualità universalmente riconosciuta, secondo un ragionamento che non appare neanche sfiorato da quanto ormai invece consolidato almeno a livello europeo: il paesaggio è tutto e ovunque e le qualità del paesaggio

debbono far parte della quotidianità di tuttivi. O da altri paradigmi semplificativi e ricorrenti, per i quali la tutela e trasmissione del patrimonio possa esser garantita solo attraverso il grado minimo di trasformazione dell’esistente, quasi un “non fare”. Oppure un fare teso solo a minimizzare e mimetizzare le trasformazioni o a mitigare il loro impatto, coprendo spesso con l’autorevolezza di posizioni intellettuali e di potere, l’ipocrisia dell’incapacità di un pensiero positivo complessivo dell’azione trasformativa. Il paesaggio, per fortuna non sono io a dirlo, è dato di per se evolutivo, frutto del cambiamento storicamente determinato delle società, delle proprie culture, delle produzioni e delle modalità di insediarsi in un territorio. E quindi appare evidente che in realtà il problema reale sia la nostra incapacità di gestire in maniera sapiente, bella e di qualità, le trasformazioni e\o di definire, necessariamente e obbligatoriamente, il nostro paesaggio, in termini funzionali, simbolici e culturali, affianco e\o sovrapposto e\o integrato a quelli preesistenti, per aggiornare e ulteriormente sedimentare il nostro patrimonio. Patrimonio che invece si vorrebbe cristallizzato e musealizzato. Giovanni Klaus Koenig giustamente sottolineava già all’inizio degli anni Novanta, i limiti della Valutazione di Impatto, presentando un paradosso: “Penso a cosa sarebbe successo se Filippo Brunelleschi avesse dovuto presentare il modello della sua Cupola a una ipotetica Commissione per la V.I.A.” vii. Aggiungo facilmente che lo stesso potremmo dire di infinite altre opere di tutta la storia dell’umanità. Ma quindi resta il problema: cosa si è rotto rispetto a questa capacità di poter guardare all’innovazione come un dato realmente positivo, nel senso del miglioramento e della gratificazione delle società? Vorrei infine evitare di rappresentare l’approccio opposto, che coincide con la convinzione che la progettualità e le sue qualità estetiche intrinseche possano rappresentare risposta in se esaustiva delle questioni legate alle difficoltà del fare paesaggio nel nostro paese, ovvero che il gesto ideativo e la sua forza possano costruire una risposta efficace a questo stato di difficoltà. È quasi una posizione opposta alla precedente, una sorta di ottimismo del “fare dimostrativo” che aspira a proiettarsi, attraverso una dimensione quasi utopica, oltre la contingenza. Forse un’altra forma di miopia, anche se positiva

Riforme e controriforme Ad uso dei non avvezzi al linguaggio ministeriale o per chi era allora molto giovane, tra il 1999 e il 2000 accadde una serie di cose importantissime per questo nostro racconto e per l’università tutta. Nel 1999 venne sottoscritta la Dichiarazione di Bologna e si avviò il processo di un sistema che ampliava, anche sul piano terminologico e valutativo, le possibilità di confronto e di riconoscimento delle esperienze formative a livello europeo, permettendo anche un’ampia mobilità di studenti, ricercatori e quindi anche di professionisti. Nello stesso anno si varava anche la legge 509, detta riforma Berlinguer, che attraverso lo strumento dell’autonomia delle sedi universitarie, permetteva un’ampia possibilità di tracciare percorsi formativi nuovi, di maggior specializzazione, anche per dare finalmente riconoscimento ad alcune nuove figure professionali che, di fatto, la società aveva prodotto o richiedeva e che fino ad allora si erano costruite esclusivamente sul campo, al di fuori o a lato dell’università. Rispetto alla formazione sul paesaggio, il Consiglio d’Europa emana nel 2000 la già citata Convenzione Europea del Paesaggio. Non un dispositivo comunitario, ma uno strumento di indirizzo, che impegnava i paesi sottoscrittori alla trasformazione in leggi nazionali e alla diffusione di alcuni dettami, tra i quali appunto la diffusione della conoscenza, della sensibilizzazione e degli studi sul paesaggioviii. Tutto ciò produsse un grande fermento. Il convergere di strumenti diversi, con una grande coincidenza di tempi, permetteva, non solo nel nostro specifico, di ridisegnare l’università tutta e di aggiornarla ad una realtà trasformata. Credo di poter affermare che sia stato l’ultimo grande progetto di università che possiamo ricordare. Tutto ciò che è seguito sino ad oggi in termini di riforme, oltre a portarci nelle difficoltà di cui tutti parliamo, non ha avuto neanche lontanamente la portata progettuale di quella legge che, al di là di alcuni limiti oggettivi, cercava di prefigurare con i suoi strumenti una nuova università per un società e un contesto mondiale che intraprendeva un percorso di modificazione profondo, di cui forse solo oggi riusciamo a valutare i primi effetti. Le facoltà di Roma, Genova, Reggio Calabria, Firenze, che già in forme diverse avevano cercato di costruire dei percorsi sperimentali o di perfezionamento, attraverso le scuole di specializzazione o attraverso la

formazione di nuclei forti di docenti di paesaggio, subito si indirizzavano alla costruzione di percorsi di studi completi di paesaggio, piani di studi 3+2, che spesso in forma anche pionieristica, si mettevano sul mercato con risultati numerici che peraltro non tardarono ad arrivare, anche se in maniera differenziata. Gli anni successivi sono stati per molti un rincorrersi di numeri crescenti, ai quali si riusciva a tener testa con difficoltà, data l’esiguità dei docenti. Dal 2001 sino al 2010, le menti più vivaci ed esperte del paese, prese dalla professione o da dottorati di ricerca e altro, furono coinvolte in insegnamenti a contratto, spesso non retribuiti o comunque sottopagati, sotto un’unica grande tensione: costruire, come negli altri paesi europei dove questi studi erano consolidati, una prospettiva forte per questi studi. Con il senno del poi, sulla Riforma e le sue ricadute generali, potremmo dire molte cose. Ad esempio che, come spesso accade, si trattava di una riforma che, non avendo corrispettivi in termini di stanziamenti di risorse, soffriva un po’ di afasia: il moltiplicarsi dei corsi di studio e della domanda non corrispondeva alla programmazione di nuovi ruoli di docenza o ad un diverso indirizzamento delle risorse esistenti. Poi di certo si ingenerò un meccanismo di proliferazione dell’offerta in tutte le direzioni, dove le novità reali fiorivano affianco ad altre, figlie di vecchie dinamiche di funzionamento accademico. Ma per quello che riguarda il Paesaggio eravamo certi di alcune cose: stavamo costruendo una cosa nuova e i nuovi architetti del paesaggioix che stavamo formando sarebbero stati degli absolute beginners, delle figure che, pur in un quadro normativo non ancora del tutto determinatox e di mercato ancora in via di formazione, si presentavano come i primi, quasi assolutixi, di una nuova categoria professionale. Gli ordini professionali, anche se con difficoltà, definirono delle nuove sezioni indirizzate a questa, come ad altre nuove professioni derivate da quella originaria, pur nella contraddizione del mantenimento della figura dell’architetto come figura che deteneva comunque un primato, nella possibilità di azione indiscussa in tutti questi campi. Anche sul piano del mercato si muoveva qualcosa. Vivaisti, imprese del verde, costruttori mostravano un certo interesse per queste nuove figure. Il progetto era semplice: una laurea triennale capace di fornire un primo gradino, di base ma solido, per una prima professionalizzazione direttamente spendibile. Un laureato triennale, il “piccolo giardiniere”, come lo definiva scherzosamente Salvatore Diernaxii, capace di collaborare con le sue specificità in uno studio di progettazione, ma anche di lavorare presso aziende del verde o in autonomia progettuale per interventi di piccola e media complessità. Seguiva poi la formazione dell’architetto del paesaggio, che approfondiva sia sul piano tecnico che su quello teorico quanto già appreso e si prestava alla possibilità di progettare anche su dimensioni e responsabilità più ampie, peraltro tabellate per decreto. I corsi nascevano in seno alle lauree triennali in architettura, con un forte imprinting progettuale e vicinanza a quelli di architettura. C’erano, e persistono, in vero alcune limitazioni forti, quali l’impossibilità di lavorare su qualsiasi forma di struttura architettonica. Si faceva la battuta che il laureato poteva progettare un parco o un giardino, ma non una cuccia per il cane o un capanno per attrezzi. Ma di queste cose i nostri studenti si preoccupavano fino ad un certo punto, consci di compiti ben più interessanti erano alla loro portata. Peraltro questo profilo di studi ottenne agevolmente anche il riconoscimento dell’EFLA (oggi IFLA Europe), ovvero dell’organismo europeo preposto al riconoscimento dei percorsi di studi in paesaggio. Di fatto, nonostante le difficoltà attuali e il ritardo del paese rispetto alla costruzione di un background complessivo, giovani paesaggisti si sono diffusi sul territorio, nelle pubbliche amministrazioni, come nel lavoro di imprese e studi professionali. Tutte le amministrazioni cominciano con difficoltà, anche per effetto della trascrizione della Convenzione Europea del Paesaggio da parte del cosiddetto Codice Urbani, a confrontarsi con questi temi. Allo stesso modo negli studi di architettura e nelle imprese i giovani paesaggisti cominciano a trovare spazi, mostrando che, almeno in termini commerciali, il plus valore destinato all’attenzione ad alcuni aspetti paesaggistici e\o ambientali al progetto rappresenta una maggior spendibilità, sul mercato come nel rapporto con amministrazioni e comunità. Purtroppo di quella fase e di quanto si costruì non resta che una tenue luce. Il suo respiro progettuale è stato progressivamente smontato da una serie di riforme, che forse potremmo meglio definire controriforme proprio per il loro carattere, che non esito a definire oscurantista.

Una serie di non-progetti, volti solo alla cosiddetta razionalizzazione e alla sostenibilità dell’offerta formativa, sulle quali potremmo spendere fiumi di parole xiii. E purtroppo da destra come da sinistra. La sequenza delle riforme Moratti-Mussixiv e Gelmini e l’adeguamento ai loro regolamenti hanno prodotto e continuano a produrre quella contrazione delle università pubbliche di cui tutti parliamo, con atteggiamenti da parte di alcuni atenei che vanno anche oltre lo stretto dettato normativo. Il processo è stato disastroso e, inutile quasi dirlo, i corsi di studi di paesaggio hanno pagato un duro scotto e stanno progressivamente scomparendo, sia nei contenuti, che nel quadro generale dell’offerta formativa. Senza voler entrare eccessivamente in tecnicismi, è necessario evidenziare che l’azione congiunta delle riforme recenti e dei relativi strumenti, di fatto costituì un passaggio di estrema difficoltà: l’impossibilità effettiva di costruire una triennale di architettura del paesaggio, ma solo all’interno dei percorsi di studi urbanistici o adesso come percorsi curriculari di lauree in architettura; la riscrittura di una laurea magistrale (ex specialistica) del tutto priva di alcuni contenuti e attribuzioni professionali assimilabili a quelli europei; l’azione progressiva di imbrigliamento dell’offerta in numeri sempre più contenuti attraverso l’imposizione di parametri sempre più restrittivi e l’impossibilità di completare la propria offerta formativa con docenti a contratto. Un innalzamento continuo di soglie che sta producendo effetti devastanti che assieme altri dispositivi di natura economica sempre nella direzione del restringimento (blocchi del turn over e quindi la progressiva diminuzione dei docenti competenti), stanno facendo il resto. Reggio Calabria ha chiuso i sui corsi in paesaggio, Venezia la sua laurea magistrale, Genova e Roma hanno visto la scomparsa delle lauree triennali originarie per conservare solo dei percorsi curriculari all’interno delle lauree brevi in architettura; pur mantenendo le lauree magistrali che rischiano in vero un processo di svuotamento dal basso. Vanno aggiunte ancora un dato ed una riflessione. Il dato riguarda la fioritura di diversi corsi triennali, diversamente intitolati al paesaggio sorti attorno al 2005, una seconda ondata di corsi di studi, in particolare di lauree triennali all’interno dei profili di studi ad indirizzo urbanistico o di scienze agrarie (le cosiddette classi di laurea 21 e 25). In modello trovò molto spazio, sia nelle scuole di agraria, che in quelle di architettura. Una ricognizione di due anni fa vedeva otto sedi impegnate in questo senso. La riflessione invece riguarda il livello di capacità progettuali che questi corsi riuscivano ad esprimere: speso poco spazio destinato al progetto e pochissimi docenti a disposizione. Lacune lamentate dagli stessi colleghi delle scuole di Agraria, dove sovente si registra uno sbilanciamento verso la fase conoscitiva e tecnica, a scapito di altre porzioni irrinunciabili della progettualità, ovvero le capacità di lettura coniugate a forti sensibilità estetiche e compositive, simboliche, con capacità di condurre processi progettuali significativi. Di fatto oggi continuano ad esistere tre lauree magistrali in architettura del paesaggio rispetto alle otto di due anni fa: a Roma, nel nord-ovest grazie ad una convenzione tra Genova, Milano e Torino, più Firenze con una laurea condivisa tra architettura e agraria. Le triennali di fatto quasi non esistono quasi più. Restano a Genova e Roma degli indirizzi nelle lauree triennali di architettura, che con difficoltà riusciranno a dare la formazione di base per le magistrali. Negli altri paesi europei, al contrario, negli ultimi due decenni i corsi di paesaggio si sono moltiplicati. Un paese come la Turchia negli ultimi dieci anni ha integrato la propria offerta formativa sul paesaggio, fondato nuove scuole, sino ad arrivare ad averne 12, mentre qui assistiamo ad esperimenti che a fatica riescono a chiudere un ciclo di studi. Quando parliamo quindi di incentivare l’innovazione, in termini di ricerca e di formazione, di cosa parliamo?

Nuove proposte Se usciamo dall’università, nonostante il periodo di crisi, la realtà per fortuna è un po’ diversa. Pur nella crisi diffusa di questa fase storica, le opportunità di confronto e discussione sui temi del paesaggio e del giardino in Italia sono sempre più diffuse e di successo. Quasi non si riesce a seguire tutto quello che succede a livello nazionale: numerosissime manifestazioni, culturali e\o commerciali, si susseguono tra aprile e fine settembre lasciando vuoti solo alcuni fine settimana. Alcuni appuntamenti peraltro sono anche di un certo interesse, con un buon bilanciamento tra aspetti commerciali degli eventi e contenuti culturali, tra interesse di massa, di base e disseminazione di contenuti più alti: seminari, conferenze, premi e concorsi per garantirsi un livello

più alto di partecipazione da parte di progettisti, per attrarre più ampie fasce di pubblico e contemporaneamente per veicolare contenuti. Possiamo anche dire che si è diffusa a livello sociale un livello di consapevolezza piuttosto diffusa, anche se spesso veicolata dai media attraverso visioni un po’ distorte, indirizzate e orientate più verso i problemi ecologici e ambientali. Potremmo aprire lunghissimi capitoli sul tema “orti urbani” e su altre mode. Di certo si registra una situazione quasi paradossale: un paese che vuole paesaggio e l’università che non riesce a fornire una risposta adeguata. In tempi relativamente recenti è nato un progetto all’interno del CUN, il Consiglio Universitario Nazionale, promosso dal prof. Enzo Siviero, per la costruzione di una nuova classe di laurea dedicata al paesaggio. Un nuovo percorso che dovrebbe riuscire a raccogliere gli interessi al paesaggio provenienti dalle diverse aree: gli architetti, gli agronomi, i naturalisti, geografi e geologi, figure tutte che si interessano del paesaggio secondo prospettive diverse. L’idea è quella che più atenei e\o facoltà, assieme - grande novità - a quei ministeri maggiormente interessati alle trasformazioni del territorio (beni culturali, agricoltura, ambiente, infrastrutture) possano costituire alcuni poli a livello nazionale in cui questi interessi possano diventare convergenti attorno, finalmente, ad una figura di progettista del paesaggio a tutto tondo. Purtroppo questo processo, per motivi e contrasti diversi, si sta rivelando più lungo di quanto previsto. Gli interessi corporativi spesso si risvegliano ed insieme i conflitti di attribuzione. Infatti, bisogna dirlo, alcuni segnali negativi arrivano proprio dagli organismi professionali degli architetti, che considerando l’architetto come figura capace di condurre qualsiasi tipo di processo progettuale, pensano le professioni derivate da quella originaria come un elemento di disturbo di una sovranità che si vorrebbe indiscussa, peraltro in pratiche professionali non tutelate, quali il paesaggio, il design ed altri, che sono di esercizio libero e che comunque continuano ad essere nel novero delle possibilità operative dell’architetto e dell’ingegnere. Spero sinceramente che la trasversalità di questa proposta riesca a costruire le condizioni per uno spazio di colloquio reale e a farsi operativa in tempi stretti, superando ogni forma di chiusura delle posizioni. Personalmente, per quanto conta, mi colloco tra due convinzioni solo apparentemente contrapposte. Da un lato sono portato a dire che il paesaggio e le sue competenze possono essere di tutti. Ippolito Pizzetti era figura esemplificativa di come da una formazione filosofica, si potesse diventare l’esponente più significativo del paesaggio a livello nazionale. Allo stesso modo mi sono sempre battuto affinché, affianco alla formazione specialistica sul paesaggio, anche i corsi tradizionali di architettura conservassero qualche enzima di questa cultura. Ovvero da un lato credo che il nostro paese non possa che percorrere la strada degli altri paesi europei, per i quali tutto questo è scontato da molti decenni; dall’altro ritengo che l’architettura del paesaggio debba far parte di una cultura, multidisciplinare per definizione, come quella dell’architetto. A pieno titolo, affianco allo studio delle nuove tecnologie, dell’allestimento, del design o altro. Credo che la formazione all’architettura del paesaggio in Italia debba muoversi in due direzioni: rafforzamento del proprio nucleo di identità e autonomia, assieme ad un arricchimento che venga dai margini, dalle altre discipline. Quasi come una cellula, il cui equilibrio risiede nell’autorganizzazione delle informazioni genetiche nel nucleo, assieme al contatto osmotico che avviene attraverso la sua membrana, di materiali, nutrimento e informazioni per una crescita completa. Ma c’è adesso un bisogno incredibile che questo centro si rafforzi, si definisca e si consolidi all’interno delle nostre scuole. i

Il Festival International des Jardins di Chaumont-sur-Loire si tiene tutti gli anni da maggio ad ottobre sin dal 1992. La manifestazione si tiene presso il Domaine de Chaumont-sur-Loire, originariamente Conservatoire International Des Parcs Et Jardins De Chaumontsur-Loire fondato da Jean Paul Pigeat sotto gli auspici dell’allora Ministro della Cultura Jack Lang. http://www.domaine-chaumont.fr ii Il gruppo era composto da Natale Gencarelli, Jorma Giannoccaro, Monica Ravazzolo, Luca Sartor e Maya Alexandra Seppecher iii Maria Mambor, Marcello Pavan, Lucio Pettine et Bijaya Silvestri, con Federico Barbariol. iv GARAGE PAESAGGIO + CYTERA: Gabriele De Sanctis, Luca Dionisi, Francesco Tonini, Elena Geppetti e Serena Savelli v P. Nicolin, Notizie sullo stato dell’architettura in Italia, ed. Bollate Boringhieri, Torino, 1994 vi Il riferimento è ovviamente alla Convenzione europea del paesaggio e alla definizione di paesaggio, che è ormai considerata come dato condiviso. vii G. K. Koenig, “Paralipomeni all’impatto ambientale e alla tutela del paesaggio”, in Domus, n. 706, 1989 viii In particolare gli articoli 6 ed 8 della Convenzione, riguardavano esplicitamente l’obbligo ai paesi sottoscrittori, di attivare tutte le procedure necessarie per diffondere la cultura del paesaggio a tutti i livelli, dalla sensibilizzazione di base alla formazione di specialisti

del settore, nonché la creazione di canali privilegiati di scambi tra specialisti, finalizzati alla formazione di professionisti e quadri amministrativi. http://www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it ix Qui occorrerebbe aprire una lunga parentesi: paesaggisti o architetti del paesaggio. Tutto il mondo anglosassone definisce, in termini di titolo, architetto del paesaggio, landscape architect, il professionista chiamato alla progettazione e pianificazione (a volte anche alla gestione) delle diverse specificità del progetto di paesaggio, indipendentemente che la sua formazione sia maturata all’interno di scuole di architettura, di agraria, di politecnici o di scuole di belle arti. La linea di discrimine è costituita in realtà dalle competenze acquisite durante il percorso di studi, dettate, in qualche misura a livello mondiale, dall’IFLA e dai suoi regolamenti di riconoscimento. Diversamente in Francia (e nei paesi francofoni) di parla quasi indifferentemente di architecte paysagiste o semplicemente di paysagiste. In ambito tedesco e fiammingo si utilizza Landschaftsarchitekt , mentre la traduzione letterale di paesaggista, Landschaftsmaler, identifica il pittore paesaggista. IFLA ed ECLA (European Council of Landscape Architecture Schools, la più numerosa associazione di scuole di architettura del paesaggio) usano inequivocabilmente la dizione architetto del paesaggio. x In Italia il lavoro del paesaggio non ha un carattere di esclusività, ma può essere svolto da figure diverse e, in alcuni casi come nello spazio privato, anche non professionalizzate. xi Fino a quel momento erano definiti architetti del paesaggio solo i diplomati delle scuole di specializzazione post-laurea di Firenze, Genova e Roma. Oltre a ciò valeva l’iscrizione su base curriculare, presso l’AIAPP, associazione italiana degli architetti e progettisti del paesaggio, unico organismo allora riconosciuto dall’IFLA-EFLA. xii Salvatore Dierna, ordinario di Progettazione Ambientale, è stato tra i promulgatori e promotori, sin dagli anni Ottanta, degli studi sul paesaggio e fondatore del corso 3+2 in paesaggio alla Sapienza. xiii Ma qualcosa mi pare necessario ricordarla, ovvero che i dissesti finanziari delle università avevano radici ben più profonde e lontane nel tempo, visto che, come accennato, le novità reali erano state realizzate quasi senza l’ausilio alcuno di nuove risorse. xiv Il decreto 2004 porta la firma del ministro Moratti, ma gli strumenti operativi furono varati dal ministro successivo, Fabio Mussi.