Paulo Coelho - La Repubblica

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4 giu 2006 ... Paulo Coelho è ve- .... Paulo Coelho sembra un mago dei suoi romanzi. ..... e Settembrini, e poi Ada Negri, poetessa del proletariato ita- liano ...
Domenica La

di

DOMENICA 4 GIUGNO 2006

Repubblica

la memoria

Libri proibiti, nostalgia dell’Indice FRANCO CORDERO e FRANCESCO MERLO

il fatto

Slow Food, i contadini ci salveranno GIANNI MURA e MICHELE SERRA

La mia Transiberiana Da Mosca a Vladivostok su un treno mitico Dodici anni dopo Solgenitsyn

FOTO THEO VOLPATTI/CONTRASTO

Repubblica Nazionale 31 04/06/2006

Paulo Coelho il grande scrittore brasiliano

va in cerca della lenta primavera russa GIAMPAOLO VISETTI

L

VLADIVOSTOK

e foreste che proteggono il lago Baikal, da cui affiora l’anima silenziosa della Siberia, sono arrossate dai fiori vischiosi dei larici. L’acqua riflette il blu della notte. L’inverno sovietico è finito. Paulo Coelho è venuto qui, in treno, a incontrare la lenta primavera della Russia. L’aria annuncia la dolcezza dell’Oriente. Lui si spoglia e si immerge. Il termometro, in superficie, segna tre gradi. Abituato alle nuotate di Copacabana, lo scrittore brasiliano esce senza un brivido e inizia a parlare con un vecchio pescatore di alibut. «Per capire tua madre – dice – devi rientrare in lei. Come una perla nell’ostrica». Vent’anni dopo il pellegrinaggio a Santiago di Compostela, si è messo in viaggio verso Est, sulla Transiberiana. Ha ricordato con Oleg Andrejevich, il capotreno, l’anniversario della sua liberazione dal carcere, dopo l’arresto e la tortura ordinata dalla dittatura militare: 29 maggio 1974. «Ma questo viaggio – premette – è dedicato ad Aleksandr Solgenitsyn». Sono passati dodici anni esatti da quando l’autore di Arcipelago Gulag è approdato a Vladivostok, reduce dall’esilio negli Usa. Morti i despoti postbellici, ma spenti anche i sogni di democrazia, libertà e giustizia, Coelho ha ripreso il cammino per scoprire cosa sta nascendo sotto le macerie dell’Urss. Solgenitsyn, dopo la sosta nei campi di Magadan, mosse dal Pacifico verso Mo-

sca. Lungo i 9289 chilometri della Transiberiana, i deportati sopravvissuti lo salutavano alzando una rosa. L’autore dell’Alchimista, tra il primo e il 30 maggio, ha scelto il percorso inverso. Ad ogni stazione, misteriosamente, gruppi di lettori si sono sporti sui binari sventolando copie dei suoi libri. La voglia personale di felicità, il risarcimento per lunghe sofferenze, ha sostituito la rassegnata speranza di una dignità collettiva. «Io però non sono venuto in Russia a verificare i miei sogni degli anni Settanta – spiega –, o a denunciare il bluff del crollo del comunismo. Desideravo vedere cosa mi sarebbe successo attraversando il paese più vasto del mondo, guardandolo con gli occhi del suo popolo. Il confronto tra Europa e Asia deciderà questo secolo: così ho iniziato dalle terre conosciute per spingermi verso l’ignoto». Il cammino di Santiago, nel 1986, lo percorse per recuperare la fede magica della dimenticata storia occidentale. La Transiberiana, nel 2006, è l’annuncio simbolico di un futuro misterioso, sospeso sull’enigma orientale. Prima di raggiungere la ferrovia più lunga del pianeta, che ha discretamente deciso le sorti degli ultimi Romanov, di Lenin, di Stalin, e infine di Hitler, per due mesi ha vagato in Spagna, Marocco, Tunisia, Francia, Italia, Bulgaria, Romania e Ucraina. «La Russia inizia lontano – dice mentre la steppa s’infila nella sua carrozza – e la vita non s’accende con l’estremo respiro». Vuole dire che ha scelto il grande treno, il “Rossija”, che corre sul sangue di migliaia di schiavi, per un viaggio che attraverso l’umanità contemporanea lo conducesse nell’abisso di se stesso. (segue nelle pagine successive)

cultura

Il ritorno al fumetto di Lorenzo Mattotti FABIO GAMBARO

la lettura

Shanghai, il ghetto in capo al mondo FEDERICO RAMPINI

spettacoli

La vita femmina di “Volver” PEDRO ALMODÓVAR e CONCITA DE GREGORIO

spettacoli

Nanni Moretti, autarchico e caimano PAOLO D’AGOSTINI

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DOMENICA 4 GIUGNO 2006

la copertina

Vestito di nero, davanti all’oceano grigio di Vladivostok,

Viaggi di scoperta

Paulo Coelho sembra un mago dei suoi romanzi. E spiega come, “per non lasciare la mia nave ferma in porto”, ha passato un mese sulla Transiberiana tentando di capire cosa sta nascendo sotto le macerie dell’Urss

Coelho all’ultimo Est tra i mille fantasmi russi

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Bisogna farla, farla ora ZAR ALESSANDRO III, 1886 riferendosi alla costruzione della ferrovia

GIAMPAOLO VISETTI (segue dalla copertina)

Repubblica Nazionale 32 04/06/2006

«A

ndare da Mosca a Vladivostok – spiega – resta l’allegoria dell’esistenza: si parte da un punto, che chiamiamo nascita, e si arriva ad un altro, che definiamo morte. In mezzo ci si può limitare a guardare dal finestrino, oppure si può uscire e compiere la propria leggenda personale. La sola certezza è che, prima o poi, all’oceano si arriva: e qui tutto finisce». Accompagnato dal sole chiaro che solo la Siberia concede, Coelho concluderà l’esplorazione euroasiatica a metà giugno, in Germania, dopo tre mesi di straordinari incontri casuali e quotidiane solitudini. Nell’ex impero sovietico, a bordo di due vagoni agganciati in fondo al convoglio, si è fermato a Mosca, Ekaterinburg, Novosibirsk, Irkutsk (dove si incrociano Transmongolica e Transmanciuriana), Khabarovsk e Vladivostok. «È il tragitto dei dannati dello stalinismo – dice –, un pellegrinaggio nell’oscurità delle ideologie per superare la follia politica del Novecento. I conti con il socialismo però li avevo già fatti. Nel 1979, sotto il Muro di Berlino, ho scoperto come il regime umiliasse le persone. Ero un vecchio hippy sudamericano, vivevo nel romanticismo so-

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cialista: passando a Est sono stato travolto dalla menzogna, quella per cui tanti miei amici hanno dato la vita». Promise allora che un giorno avrebbe visitato il carcere più immenso del pianeta, il cui recinto era lo spazio aperto. E adesso è qui, nella piazza Bortsov Revolutsy affacciata sul Giappone, per reincontrare oggi il fantasma di Solgenitsyn. «La prigione – racconta – mi è rimasta dentro per molti anni. La privazione della libertà, o la rinuncia personale ad essere liberi, è il tema che ora mi assilla. Solgenitsyn è la prova vivente che la denuncia dei soprusi, la testimonianza della libertà, sono infine più forti di qualsiasi castigo». A Chità, durante una commovente sosta sui binari, ha parlato a lungo con il figlio di una vittima del gulag: è nella tragedia di tre generazioni, in cui innocenti e carnefici si sono confusi, che si nasconde l’imperscrutabilità della Russia di oggi. Sarebbe però un errore ridurre il viaggio di Coelho sulla Transiberiana ad una tardiva e mesta processione tra le tombe sovietiche. Sulle sue due carrozze, e sui vagoni dei treni a cui di volta in volta si è agganciato, si è molto parlato e cantato, sonoramente riso, assai bevuto e mangiato, abbondantemente ballato. La scorta di libri e il computer, con la scusa dei sussulti causati dai binari, sono stati abbandonati a Vladimir, la seconda stazione. L’accogliente cuccetta, incolpando il fragore delle ruote, ha trascorso lunghe notti intatta. Questa è la Russia, nonostante tutto, che ti piomba addosso com’è, molto prima che tu possa accorgerti di lei. «La sua forza e la sua allegria – spiega il so-

È più come un transatlantico di qualsiasi altro treno che io conosco: il viaggio regolare, l’uniformità della veduta PAUL THEROUX, 1988

Solgenitsyn, reduce dall’esilio Usa, viaggiò dal Pacifico a Mosca. Sui binari

i deportati superstiti lo salutavano

alzando una rosa

L’AUTORE Nato a Rio de Janeiro nel ’47, Paulo Coelho è stato commediografo e pop star. Poi, dopo un pellegrinaggio a Santiago nell’86, ha deciso di scrivere Da allora ha venduto 65 milioni di libri

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Ho visto i treni neri che tornavano dall’Oriente come fantasmi. E il mio occhio corre ancora dietro quei treni BLAISE CENDRAS, 1913

lo scrittore contemporaneo capace di vendere 65 milioni di libri in 150 Paesi – sono una lezione morale per l’Occidente ricco e disperato. Fa riflettere l’ostinata serenità, la generosità, con cui in Sudamerica, in Africa e appunto qui, si affronta un tragico destino. Al lungo gelo delle anime sta succedendo un rinascimento interiore che agli analisti sfugge, ma con cui dobbiamo confrontarci. Tutti i russi che ho incontrato mi hanno lasciato un sorriso: mi ha molto impressionato». È la delicatezza di questa semplice felicità popolare, esplosa in una sfrenata festa siberiana a Ulan Ude, che ha contribuito a relegare sullo sfondo il neo capitalismo di Stato e l’autoritarismo di Vladimir Putin. Visti dalle sponde del fiume Amur, ma già dagli Urali, violazione dei diritti umani e arretramento della democrazia appaiono sofismi per stomaci pieni. Troppa distanza, troppo isolamento, troppi problemi pratici e quotidiani per non soccombere. Nessuna informazione. Solo la Transiberiana si ostina a tenere unita una nazione vasta quanto un quinto delle terre emerse. «La mia immagine occidentale della Russia – dice Coelho – ancora una volta si è manifestata errata. Trent’anni fa solo pronunciare il suo nome evocava in me slitte nella neve, cavalli in battaglia e ricevimenti imperiali, Tolstoi, Dostoevskij, Gogol, Checov e Bulgakov, il respiro dell’Ottocento. La credevo un paradiso ed era ridotta ad un inferno: ora mi aspettavo un regime mascherato e ho incontrato una democrazia con problemi non peggiori di tutte le altre».

Affermare di detestare chi, non conoscendo nulla, emana ideologiche condanne definitive contro interi paesi, può essere (costringendosi all’indulgenza) una fuga diplomatica. Da attivista di Amnesty International ed ex dissidente torturato, l’autore-cult dell’esoterismo religioso confessa invece (alla vigilia di un brindisi privato al Cremlino) di essere diventato un fan di Putin. «Ho chiesto a centinaia di persone, in ogni città e villaggio, cosa ne pensino di questo enigmatico presidente. Tutti mi hanno detto che è un leader di cui, dopo Gorbaciov ed Eltsin, avevano bisogno. Sarà politicamente scorretto, ma per i russi Putin è servito molto: ha evitato che l’umiliazione dell’orgoglio rubato facesse esplodere il Paese. La sua Russia, per il mondo, è un contrappeso fondamentale all’egemonia Usa. L’opposizione alla missione in Iraq, il freno tirato assieme alla Cina davanti ad un’altra guerra in Iran, contribuiscono a scongiurare una catastrofe umana e culturale. Anche l’Europa, senza Mosca e Pechino, sarebbe ormai una ossequiosa colonia di Washington». Alla vigilia del contestato G8 di San Pietroburgo, il guru dell’Occidente che difende il Cremlino, impegnato nella sfida estrema per l’energia, è stato contestato solo a Kazan. Nella capitale del Tatarstan, dove le moschee superano le chiese ortodosse e i musulmani sono maggioranza, seguita a soffiare il vento dell’Asia centrale. Una donna cecena, che ha perso due figlie e tre figli nella guerra dichiarata da Putin sette anni fa, gli ha chiesto perché il «grande viaggiatore» non avesse allungato il pellegri-

MOSCA

IL GRANDE LAGO

IN MONGOLIA

La stazione Jaroslawsky a Mosca dove si ferma la Transiberiana in arrivo da San Pietroburgo

La Transiberiana costeggia il Lago Baikal, la “gemma della Siberia”, il più grande e profondo del mondo

A Erlian, città di confine della Mongolia, i ragazzini giocano ai bordi della ferrovia

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FOTO CONTRASTO

DOMENICA 4 GIUGNO 2006

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L’assoluta immobilità di questo paesaggio: come se il treno non si muovesse ma fosse parte della regione RYSZARD KAPUSCINSKI, 1958

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grande volevo fare lo scrittore»), ha prevalso però l’ascolto. Nel 1926 l’inviato della Frankfurter Zeitunga Walter Benjamin confessò di «essere partito bolscevico e tornato monarchico». Il maestro dei bestseller sull’esosità dell’amore e sul coraggio di realizzare i propri sogni assicura invece oggi che solo tra una decina di mesi potrà capire il senso del suo viaggio «nell’ultimo Est del pianeta». La nota dominante, anticipa, sarà la sorpresa. È questa che l’ha investito, mentre percorreva su e giù centinaia di volte gli scompartimenti della Transiberiana, frutto della prima e più colossale deportazione di massa dell’età moderna. Solo su «questa luna distesa sulla terra» resta possibile un autentico stupore. Rapisce tutti, la concezione del tempo si smarrisce. Gli orologi, fino al Pacifico, segnano sempre l’ora di Mosca. Un metro più in là, sulle pensiline, scorrono invece i sette fusi orari e l’imbrunire che si fa aurora. Giorni e notti non vengono scanditi da pasti, veglia e sonno. Solo la natura selvaggia, alternata ai disastri ambientali, trasmette la sensazione di procedere. Attese e certezze si dissolvono, davanti agli imprevisti. In un villaggio della taiga, nella penisola dell’Amur, per la prima volta Coelho ha visto una comunità che ancora attinge l’acqua da un pozzo del Settecento. Sotto il Cremlino di Tobolsk, l’antica capitale della Siberia da cui lo sguardo non basta per raggiungere l’orizzonte, gli scultori d’avorio di mammuth gli hanno spiegato come lavorino mesi per pochi rubli. A Nizhny Novgorod, sul Volga della Russia centrale, i decrepiti

BORIS PASTERNAK, 1957

“Ho visto un inferno dove la gente sopravvive perché

fedele all’ironia, alla paradossale leggerezza del paradiso”

IL LIBRO Il libro più recente di Paulo Coelho, “Sono come il fiume che scorrePensieri e riflessioni 1998-2005”, di cui sopra è riprodotta la copertina, è pubblicato in Italia da Bompiani

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Lavorare nella ferrovia voleva dire realizzarci, avere un destino e dare assenso a un comandamento misterioso CARLO SGORLON, 1983

reparti di un ospedale-cimitero gli hanno rivelato cosa si nasconde dietro la retorica presidenziale sulla «nuova super potenza post atomica». Al di là delle betulle, nelle foreste abbattute dai commercianti cinesi di legname, ha scoperto che aratro e cavallo rimangono la spina dorsale di un’agricoltura medievale. Oltre a questo, la follia esibizionista della Mosca miliardaria, dove 270 grattacieli di cristallo stanno crescendo nei quartieri di una massa di miserabili, dove si spendono 500 dollari a testa per un pasto (davanti a medici che ne guadagnano meno di 200 al mese) e dove gli Hummer blindati impediscono di avvicinarsi agli oltre 400 sfavillanti casinò. Un’apparenza alla Potemkin. «Solo a quattromila chilometri dall’arrivo – sorride Coelho – ho scoperto perché la doccia era inagibile. La “provodnitsa”, conduttrice e despota di ogni vagone, l’aveva stipata di vodka e sigarette da vendere negli Altai e alle comunità dei Tuva. Un viaggiatore ha protestato: sceso a fumare, è stato abbandonato in pigiama nella stazione di Tayshet». Il tracotante “Paese-Yukos”, orfano del comunismo ma non riscattato dal suo pubblico squallore, visto dalla sola via che dal 1896 lo percorre tutto, resta questo: «Un inferno dove l’umanità è sopravvissuta perché fedele all’ironia, alla leggerezza paradossale del paradiso». Paulo Coelho l’ha incontrato perché con la primavera ha scelto di varcare i saloni zaristi della stazione Yaroslavl, confuso tra i bevitori di alcol denaturato. Sono loro gli spettri della dissoluzione, di una nazione dove i maschi muoiono a cinquantasette anni e le donne ri-

fiutano di essere madri. «Ma andare a Oriente – dice – oggi significa comunque purificarsi. Disfarsi del superfluo. Fidarsi della gente. Aver bisogno di poco. Semplificare la propria vita. Ascoltare lingue antiche. Anteporre le domande alle risposte. È lo scopo del mio viaggio in Russia, una via per rientrare in me stesso, da solo dopo tanti anni: cercare la capacità di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, senza ingenuità ma con la sua innocenza». Così è venuto in Siberia, senza aspettarsi né pretendere qualcosa, solo «per non lasciare la mia nave ferma nel porto». A Vladivostok, prima di «tornare nel mondo», Coelho rimane l’ultimo pomeriggio seduto davanti all’oceano grigio. Nel suo vestito nero, immobile, ricorda i maghi dei suoi romanzi. Ora volta le spalle all’ex Urss, ma pure all’Europa e all’America. Il suo primo pellegrinaggio ai confini della crisi del Duemila termina nel vuoto, come l’ultimo cammino nello sfacelo del Novecento. Ad una ragazza, che sulla spiaggia gli chiede se è normale, risponde: «Perché è normale che le donne innamorate fuggano dal loro principe azzurro? Che la gente si perda in sogni su soldi e potere, invece di pensare all’amore? Che uomini e donne vendano il proprio tempo, senza poterlo riacquistare? Eppure, tutto ciò accade». Anche ai confini della Russia, dove la primavera non è mai riuscita a diventare estate.

FOTO CONTRASTO

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naggio fino alle rovine di Grozny. Risponde qui a Vladivostok, «signora d’Oriente», dopo giorni di meditazione. «Esistono scelte – dice Coelho – che non possono essere rinviate per sempre. La Cecenia ricorda l’Irlanda del Nord, o i Paesi Baschi. Le autorità russe hanno il dovere di trovare una soluzione diversa da terrore e cannonate. È tempo di sedersi a discutere». Silenzio invece sulla deportazione di Mikhail Khodorkovskij. A Chita, dove nel 1827 furono esiliati e sterminati i decabristi insorti contro lo zar, poco lontano da dove oggi langue in carcere l’oligarca che ha osato contendere a Putin gas e petrolio, riemerge però il problema della libertà. È un intagliatore di scatole in betulla, a interrogare «il brasiliano che non naviga in internet, ma prende su e va a vedere». Peggio i businessman-sciacalli degli anni Novanta, che si sono appropriati delle ricchezze nazionali, o i burocrati corrotti del Duemila, che se le riprendono nel nome dello Stato? «Il potere che ignora i diritti e la povera gente, che coltiva la vendetta per alimentare i propri interessi – sibila Coelho dal cuore della Siberia – è il cancro di una politica ignorante e priva di memoria. Il potere esercitato per sé domina in Russia, ma pure in Brasile, in Italia, ovunque. Tutto il mondo ha bisogno di nuovi dissidenti: senza di loro non c’è movimento, il cambiamento diventa impossibile, la libertà è finzione». Più dei giudizi, ottant’anni dopo il Viaggio in Russia di Joseph Roth, nell’ex bambino rinchiuso per tre volte in manicomio dai genitori («perché da

Il treno che aveva portato la famiglia Zivago era ancora sui binari, ma il legame con Mosca si era spezzato

SIBERIA

BALLANDO A NOVOSIBIRSK

FINO ALL’ALTRO IMPERO

La stazione di Irkutsk, la città che un tempo venne chiamata la “Parigi della Siberia”

Tappa a Novosibirsk. Il vecchio ponte ferroviario sul fiume Ob ha funzionato per 110 anni. Ora è un monumento

La Transiberiana, dopo aver attraversato l’estremo est dell’ex Urss entra in Cina e si spinge fino a Pechino

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la memoria Svolte storiche

NICCOLÒ COPERNICO Il suo “De revolutionibus orbium caelestium” è messo all’Indice nel 1616

GALILEO GALILEI Nel 1632 viene proibito il suo “Dialogo sui massimi sistemi”

Quarant’anni fa, il 14 giugno 1966, il Vaticano abolisce l’Index

librorum prohibitorum, in vigore dal 1559. Uno strumento di censura e intolleranza, ma anche una raffinata mappa dei titoli da non perdere

NICCOLÒ MACHIAVELLI Accusato di immoralità, “Il Principe” è bandito dalla Chiesa nel 1559

VOLTAIRE Tra le sue opere iscritte nell’Index anche le “Lettres philosophiques” del 1734

Nostalgia dell’“Indice” guida ai libri del diavolo A

riva il vecchio Adamo per far risorgere il nuovo Cristo. C’è persino tra gli autori idolatri dediti a pratiche magiche il nunzio di quarant’anni dalla sua abolizione, l’Index dei libri “diaVenezia Giovanni Della Casa che per primo il 7 maggio del 1549 ebbe la bolici” è un biblioteca vivissima, e non solo perché la pazelante idea di dare alle stampe l’Indice, e poi finì all’Indice. E ben gli sta, rola “diabolici”, persino per chi crede nel diavolo, signiverrebbe da dire, nonostante il suo famoso Galateo sia passato alla stofica anche “affascinanti”. La verità è che, usato all’inria come l’elogio delle buone maniere e della misura. Della Casa comcontrario, l’Index Librorum Prohibitorumè ancora oggi pilò quel primo Indice in odio ad un altro teologo che poi si sarebbe venil più completo catalogo, in ordine alfabetico, da Alfieri dicato. E questa rivalità tra teologi, l’un contro l’altro all’Indice, ha forse Vittorio a Zola Émile, dei libri che bisogna leggere, uno straordinario ispirato la novella di Borges su due teologi nemici appunto, dove l’uno Centro di Orientamento, la fonte battesimale di chiunque tenti di cariesce a mandare al rogo l’altro, ma finisce a sua volta bruciato da un fulpire il mondo attraverso i libri. mine. E, ritrovandosi poi nell’Aldilà, entrambi si accorgono con stupoAll’Indice, per esempio, finì, con il Talmüd e il Corano, anche la Bibre che Dio li considera «l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, bia, ammessa solo in una versione «autorizzata e corredata da opporl’accusatore e la vittima, una sola persona». Ed è questa, chiosava Leotune annotazioni desunte dai Padri e approvate con l’autorità della Senardo Sciascia, «la più alta e perfetta parabola sul fanatismo, sull’inimide Apostolica». La Bibbia, infatti, è uno dei testi più “diabolici”, eccitanti cizia dei fanatici come fattore speculare, dell’animale che allo specchio ed avvincenti che esistano, al punto che ancora oggi la Chiesa ne ha fisnon si riconosce e dunque aggredisce la propria immagine». sato una «corretta» interpretazione ecclesiastica alla quale gli studiosi L’Indice, nel quale finirono anche imperatori e re, come James I e Fecattolici sono obbligati ad attenersi. Composta in lingue diverse e in derico II, e santi come Francesco di Paola, segue la storia della Chiesa, epoche diverse e modificata nei secoli dagli amanuensi trascrittori e rivale a dire della censura, che poi diventa la storia d’Italia. Sopravvive alscrittori, è il libro della Weltanschauung protestante ed ebraica molto l’Inquisizione, accompagna i repentini rovesciamenti delle diverse forpiù che cattolica, ed è noto che per secoli quando si voleva lodare o adutune militari, con fasi liberaleggianti di “persecuzioni moderate” che lare un Papa lo si chiamava «persequitor de’ giudei, riformator di quelprivilegiano l’espurgazione mediante cancellatura, e fasi più severe, li e grande cacciator di libri eretici e malsani». con ispezioni, torture, esecuzioni e stragi, sempre con l’idea che la gramInsomma, anche la Bibbia può essere letta contro la Chiesa e persimatica è nemica della Chiesa, che la lettura è tentazione e vanitas perno come un manifesto dell’ateismo, come un libro di fantastiche avché «in Cristo è compendiata tutta la Scrittura e dunque non c’è bisogno venture, violento e morboso come una pulp ficdi leggere». Insomma, l’ispirazione rimase sempre tion, con tutte le sue montagne, gli incendi e i diluquella della buonanima del Santo Padre Paolo II: «Se Dio mi dà vita io prenderò una doppia serie di vi, e ancora faraoni e cavallette, e popoli contro poprovvedimenti: dapprima proibirò lo studio delle poli, padri contro figli, e i filistei, e Sodoma e Gosciocche storie e poesie perché piene di eresie e di morra, e le acque che si aprono... Altro che Taranbestemmie, poi interdirò l’insegnamento e l’esertino! Con la Bibbia ci si può perdere in un epos cizio dell’astrologia giacché di qui provengono tandell’orrore e delle meraviglie, come, per esempio, ti errori. I figliuoli hanno appena dieci anni e già conella Storia del declino e della caduta dell’Impero noscono, anche senza andare alla scuola, mille Romanodi Edward Gibbon, anch’egli ovviamente bricconate. Possiamo già immaginarci di quanti alall’Indice con altri grandissimi storici come Jules tri vizi saranno ripieni più tardi quando leggeranno Michelet, Edgar Quinet e Michele Amari. E si può Giovenale, Terenzio, Plauto e Ovidio. Giovenale, è ammirare nella Bibbia il monumento letterario, vero, fa mostra di biasimare il vizio, ma intanto income fosse un antico Victor Hugo, anch’egli all’Introduce il lettore a farne la conoscenza». dice. E si può naufragare nel pessimismo storico L’Indice non impedì a preti e vescovi di coltivarsi della Bibbia, come nell’Infinito di Giacomo Leocome nessun altro, per naturale disposizione, per pardi, messo all’Indice a metà Ottocento, «astutia tempesta di sentimenti o per gusto di libertà, ma di Satanasso, fedele suo servitore per espugnare gli sempre grazie ai privilegi “venduti” dal Vaticano, animi oziosi, cattivo spirito che sparge i suoi diaperché con una dispensa papale ci si poteva liberabolici semi, lupo che minaccia le nostre pecore». re di una moglie o si poteva acquistare il diritto di Eliminare una specie animale non è facile, ma possedere e persino di stampare libri proibiti. Il pril’uomo, con il tempo e con l’impegno, ci riesce. I luvilegio del resto era anche una straordinaria arma di pi, per esempio, sono stati combattuti e vinti in Inricatto, perché bastava poco a trasformarlo in un ghilterra all’inizio dell’età moderna, per proteggedelitto e dunque a snidare dagli scaffali di questi re gli allevamenti delle pecore. Secondo Keith Tho“delinquenti altolocati” «la lue dei libri», com’è mas, che ha dedicato un bel libro alla storia del rapEDIZIONI ANTICHE chiamata appunto l’infezione nella lapide murata porto tra l’uomo e la natura (Einaudi), è grazie alla Qui sopra: la copertina nella cattedrale di Palermo alla fine del Settecento scomparsa del lupo che ancora adesso in Inghildi un antico “Index”. Nei riquadri in lode di monsignor Lopez y Rojo, il quale, funzioterra il pastore segue il suo gregge, mentre in Frannando anche da viceré, la lue dei libri combatté facia e in Italia lo precede, accompagnato da due caa destra: un altro “Index”, cendoli pubblicamente bruciare per mano del boia. ni da guardia; e il pensiero corre subito ai Domeniil “Dialogo” di Galileo Galilei Nessuno può negare che la Chiesa abbia comcani, ai cani del Signore. Ma se per difendere la pebattuto e insieme coltivato la cultura, come dimocora gli inglesi sono riusciti a sterminare i lupi, nese una pagina del “Novellino” stra del resto l’attuale Papa tedesco, il quale ha scritsuno è mai riuscito a sterminare una razza di libri. to un centinaio di libri, anche se a sfogliarli ti viene il sospetto che si tratE se volete la sicura prova di quanto sia controproducente la guerra ai ti sempre dello stesso libro. Certo, l’Indice fu progressivamente ridilibri, sfogliatelo dunque quell’Index che la Chiesa tenne in piedi dal mensionato, ma solo quarant’anni fa la Chiesa capì che quanto più un 1549 al 1966, concependolo come un’arma di distruzione di massa, solibro è proibito tanto più viene letto e che quel catalogo di libri diabolici prattutto nella cattolicissima Italia, dove anche I Promessi sposi, già al era a sua volta diabolico perché tutti li condannava... al successo. primo loro apparire, sebbene «esauriti in un lampo», erano stati conE tuttavia, quando l’Indice era stato già abolito, nel 1967 la Sacra Condannati dal Vaticano, al punto che, raccontò Titta Rosa, «tra l’estate e gregazione per la Dottrina della Fede processò il filosofo italiano Emal’autunno di quel lontano 1827, che il romanzo del Manzoni fosse stanuele Severino sentenziando l’incompatibilità dei suoi libri con la dotto messo all’Indice corse come una notizia sicura». Eppure, qualche detrina cristiana, e costringendolo quindi a lasciare l’Università Cattolicennio dopo la morte di Manzoni, lo stesso Osservatore romano proca di Milano dove Severino insegnava Filosofia Morale. Oggi Severino pose autorevolmente di farlo santo, e di farlo in fretta: «Santo subito». è giustamente considerato il più autorevole filosofo italiano, e quel proMa intanto, a riprova che i libri sono una materia difficile da govercesso, che durò otto anni, e che egli ha raccontato nel libro Il mio sconnare, stavano all’Indice, per citare solo alcuni tra gli italiani, Dante, Petro con la Chiesa, non ha certo nuociuto alla sua fama. trarca, Boccaccio, Ariosto, Boiardo, Vincenzo Monti, Cesare Beccaria Possiamo dunque dire che l’Indice fu il più efficace strumento di proe Pietro Verri, Foscolo e quasi tutti gli eroi del Risorgimento, da Pellico mozione alla lettura che mai sia stato immaginato da mente umana, a Maroncelli, ma anche i cattolicissimi Niccolò Tommaseo, Gioberti e prodotto di un’intelligenza eccellente che evidentemente capiva i libri. Rosmini, e Settembrini, e poi Ada Negri, poetessa del proletariato itaC’era insomma un complicità di intelligenza e una solidarietà straordiliano; e ancora Fogazzaro, D’Annunzio, Malaparte, Benedetto Croce e naria, un gemellaggio reale tra il censore e il lettore trasgressivo. Perciò Giovanni Gentile, e Aldo Capitini, e poi Moravia e persino il misuratisa noi che oggi ci sentiamo molto confusi, quell’Indice in fondo manca. simo giornalista Mario Missiroli, che dal 1952 al 1961 diresse un CorDa un lato infatti la sua soppressione non ha mitigato il furore, come diriere della Sera molto cauto, centrista e filodemocristiano, inventore mostrano le battaglie (perse) contro Il Codice da Vinci. Ma dall’altro non della famosa formula giornalistica che tanto successo ha ancora in Itasappiamo più che cosa leggere. È vero che ci pensano gli islamici a darlia: «Meglio un buco che uno scoop». ci una mano perseguitando e dunque segnalando i libri, ma questa è Insomma, basta un’occhiata distratta per accorgersi che sono i miun’altra storia sebbene sinistramente somigli alla nostra storia. gliori quei libri che era obbligatorio consegnare all’Inquisitore o al conDi sicuro noi occidentali siamo ormai troppo rincitrulliti dal sistema fessore ottenendo in cambio uno sconto di pena nell’Aldilà. Si va da Baldell’editoria di massa e assistita, dei premi letterari e delle recensioni zac a Voltaire, da Copernico a Stendhal a Sartre, da Cartesio a Bergson, che, specie in Italia, sono quasi tutte “truccate”, al contrario del rigoroda Locke a Spinoza, da Kant a Galileo, da Gide a Flaubert, da Hume a so Indice, dove non si entrava se non eri un grande. Oggi che la promoMontaigne, passando ovviamente per Machiavelli, il cui Principe zione dei libri è una colossale industria delle patacche, scientificamen«scritto con il dito del diavolo, è un nemico del genere umano...». te organizzata dagli editori e dagli amici degli amici perché, come diceBotteghe di veleni e diavoli dello spirito, i libri all’Indice venivano reva Flaiano, «quando si recensisce il libro di un amico è un dovere paragolarmente incendiati «nelle città che più ne erano infette». Per secoli gonarlo a Hegel», oggi insomma noi quasi quasi vorremmo che la Chiela cerimonia del rogo, a partire dai dodicimila volumi dati alle fiamme sa ci restituisse l’Indice, magari su iniziativa degli zelantissimi atei deda Papa Sisto V in piazza San Marco a Venezia, divenne parte integranvoti, per non fare davvero scomparire gli amatissimi lupi, per non te della liturgia pasquale ed evocò una simbologia di morte-resurreritrovarci in un mondo popolato solo da pecore. zione: la cultura corrotta andava in cenere per risorgere purificata, mo-

FRANCESCO MERLO

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La Chiesa e la censura, un testimone racconta

Il Prof, il Monsignore e la condanna all’afasia FRANCO CORDERO Abbiamo chiesto a Franco Cordero, scrittore, saggista e docente universitario, autore di un famoso manuale di procedura penale, di ricordare e commentare una vicenda di quarant’anni fa che lo ha coinvolto: nel 1967 scrisse “Gli osservanti”; quel libro gli costò la cattedra alla Cattolica

arte del pensare costa fatica e implica dei rischi. In materia ho sperimentato varie cose meritevoli d’un cenno perché smentiscono dei luoghi comuni: ad esempio, che il passato cattolico imponga chiavarde alle idee; e fuori spirino atmosfere laiche (a parte cittadelle illo tempore marxiste dove gli ecclesiocrati pontificano ancora). La mia cattedra alla Cattolica data dall’Ognissanti 1960: procedura penale, materia tecnica se ve n’è una; sono forestiero; nessuno m’ha chiesto professioni di fede, meno che mai giuramenti; e tutto seguiterebbe de plano se due anni dopo la Facoltà non m’affibbiasse anche la filosofia del diritto, meno neutrale. Nessuno s’aspetta filastrocche edificanti: il clou del mio corso è una teoria generale del diritto; gli scolari studiano Hans Kelsen, efferato anti-ideologo; e leggono un lieve diversivo storico sull’idea del diritto naturale. Buona scelta didattica, ma le antipatie pulsano persino tra gli apostoli o intorno alla Tavola Rotonda, figurarsi nelle Facoltà universitarie: due o tre colleghi impugnano l’arnese confessionale; bisbigli santimoniosi deplorano il taglio profano delle lezioni. Allora passo alla scrittura pescando nella magnifica biblioteca: non vi manca niente, inclusi i testi sulfurei, fuori d’ogni cautela censoria; e nascono Gli osservanti, 679 pagine, una traversata nel «dover essere»; esploro lessico, grammatica, sintassi, storie d’idee, proiezioni teoretiche, fondi viscerali, nemmeno sfiorato dal sospetto d’essere caduto nell’infandum (cose da non dire); va detto tutto; chi dissente spieghi dove ho sbagliato e come. Vigono regole del pensiero o no? Due esperienze mi disilludono. Estate 1967, cerco l’editore. Il dominus della saggistica d’una Casa apparentemente laica loda «autorità stilistica», idee interessanti et cetera: peccato che il padrone non voglia (motivi d’economia, naturalmente); e indica tre vie possibili. La migliore conduce al laboratorio nei cui famosi mercoledì ha voce consulente un mio collega senior, papa della materia. Vado da lui, ospitalmente accolto: «Abbiamo due collane adatte»; lascio manoscritto e indirizzo d’una villeggiatura alpina. Nel referto epistolare mi ringrazia d’avere contribuito alla filosofia del diritto con un saggio che gli ricorda Pareto: non è complimento da poco, ma vorrei che lo dicesse alla Casa, avallandomi; sul qual punto riparlandone lo sento evasivo. Forse aliquid obstat, perciò vado dall’editore della Procedura penale. Il libro appare verso Natale, sotto una copertina illustrata da Hieronymus Bosch, Trittico del fieno. Ne dedico una copia all’archimandrita laico, stupito: non se l’aspettava così presto; «bello». Ovvio che ne parli al pubblico. Nossignori, silenzio arcigno, condiviso dai cultori della materia e affini. Nell’Università circola tranquillamente, l’anno dopo diventa testo ufficiale. Quei due o tre soffiano nel fuoco. Libro vissuto, Gli osservanti incubavano un lungo discorso (sia detto en passant, Nino Aragno li ripresenterà in autunno). Lo scandiscono ventidue titoli: il primo è un malinconico e freddo scherzo narrativo, «Genus», dove racconto quel che avverrà, confidando nell’effetto esorcistico, ancora illuso, perché siamo automi regolati come pendole. I fuochisti agiscono, tali e quali li avevo dipinti: un vescovo presidente dell’Istituto finanziatore, incauto, s’è fatto coinvolgere; dopo due anni mi comunica un piccolo anatema; il lettore «intelligente non so come [possa] conservare la fede cattolica o almeno» schivare «gravi difficoltà», contro le quali non fornisco soccorsi. Tocca a me fornirli? Nasce da lì Risposta a Monsignore. La filosofia del diritto passa in mani pie e io insegno procedura penale, finché la competente Congregazione vaticana revoca il nulla osta. Causa al Consiglio di Stato: interloquisce la Consulta, nel senso che abbiano vincoli dottrinali i docenti delle università confessionali riconosciute dallo Stato; uno dei giudici, impavido, le paragona alle scuole dei partiti (uomo d’umori ondivaghi, ormai reazionario arrabbiato, veniva da Pnf e Pci). Sono inamovibile dalla cattedra ma non tengo lezione, un’afasia quadriennale. Finita la causa, mi chiama Torino. Due anni dopo, la Sapienza, dove non approderei se pesassero avvertimenti negativi d’oltre Tevere, mentre sparisce dalla ribalta monsignore vescovo, «teologo del papa». È divertente speculare sui futuribili (Padre Luis Molina S. J. lo fa nella Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis). Fingiamo che quei due o tre professori s’occupino dei fatti loro, così distanti dalla specola filosofica: Gli osservanti vanno pacificamente in giro; gli studenti v’imparano l’arte del guardare nelle formule cavando i sensi occulti dove ve ne siano, senza riguardi alle vesciche verbali; l’autore chiude la carriera accademica in piazza Sant’Ambrogio trentasei anni dopo, avendo scritto varia roba; niente da spartire, suppongo, con i ventidue titoli posteriori al libro galeotto. Il mondo sarebbe diverso nella parte infinitesima che mi tocca. Sarei meno informato d’una cosa, quanto poco rendano i discorsi disinteressati, diritti, brevi, chiari: è già tanto che, avendoli tenuti, restiamo incolumi, ma le apparenti verità dogmatiche sono un falso scopo; i giochi corrono a livelli profondi. Gl’integrati fiutano l’argomento da non toccare: siccome l’esercizio del pensiero irrita gli eminenti e affatica i consumatori, dicono poco con tante parole gonfie, sonore, equivoche, fumiganti. Ricapitolando i vissuti, direi che il mondo cattolico apra larghi spazi ai discorsi liberi e la griglia inibitoria sia struttura sommersa del metabolismo biopsichico: oltre ai pochi superstiti campioni d’ortodossie, la condividono reazionari, progressisti, eversori, bigotti atei, versipelle intenti alla carriera; a man salva l’adoperano santoni d’un sedicente spirito laico. Nell’età degli stereotipi consumati in massa non c’è bisogno d’inquisitori, basta la noia, spegnitoio inesorabile. Spirano arie logofobe: i gesti prendono il posto dei concetti; l’Arcadia ha partorito gerghi farfallini; l’interessante non sta nel detto, semmai traspare dalla mimica. Stiamo regredendo all’astuzia degl’istinti.

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L’

ROGHI Il dipinto (XV secolo) mostra San Domenico che assiste a un rogo di libri “diabolici”. L’“Indice” sarà creato un secolo più tardi

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il fatto

Sono passati vent’anni. In quell’estate ’86 un gruppo

Compleanni

di amici fondò il primo nucleo di un movimento che fu accusato di elitarismo ma che oggi ha messo radici in 106 paesi. E che scommette su un futuro del pianeta dove a dettare l’agenda della produzione e dello sviluppo saranno i pescatori, i pastori, i lavoratori della terra

Slow Food, il mondo «F MICHELE SERRA

Editoria Settantacinque titoli, tutti costruiti intorno al cibo come elemento di conoscenza, etica, qualità All’inizio fu solo un supplemento a “il manifesto” col nome di “Gambero Rosso”, marchio rimasto ai partner di un tempo con i quali viene pubblicata ogni anno la celebre guida dei vini Tra i successi, “Osterie d’Italia”

Estero Un’associazione da subito senza confini: il congresso di fondazione del Movimento Internazionale Slow Food fu organizzato (1989) a Parigi Un’attività, riconosciuta dalla Fao, che oggi ha sedi in tutto il mondo Altri punti-cardine, i presìdi del mondo e il premio per la biodiversità. Nel 2004 Time ha eletto Petrini “Eroe europeo dell’anno”

Eventi Una miriade di appuntamenti su cui spiccano il Salone biennale del Gusto, che quest’anno celebra il decennale, e Cheese (le forme del latte), con cadenza biennale, alternata al primo. Più recenti, lo Slow Fish e soprattutto Terra Madre, che a novembre porterà a Torino 1.200 comunità del cibo del mondo e mille grandi cuochi TERRA MADRE Dalla foto qui sopra, in senso orario: Carlo Petrini a Terra Madre e durante una premiazione; le prime tessere con la Chiocciolina; due momenti di Terra Madre e l’Università di Pollenzo A centro pagina, Petrini con Francesco Guccini

u una fisima. Una fisima da langaroli…». Vent’anni dopo, quella «fisima» è diventata un fenomeno mondiale. Fondata con il nome di Arcigola nel luglio dell’86, rigenerata in Slow Food tre anni più tardi, ha messo radici in centosei nazioni del pianeta Terra. Soltanto negli Stati Uniti, le condotte di Slow Food sono 173, e gli iscritti molte migliaia. «Chiamarle “condotte” — racconta ora Carlo Petrini — fu quasi un vezzo, ci siamo ispirati alle condotte veterinarie, al medico condotto, per indicare il radicamento a un territorio preciso. Si tratta di piccoli gruppi di produttori e consumatori, uniti nella tutela di un particolare cibo, di un modo di produzione, di una maniera di vivere. Gli americani li chiamano “convivium”. E se mi avessero detto, quando abbiamo cominciato, che un giorno avremmo avuto una condotta anche in Uzbechistan, avrei pensato a uno scherzo…». Torniamo alle origini. Al punto zero. C’era una volta un piccolo organizzatore culturale di Bra, provincia di Cuneo… «Erano gli anni di Arci Gay e di Legambiente, il periodo più fecondo per l’associazionismo italiano. Se nasci in Langa, è quasi fisiologico pensare alla terra, al vino, alla gastronomia come a un terreno fertile per ragionare insieme ad altre persone. Avevamo già fatto qualcosa di locale, gli Amici del Barolo e cose del genere, ma il nostro modello di riferimento era la Francia, che aveva da tempo imposto la sua gastronomia nazionale come un formidabile fattore culturale e identitario. Trentenne, andavo in Borgogna e a Bordeaux per seguire corsi di enologia, per imparare a trattare una materia così ricca. Noi volevamo fare come i francesi ma a differenza dei francesi non avevamo avuto uno Stato centrale così forte e cosciente da imporre una cultura nazionale del cibo, una Cucina Francese con tutti i suoi crismi. Non esiste una cucina italiana, esistono le cucine regionali e locali. Tante, e disperse. E proprio da lì siamo partiti. Dal nostro ombelico. Ma per guardare più in là possibile». C’era, nell’Italia degli anni Ottanta, un certo fermento intellettuale attorno al tema, allora considerato molto specialistico, della gastronomia. «Direi che tutto o quasi, anche Slow Food, prese l’avvio dalla rivista La Gola. Lo stesso nome Arcigola viene da lì, da quella indimenticabile testata. La facevano Alberto Capatti, che oggi è rettore dell’Università di Pollenzo, Gianni Sassi, Folco Portinari, Massimo Montanari, Antonio Porta… Io ero appena il ragazzo di bottega, andavo a Milano a respirare quell’aria, leggevo tutto avidamente, mi abituavo a trattare le questioni della gastronomia e dell’alimentazione come fatti culturali e politici. La Golafu, per il nostro mondo, un modello internazionale, neanche i francesi avevano qualcosa di paragonabile». Partenza decisamente di élite, comunque. Intellettuali di sinistra che ragionano sulla tavola e sul bicchiere. Ed è, in fondo, quello che qualcuno continua a rim-

“Fu una fisima Una fisima da langaroli...” Comincia così l’intervista-racconto

di Carlo Petrini

su bilanci e progetti proverarti nonostante il successo mondiale di Slow Food e delle sue condotte, nonostante le migliaia di contadini che arrivano da ogni angolo del mondo a Torino per partecipare al raduno di Terra Madre. «Ah già, la faccenda che siamo elitari… che ci occupiamo di questioni lussuose e marginali, come la salvezza di prodotti di nicchia, magari anche costosi… i maniaci del lardo di Colonnata… beh, guarda, ti rispondo così: quando, nel ‘96, cioè solamente dieci anni fa, facemmo a Torino il primo Salone del Gusto, ci dissero “siete pazzi”, un manipolo di utopisti o peggio di snob. I bene informati ci spiegarono che il futuro dell’alimentazione era Cibus, la fiera dell’industria agroalimentare a Parma, che contavano la quantità, la produzione intensiva, i grandi numeri, che bisognava sfamare il mondo, altro che lardo di Colonnata. Beh, in dieci anni la situazione si è esattamente ribaltata. La politica alimentare dell’Unione europea ha fatto pienamente propria l’idea che sia la qualità a dover prevalere. Si tende a valorizzare ovunque la biodiversità, si tutela la fagiolina del Carso, addirittura si esagera nel sottolineare il valore identitario delle produzioni agricole locali. Questo significa che, culturalmente parlando, Slow Food ha semplicemente stravinto. Sarà anche stata un’élite, ma ha dato la lista delle priorità anche a buona parte del mondo politico». L’agricoltura, del resto, non per caso si chiamava e si chiama settore “primario”. «Appunto. Altro che nicchia, altro che snobismo: il cinquanta per cento della popolazione mondiale è fatta di contadini, e aggiungendo pescatori, pastori, trasformatori e ristoratori si arriva a più del sessanta per cento degli umani viventi che lavorano nel cibo. Noi italiani, con il nostro quattro per cento di occupati in agricoltura, non ce ne rendiamo conto, gli americani men che meno, da loro i contadini sono solo il due per cento. Ma è un punto di vista provinciale e minoritario, il nostro, di fronte alla realtà di un pianeta ancora profondamente contadino». Però è opinione molto diffusa che solo l’agricoltura massiva sia in grado di sfamare il mondo. Che le piccole colture non possono essere all’altezza della sfida della sovrappopolazione. «Nego nella maniera più assoluta. L’economia di piccola scala non è solo più estetica o più poetica. È più produttiva. È più economica. Consente un gigantesco risparmio energetico, elimina quelle che gli economisti chiamano “esternalità negative” dell’economia di larga sca-

la, che fa viaggiare merci alimentari consumando smisuratamente energia, che ha bisogno di un uso massiccio, insano e antieconomico di conservanti per far viaggiare il cibo senza deteriorarlo. Consumare prevalentemente il cibo che si produce nel proprio territorio significa lavorare per la salvezza del pianeta e contemporaneamente mettersi al riparo dalla fame». In che senso? «Nel senso che mi ha spiegato così bene, a Terra Madre, un contadino africano. Nel suo comprensorio il governo aveva incentivato la coltivazione intensiva del caffè, a scapito di tutte le altre produzioni locali. Il padre aveva accettato, convertendo tutti i suoi campi a caffè. Ma la nonna non si fidava, e mantenne il suo pezzo di orto, con tutti i prodotti tradizionali. Due o tre anni dopo il Vietnam entrò nel mercato del caffè a prezzi stracciati, rovinando molti produttori africani. La capanna del mio amico contadino era stracolma di caffè invenduto, e non avevano più niente da mangiare. Il caffè non si mangia: si vende e basta. Si salvarono perché la nonna poté sfamare tutta la famiglia con il suo orto». Gli orti di tutte le nonne del mondo possono sfamarci tutti? «Ovvio che no. È inevitabile e giusto che alcuni prodotti continuino a viaggiare, o perché non è possibile produrli ovunque oppure per la sacrosanta curiosità di conoscere i prodotti altrui. Solo che il rapporto tra consumo di prodotti locali e di prodotti globalizzati andrebbe esattamente invertito. Specialmente se riuscissimo ad assumere, finalmente, il punto di vista del Sud del mondo: perché piegare economie di decorosa sussistenza a una logica produttivistica che li priva, alla lunga, anche del decoro? Perché questa pirateria genetica che espianta colture e culture, le cancella, e costringe interi popoli a dipendere dai sussulti del mercato globale, come con la storia del caffè vietnamita? Per mantenere all’ingrasso un miliardo e settecento milioni di obesi, quasi tutti del mondo ricco? È logico tutto questo? È morale? E soprattutto, è produttivo? Io credo proprio di no». La politica, almeno in Occidente, non sembra attentissima a queste logiche. «La politica, quasi tutta, ignora che molte delle avanguardie intellettuali, nel mondo, oggi provengono dalla terra, dal mondo contadino. I grandi movimenti contadini sono i soggetti più irrequieti e più fecondi della politica planetaria. Ci siamo già dimenticati che il movimento di Seattle è partito da contadini. Per esempio i contadini sanno che la produzione massiva, la logica dell’agroindustria, ha espulso a milioni, a centinaia di milioni, le donne dal processo produttivo. Bisognerebbe che si capisse, una volta per tutte, che i prodotti della terra non sono come le altre merci. A differenza dei manufatti industriali, il cibo è parte intrinseca del territorio che lo genera, dell’economia, della cultura, del paesaggio. Un paese che perde le sue biodiversità è un paese che si sta immiserendo da tutti i punti di vista, economico ed estetico. Anche se apparentemente, in un primo momento, la conversione al mercato globale sembra portare vantaggi e denaro, alla lunga si paga il conto, ed è un conto durissimo. Basti dire

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salvato dai contadini Il ricordo di un tesserato della prima ora

“Ho arruolato Platini tra i pionieri della Chiocciolina” GIANNI MURA aro Carlin, mon lecteur hypocrite, mon semblable, mon frère, essendo uno di quelli della prima ora e delle prime tessere non ritengo opportuno dilungarmi in saluti e smancerie. Sarà sufficiente l’inchino e il bacio dell’anello, atto dovuto a quel po’ di ieratico che porti addosso con noncuranza, ma soprattutto alle tante cose realizzate, alla tanta strada percorsa. Ti ho conosciuto in un dopo-Tenco, Paolo Conte alle tastiere e tu intonavi «È morto un bischero» con Azio, Giovanni, quelli di Bra e l’immancabile Guccini. Le persone serie si riconoscono al volo, come gli angeli al primo batter di piume (direbbe il nostro amicoapripista Veronelli). Talmente serie da presentare il manifesto di Slow Food all’Opéra Comique di Parigi, mica in una piola di Dronero. Non mi piaceva solo l’uso dell’inglese per un’iniziativa partita dall’Italia, ma mi sbagliavo. E comunque mi è servito per giocarci nell’ambito della professione (Fast Foot per il frenetico calcio-tonnara) e dintorni (Nefast Food, Show Food). Ricordo bene la tua telefonata: servono proseliti importanti,

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C

hai sottomano qualcuno? In effetti, siccome Slow Food ancora doveva ufficialmente nascere, nessuno sapeva cosa fosse, tolti quei carbonari che avevano letto il manifesto-battesimo-programma. Mi bastarono cinque minuti ad arruolare Platini. In quel periodo, aveva in mente di aprire a Torino un bar à huitres, sotto l’ovvia insegna di Chez Michel, alla fornitura avrebbe provveduto la famiglia di Rocheteau (allevamenti nella zona di Arcachon). Non se ne fece nulla perché Boniperti mise il veto, gli sembrava disdicevole che un calciatore della Juve mettesse su un bistrot (come passa il tempo). Peccato, avevo già preparato la carta dei vini italiani (a quelli francesi aveva provveduto Platini). Ora che l’utopia s’è rivelata preveggenza e Slow Food ha messo radici nel mondo, ben oltre il cappone di Morozzo e il caciocavallo podolico, ora che si parla di terra e Terra, di ecosistemi sostenibili, tra i piedi, come sempre, ci ritroviamo le ingorde multinazionali. Lunga vita alla Chiocciolina, il più è da fare, ma intanto ti abbraccio con la sinistra e con la destra alzo un calice di Barolo, Monforte o Serralunga scegli tu.

che i principali danni all’ecosistema, secondo uno studio commissionato dalle Nazioni Unite a 1.400 scienziati, dipendono dalle nuove forme di produzione del cibo. L’agroindustria inquina e danneggia l’ambiente più dell’industria…». Eppure, nella percezione “progressista” del futuro, la battaglia anti-globale, la difesa a oltranza delle biodiversità, l’arroccamento attorno alle identità locali, sono in odore di essere vagamente reazionari… sto pensando a Bové, per esempio, e alla sua identificazione quasi spirituale con il terroir, con la tradizione… «José Bové è un terzomondista di sinistra, altro che storie. Io sono stato e sono di sinistra. Ma è fuori dubbio che questo dibattito incroci anche modelli e istanze che di sinistra certamente non sono. Non è un mistero per nessuno che io mi sia trovato bene con il ministro Alemanno, con il quale c’è stata una notevole sintonia progettuale. Ed è altrettanto vero che molti, a sinistra, pensano che io sia o uno che fa della poesia su questioni secondarie, o addirittura un reazionario che insegue una specie di spiritualismo contadino… Ma per fortuna non tutta la sinistra è così. Per fortuna la sostenibilità dello sviluppo è un concetto che comincia a farsi strada. E per fortuna si sta prendendo coscienza, anche in paesi industriali e post-industriali come il nostro, che le questioni della terra sono strutturali, decisive, e stracariche di significati politici». E, politicamente parlando, Carlo Petrini da Bra ama molto raccontare il suo più recente successo, una laurea honoris causa in “Human Letters” nel New Hampshire. «Commosso fino alle lacrime. Perché alla cerimonia c’erano diciottomila persone, e perché il rettore, leggendo le motivazioni della mia laurea, ha detto che il sottoscritto ha onorato la lezione di Antonio Gramsci: tenere insieme politica e cultura popolare. Ma pensa un po’: bisogna andare negli Stati Uniti, ormai, per sentire parlare bene di Gramsci. Qui da noi comunista è diventata una parola spregevole». Il futuro di Slow Food? «Il futuro di Slow Food è legato a quello di Terra Madre, la nostra “internazionale contadina”. Nella prossima edizione ospiteremo 1.500 comunità contadine che arrivano da 152 paesi. Chi pensa a un mondo residuale, non ha capito niente. Lo rimando diritto al cinquanta per cento della popolazione mondiale che lavora la terra. E lo rimando alla lettura di Vandana Shiva, ai nuovi economisti, alla vitalità intellettuale e politica del mondo contadino di tutti i continenti. Prima o poi canteremo anche noi We shall overcome. È nato come inno antisegregazionista, poi del femminismo, poi del pacifismo, adesso la frontiera del cambiamento passa attraverso i campi coltivati… Io ci credo».

Master “Buono, pulito e giusto”, il manifesto della nuova gastronomia di Carlo Petrini è la fonte di ispirazione dei corsi e dei laboratori organizzati in tutto il mondo sulla cultura del cibo Progetto sfociato nei venti corsi tematici di “Master of Food”, che spaziano dal pane alle spezie, dalla birra al vino

Presìdi Il progetto di salvaguardia e promozione delle piccole produzioni di qualità si richiama al Manifesto dell’Arca, pubblicato nel ’97. Pochi mesi dopo si passò ai Presìdi, veri e propri supporti tecnico-economici in grado di cambiare il destino di aree agroalimentari condannate a morte I Presìdi italiani sono quasi 200

Università Dove una volta c’era la fiorente agenzia agricola di Pollenzo, oggi sorge la prima Università di Scienze Gastronomiche, con studenti da tutto il mondo, grazie alle borse di studio dei soci sostenitori. Nello stesso complesso sono ospitati la Banca del Vino, un albergo con piscina e “Guido”, uno dei migliori ristoranti italiani

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Quattro storie sul trascorrere del tempo, la solitudine, il mistero del viaggio reale e mentale: uno tra i più celebri autori italiani di “bandes dessinées” ha realizzato per Einaudi un nuovo libro, ricco di tavole smaglianti “Questa forma di racconto per immagini - dice nel suo luminoso atelier parigino - è una scatola magica al cui interno è possibile liberare il fantastico, lo strano e l’imprevedibile”

Lorenzo

Mattotti

“Torno al fumetto, da un tempo lontano” Repubblica Nazionale 38 04/06/2006

FABIO GAMBARO

I

PARIGI

mmagini. Colori. Forme. Sogni, incubi, emozioni. Favole e avventure. L’universo creativo di Lorenzo Mattotti sorprende e affascina. Sempre. Ogni pagina del più celebre rappresentante del fumetto d’autore italiano spiazza il lettore, conducendolo lungo sentieri imprevedibili. Dove la maestria del disegno materializza emozioni e spazi mentali in continuo movimento. Dove la ricerca si fa spericolata e l’avventura si affranca da ogni tradizione, trasformandosi in poesia pura, irrequieta e fantastica. «Del fumetto, ciò che m’interessa è la forza visionaria, la radicalità delle immagini che possono essere completamente autosufficienti», spiega Mattotti, che ha cinquantadue anni e da quindici vive a Parigi, dove le sue opere hanno sempre trovato un pubblico attento e competente. Da Fuochi a Doctor Nefasto, da Caboto a Stigmate. Opere a cui ora sta per aggiungersi Lettere da un tempo lontano (Einaudi, 62 pagine, 15,80 euro), una raccolta di quattro storie malinconiche e poetiche sul trascorrere del tempo, la solitudine

degli uomini, il mistero di viaggi reali e mentali. Un libro in cui, come sempre, l’estroso illustratore catapulta il lettore in un universo dai colori cangianti, dove le visioni surreali e le proiezioni futuribili si sovrappongono alla fragilità dei sentimenti e alle incertezze degli uomini: «Il lettore che entra nelle mie storie deve essere pronto a collaborare con il testo, riempiendo gli spazi tra un’immagine e l’altra. Deve essere attivo e liberare la sua fantasia, utilizzando la sua esperienza. Se domando quest’intensa partecipazione mentale e emotiva, è perché non m’interessa proporre storie scontate e prevedibili, che scivolano su chi legge senza lasciare traccia». Esigente con se stesso, ma anche con gli altri. Anche se poi c’è chi gli rimprovera di fare fumetti eccessivamente difficili e elitari. «A me però non sembra», risponde, «anzi, ho l’impressione di aver fatto molti sforzi per semplificare e rendere più comprensibile il mio discorso». Nel suo ampio e luminoso atelier parigino, Mattotti disegna manifesti e illustrazioni per committenti di tutto il mondo, progetta cartoni animati, dipinge quadri e prepara mostre. Un’attività continua che gli lascia poco tempo. Il fumetto però resta sempre il primo amore. L’attività a cui

“Chiedo al mio lettore di entrare nelle storie, collaborare al testo,

riempire gli spazi tra un disegno e l’altro”

tiene di più, ma anche quella che considera più difficile. Quella che lo costringe sempre ad interrogarsi, spingendolo a sperimentare nuove formule capaci di esprimere pienamente il suo mondo nutrito di citazioni pittoriche e letterarie, cinematografiche e musicali. Un mondo indissociabile dallo stile unico e visionario, forgiato in quasi trent’anni di attività, all’insegna di un’idea di fumetto inteso come linguaggio creativo aperto a tutte le inquietudini e affrancato da ogni tradi-

zione. Oggi, quando ripensa ai suoi inizi nel cuore degli anni Settanta, l’autore del Signor Spartaco e di Caboto ricorda le frenetiche ricerche a tutto campo, ma anche l’incomprensione che lo circondava: «Dicevano che nelle mie tavole non si capiva nulla e che avevo uno stile eccessivamente inquietante e sballato. In effetti, i miei disegni potevano sembrare confusi, lontani da ciò che i lettori si aspettavano da un fumetto tradizionale. La violenza delle mie tavole, ad esempio, era grottesca, assolutamente diversa dalla violenza glamour che andava di moda». Proprio le difficoltà degli esordi lo hanno però abituato a rimettere in discussione il suo lavoro: «Se tutto fosse stato facile, probabilmente mi sarei adagiato nella ripetitività. Così, invece, ho imparato a riflettere e a rinnovarmi, senza dare mai nulla per scontato». Oltretutto nel crogiuolo culturale degli anni Settanta era possibile radicalizzare ogni tipo di ricerca, in nome della liberazione dei linguaggi artistici: «Per me, il fumetto era come la musica rock, un linguaggio che apparteneva completamente alla mia generazione, con il quale potevamo esprimere liberamente le nostre follie e le nostre rabbie. Forse ho iniziato a disegnare fumetti proprio perché non sapevo suonare. Il fumetto aveva la stessa dignità degli altri generi artistici. Il suo linguaggio senza limiti era pieno di potenzialità. Poteva diventare poesia o farsi astratto, senza essere più prigioniero di una storia». Nacquero così Alice brum brum e Tram tram rock, le prime storie di un giovane e silenzioso disegnatore che, dopo aver iniziato a pubblicare su Eureka o Re Nudo, fu chiamato da Oreste Del Buono a collaborare a Linus. In seguito verranno Incidenti e Labirinti,

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opere che registrano la voglia di far esplodere le coordinate tradizionali del racconto a fumetti, stratificando le citazioni colte e le aperture oniriche, spezzando il ritmo, sovrapponendo personaggi e identità. Esempi di una voglia di libertà e sperimentazione oggi in netto arretramento: «Il fumetto è diventato un’industria. Certo, per un autore ci sono più opportunità, il mercato è più ricco e la produzione più ampia, ma globalmente assistiamo a un indiscutibile appiattimento delle proposte. Le grandi case editrici sono industrie che funzionano con griglie precise in cui i disegnatori devono solo adattarsi. Tutto deve diventare redditizio immediatamente e per la ricerca ci sono meno spazi che in passato. La serialità produce ripetizione e livellamento dei risultati». Mattotti, invece, in nome di una concezione artigianale e certosina del fumetto, non arretra di fronte a nulla ed è persino pronto ad imboccare direzioni apparentemente antitetiche. Così, Lettere da un tempo lontano, in cui l’esplosione strepitosa dei colori dispiega prospettive vertiginose («sono ancora uno dei pochi che fa i colori con le matite, ormai li fanno tutti al computer»), segue di poco Chimera (Coconino Press, 32 pagine, 8 euro), un libro tutto in bianco e nero, senza parole, fatto di libere associazioni e scarti improvvisi, tra incubo e poesia: «Il fumetto in bianco e nero e il fumetto a colori sono due mondi diversi, uno più vi-

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LUCE E MATITA Le immagini di queste pagine sono tratte dal nuovo libro di Lorenzo Mattotti “Lettere da un tempo lontano”

sionario, l’altro più essenziale. A me interessano entrambi, anche perché ogni libro che faccio è una storia a sé, per la quale ripenso ogni volta le forme, i colori, l’impaginazione, le relazioni tra le immagini e il testo... A volte trovo subito la soluzione, altre volte invece mi occorre molto tempo. Ho sempre mille dubbi, ma quando sento di aver trovato ciò che cercavo, vado fino in fondo, senza preoccuparmi di ciò che penseranno i lettori o il mercato. Se una storia mi sembra necessaria, nulla mi può fermare». Il problema caso mai è quello del tempo, visto che le sue opere hanno tempi di realizzazione molto lunghi: «Il fumetto è un linguaggio complicato, che ha bisogno di molta concentrazione. Per farlo come lo faccio io serve continuità e una certa tensione creativa. Occorre sentirsi in un fiume narrativo che non può essere continuamente interrotto da altri impegni. Per questo, lascio passare parecchio tempo tra un fumetto e l’altro». Come in tutte le opere di Mattotti, anche in Lettere da un tempo lontano la frontiera tra mondo oggettivo e visione soggettiva si fa labile e confusa. Alla realtà concreta si sovrappone la realtà mentale dei personaggi, le coordinate spazio temporali si dilatano, i piani si confondono in un continuo alternarsi d’immagini sorprendenti: «Il fumetto», dice, «è una scatola magica al cui interno è possibile liberare l’immaginario, motivo per cui nelle mie storie domina-

no il fantastico, lo strano e l’imprevedibile. D’altra parte, tutte le volte che ho tentato la strada del realismo, mi sono sempre annoiato moltissimo. Per me, raccontare significa creare una concatenazione di eventi e d’immagini capaci d’evocare stati d’animo. L’attualità, la cronaca, i temi sociali li lascio a chi li sa fare meglio di me, anche se ciò non significa che nelle mie storie non ci sia la realtà. C’è, ma è presente in maniera indiretta, magari attraverso le notizie di un giornale o qualche altro dettaglio». Oggi però l’autore della Zona fatua si prepara ancora una volta a stupire i suoi lettori, pensando a scenari molto lontani dalla realtà di tutti i giorni: «Vorrei tornare all’alba del fumetto con una storia in bianco e nero di animali strani, una storia poetica e leggera, ma anche capace di dire cose importanti. Oppure mi piacerebbe inventare un mondo arcaico, aperto al mistero, ai numi e ai rituali. Ho voglia di disegnare guerrieri, templi, sacrifici. Per questo, sto pensando a una Sibilla, attorno a cui intrecciare i temi del mistero e dell’amore». Una storia che potrebbe essere pensata anche per un quotidiano, come è già accaduto in passato con la Frankfurter Allgemeine Zeitung, dove Mattotti ha pubblicato a puntate il Rumore della brina. Tornando sulle pagine dei giornali, infatti, il fumetto potrebbe recuperare lo spirito e l’energia delle origini: «Il fumetto è nato come stri-

scia quotidiana sulla stampa. Oggi i giornali dovrebbero favorire nuove esperienze di questo tipo, spingendo i disegnatori a porsi il problema di come utilizzare la potenza narrativa del fumetto su un mezzo di comunicazione che raggiunge ogni giorno moltissimi lettori. Trovare le immagini e i linguaggi adeguati a un nuovo tipo di narrazione rivolta al grande pubblico è una sfida che il fumetto non può eludere». Una sfida che Mattotti sarebbe felice di raccogliere di nuovo, se solo se ne presentasse l’occasione.

“Voglio riscoprire l’alba di questo genere, voglio

costruire la storia in bianco e nero di un mondo arcaico”

DISEGNI PER BAMBINI Di Lorenzo Mattotti esce anche “Eugenio”, scritto insieme a Marianne Cockenpot (Gallucci, 24 pagine, 15 euro) È la storia di un bambino abbandonato in un circo dai genitori poverissimi Diventerà un bravissimo clown, ma un giorno perderà l’allegria. Sarà un altro bambino a salvarlo

DISEGNI PER GRANDI Si intitola “Lettere da un tempo lontano” (Einaudi, 62 pagine, 15,80 euro) il nuovo libro di Lorenzo Mattotti Per l’illustratore è un ritorno al suo primo amore, il fumetto Ma è anche un ritorno al colore dopo il suo recente lavoro in bianco e nero, “Chimera”. Ma niente computer, i colori sono stesi ancora a mano con le matite

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la lettura Fuga dall’Olocausto

Nel 1938 ventimila scampati alle persecuzioni naziste trovarono rifugio nella metropoli asiatica Una storia straordinaria che adesso ritorna nelle memorie degli ultimi sopravvissuti

Shanghai, il ghetto alla fine del mondo «P

FEDERICO RAMPINI

Repubblica Nazionale 40 04/06/2006

SHANGHAI

er primi arrivarono i tedeschi e gli austriaci, poi i polacchi. Quasi tutti si erano imbarcati a Genova sulle navi del Lloyd Triestino. Avevano fatto scalo a Port Said, Aden, Bombay, Ceylon, Singapore, Manila e Hong Kong, ma senza poter mai scendere a terra finché non raggiungevano la meta finale, cioè Shanghai. Viaggiavano sotto un’afa torrida indossando pesanti cappotti di lana, gli unici vestiti che avevano. Non erano preparati alla vita in una metropoli dell’Estremo Oriente. Erano senza soldi, perché i nazisti li avevano lasciati partire solo a condizione di abbandonare i loro beni e mettersi in viaggio con venti marchi e una valigia a testa. Come se non bastasse gli armatori italiani approfittavano di loro e facevano pagare il doppio della tariffa per il viaggio in nave». Così la scrittrice di origine cinese Stella Dong nel suo libro Shanghai, the rise and fall of a decadent city ricorda una delle più strane pagine di storia del Ventesimo secolo: la fuga di ventimila ebrei europei che scamparono alle persecuzioni di Hitler solo perché nel 1938 trovarono rifugio nel “ghetto di Shanghai”. Lì vissero fino alla fine della Seconda guerra mondiale, sotto la sorprendente protezione di un Giappone alleato dei tedeschi. Una vicenda incredibile e ancora poco nota, ricostruita nelle memorie degli ultimi sopravvissuti: come Ursula Blomberg, che fuggì da Bratislava con i suoi genitori quando aveva undici anni e solo sessantacinque anni dopo ha consegnato i ricordi di quell’epoca nel suo Shanghai Diary. «Il resto del mondo — ricorda la Blomberg, che oggi vive negli Stati Uniti — aveva chiuso gli occhi di fronte agli orrori della Germania nazista, aveva chiuso le orecchie di fronte alle grida di aiuto, aveva chiuso le porte in faccia a chi cercava di scappare dall’orrendo incubo del genocidio. L’America, il Messico, il Canada, il Sud America, l’Australia, il Sudafrica, per non parlare delle nazioni europee e delle loro colonie: tutti respingevano i rifugiati. A Singapore, colonia britannica, gli ebrei non potevano neppure scendere dalla nave durante lo scalo. In tutto il mondo soltanto una città ci aprì le braccia. Shanghai, l’instancabile metropoli cinese popolata di avventurieri e cacciatori di fortuna, la capitale del piacere e del peccato, tenne le sue porte spalancate e offrì asilo a noi ebrei disperati in fuga dall’Europa». La Shanghai degli anni Trenta, definita a seconda dei gusti «la Parigi d’Oriente» o «il bordello dell’Asia», è una metropoli fantastica e repellente, raffinata e caotica, eccitante e viziosa. Con una popolazione di due milioni di cinesi e di duecentomila stranieri — russi, indiani, giapponesi, inglesi, francesi e tedeschi — è la città più cosmopolita del pianeta. Le concessioni ottenute dalle potenze imperialiste ai danni della Cina dopo la guerra dei Boxer (nel 1900) hanno consentito la costruzione dei quartieri coloniali francese, inglese, tedesco, di cui tuttora possiamo ammirare le vestigia urbanistiche sul Bund, il lungofiume dove si alternano palazzi in stile neoclassico, fin de siècle o Art Déco che potrebbero essere a Londra, Berlino, Vienna e Parigi. Principale porto dell’Asia, tra le due guerre mondiali, Shanghai unisce le punte estreme della miseria nei suoi bassifondi e nel proletariato delle fabbriche, insieme con l’opulenza sfacciata delle élite cinesi e della grande borghesia mercantile venuta dall’Occidente. La sua industria cinematografica rivaleggia con Hollywood, l’attrice cinese Ruan Ling-yu è la Greta Garbo d’Oriente. Ci sono ristoranti diretti da grandi

NELLE STRADE DI HONGKEW Nelle foto sopra: il ghetto di Shanghai, nel quartiere di Hongkew, alla fine della guerra, nel 1946; si leggono gli elenchi dei nomi dei sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, forniti dai liberatori Nella foto grande: Nanjing Road, la principale arteria commerciale di Shanghai, nel 1936. In basso, bambini del ghetto festeggiano Hanukah

cuochi parigini, concorsi ippici che sfidano Ascot e Longchamp, casinò e bordelli per tutte le tasche e tutti i gusti, compresa una fiorente comunità gay. A differenza di New York e delle capitali europee, Shanghai è passata indenne attraverso il crac del 1929 e la Grande Depressione, il suo boom non si è interrotto, la vita notturna è sfrenata. «Non ci sono limiti ai piaceri che il denaro può comprare», è il motto della città. Al vertice della piramide sociale in quella Shanghai ci sono ricche famiglie ebree che si prodigano per aiutare gli esuli in fuga dalla Germania nazista: le dinastie sefardite degli Abraham, Ezra, Hardoon, Kadoorie, Sassoon, Shamoon, quasi tutte originarie di Bagdad. Silas Hardoon, morto nel 1931 lasciando un’eredità di 150 milioni di dollari di quei tempi, è stato il businessman straniero più potente di tutto l’Estremo Oriente. Elly Kadoorie ha fatto fortuna nelle merchant bank e nel commercio di caucciù, possiede il Jewish Country Club, la catena alberghiera degli Hongkong and Shanghai Hotels, e nella sua villa Marble Hall c’è la più grande sala da ballo della città, dove le note del tango e del fox-trot risuonano fino alle prime luci dell’alba. A dominare la scena sopra tutti è Victor Elice Sassoon, “sir Victor”, discendente di una famiglia di ebrei iracheni che sono stati i banchieri del califfo di Bagdad, poi si sono trasferiti in Estremo

Oriente per sfuggire al crescente antisemitismo del mondo arabo. In Cina la loro fortuna si moltiplica col commercio delle due materie prime che sono l’anima dell’impero britannico: il cotone e l’oppio. Padrone di un conglomerato finanziario con sedi a Shanghai e Bombay, sir Victor ha passaporto inglese ed è stato un eroe della Prima guerra mondiale come pilota della Royal Air Force. Nella metropoli cinese Sassoon fa costruire l’albergo più lussuoso dei suoi tempi, il Cathay, con la monumentale hall di marmo rosa, gli affreschi liberty, i mobili di mogano in stile Tudor, 214 suite alimentate di acqua pura dalla sorgente naturale Bubbling Wells Springs. È il primo hotel del mondo ad avere il telefono e l’aria condizionata in tutte le camere. Mecenate, organizzatore di party sfarzosi che rivaleggiano con quelli di William Randolph Hearst a Hollywood, Victor Sassoon riempie le cronache mondane con le sue avventure sentimentali, compresa una tempestosa relazione con la giornalista e scrittrice americana Emily Hahn. Se l’aiuto umanitario della comunità sefardita locale è decisivo per mettere in salvo ventimila perseguitati dal nazismo, la Shanghai che accoglie i profughi ebrei è ben diversa dai quartieri alti, dalla città viziata e sublime degli occidentali ricchi. I giapponesi, che occupano quasi tutta la Cina ma fino a quel momento rispettano Shanghai come una “città aperta”, nel 1938 accettano di ospitare gli ebrei tedeschi in un quartie-

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re sotto il loro diretto controllo, il popolare distretto di Hongkew. Con l’arrivo della marea di profughi che si mescolano agli abitanti cinesi, il nome di Hongkew diventa sinonimo del ghetto ebraico di Shanghai, un insediamento unico e senza precedenti sotto quelle latitudini esotiche. Ursula Blomberg ricorda lo shock dell’impatto con la Cina. «Nulla assomiglia alle immagini stereotipate dell’Asia che abbiamo ricevuto nella nostra infanzia, cioè giardini profumati, signore fasciate di sete eleganti, farfalle e fiori delicati. Shanghai è avvolta nel tanfo di escrementi umani e di urina. I coolies (facchini) in mutande, madidi di sudore, trasportano carichi pesantissimi che dondolano dalle canne di bambù sulle loro spalle ossute. Orde di ciclisti, eserciti di tiratori di risciò si accalcano agli incroci insieme con i venditori ambulanti che strillano per offrire le loro merci. I mendicanti sono dappertutto, uomini e donne seminudi e pieni di piaghe purulente. Le condizioni igieniche sono spaventose, nel caldo soffocante e umido gli alimenti marciscono in pochi giorni e vengono divorati dai vermi. Non esistono fognature, i bambini malati di diarrea girano con delle “code” di cotone fra le natiche per arrestare lo scolo, nei vicoli si inciampa nei topi morti, nelle carcasse di ogni sorta di animali in decomposizione, perfino nei cadaveri di neonati abbandonati». Nonostante gli stenti la famiglia Blomberg si adatta rapidamente. Il pa-

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dre crea una ditta per dipingere case e tra i suoi clienti annovera anche alcuni celebri bordelli, quell’antico universo delle cortigiane cinesi che incuriosisce l’adolescente Ursula. La ragazza trova lavoro a sua volta come maestra d’inglese per tre concubine di un generale cinese, entrando così in contatto con la decadente élite di Shanghai. Intanto, in una città già seducente per la sua antica varietà multietnica, l’innesto improvviso di tanti ebrei mitteleuropei genera un’altra meraviglia: tra i profughi ci sono artisti, attori di teatro e di cabaret, che riproducono a diecimila chilometri da casa la vivacità culturale di Berlino e Vienna prima del nazismo. Nel quartiere cinese di Hongkew fioriscono pasticcerie austriache, ristoranti di goulash ungherese, teatri di operetta,

Il quartiere ebraico della città godette per l’intera guerra della sorprendente protezione del Giappone,

potenza occupante e alleato della Germania hitleriana

quartetti di musica da camera che suonano arie di Mozart e Beethoven. L’unico incubo che tormenta il ghetto di Shanghai sono le notizie sempre più allarmanti che filtrano dai campi di concentramento tedeschi. Insieme con quelle rivelazioni cresce il timore che la persecuzione nazista riesca a riagguantare anche i ventimila ebrei che hanno trovato scampo nella Cina occupata dalle truppe nipponiche. Il regime nazista, pentito di averli lasciati partire e sempre più determinato a estendere l’Olocausto in ogni angolo del mondo, ci prova a più riprese. In uno di questi tentativi Heinrich Himmler, capo supremo della Gestapo, manda come suo emissario personale a Tokyo Josef Meisinger, il “macellaio di Varsavia” che ha sterminato centomila ebrei polacchi nel 1939, per convincere i giapponesi a consegnare i profughi di Shanghai. Per ragioni che sono rimaste in parte avvolte nel mistero, l’impero del Sol Levante respinge questa richiesta dell’alleato tedesco. Forse il Giappone conserva gratitudine per i prestiti della finanza ebraica newyorchese che ha finanziato la sua guerra contro la Russia zarista nel 1904. Forse i vari Sassoon e Kadoorie pagano a loro volta un riscatto segreto per salvare i rifugiati di Shanghai. E forse i giapponesi anche in piena guerra mondiale continuano a sentire il fascino degli ebrei, che ammirano da tempi antichi descrivendoli come un popolo superiore, dotato per la matematica e per la musica. Sta di fatto che il

destino degli ebrei in Cina, pur confinati nel ghetto di Hongkew, è molto migliore di quello che attende gli altri occidentali. Subito dopo l’attacco a tradimento di Pearl Harbor nel dicembre del 1941, non appena i giapponesi entrano in guerra contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, i cittadini inglesi e americani ancora residenti in Cina subiscono una sorte terribile: catturati, deportati a migliaia, rinchiusi nei campi di lavoro dell’esercito nipponico, saranno decimati dalla fame, dalle malattie, dall’uso sistematico della tortura da parte dei loro carcerieri. Per gli ebrei del ghetto di Shanghai la guerra si fa sempre più vicina, le privazioni materiali aumentano, lo spettro di una disfatta delle potenze alleate fa temere il peggio. Ma la sorprendente incolumità garantita dal Giappone resiste fino all’ultimo. «Un giorno — ricorda Ursula Blomberg — la guerra improvvisamente finì, e allora scoprimmo tutta la verità sulla sorte di sei milioni di ebrei. Nomi come Treblinka, Auschwitz, Bergen-Belsen, Dachau, Buchenwald rimasero impressi per sempre nelle nostre anime. Di colpo le nostre piccole miserie nel ghetto di Shanghai impallidirono in confronto all’orrore dei campi della morte di Hitler. A me e a tutti quelli come me, eternamente grati, Shanghai rivelò di essere stata il paradiso dei sopravvissuti».

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Con “Volver” il regista spagnolo ritrova le sue origini Ora nella sceneggiatura pubblicata da Einaudi si confessa in brani inediti In queste pagine ne anticipiamo tre. Si parla di ansia, fantasmi, insoddisfazione e dell’idea insopportabile della morte. Ma anche di nuovi equilibri raggiunti come sempre a fatica, di mondi del passato che danno forza, di macchine da presa innamorate di un volto e di un immenso, smisurato amore per il cinema

Pedro

Almodóvar La vita è femmina ma le donne non lo sanno Repubblica Nazionale 42 04/06/2006

CONCITA DE GREGORIO è stato un tempo non così lontano in cui Pedro Almodóvar spiegava l’equazione per stabilire, in concorso, l’eccellenza del sesso maschile: non lunghezza, che atroce banalità, caso mai lunghezza per circonferenza. Una fila di uomini in piedi e un giurato col centimetro a moltiplicare. Ottantasette, applausi. Novantadue, entusiasmo. Centodieci, boato del pubblico. Da quella memorabile scena di Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio(ma in spagnolo fa rima e fa ridere: Bom con otras chicas del montón, che peccato tradurre, quanta leggerezza si perde) sono passati ventisei anni e lui questo continua a fare: a dire quello che le donne non sanno, non possono o non riescono a dire di sé. A celebrarle meglio di chiunque altro, qualunque cosa facciano, perché le donne — le madri, le vecchie zie, le donne nate uomini, i travestiti, le amanti e le puttane — hanno sempre ragione: la vita è a volte nella loro pancia e sempre nelle loro mani, nei ricordi e nell’ostinazione, nella capacità di andare avanti quando tutto si ferma e torna indietro. Di ridere nel pianto come in una canzone, di portare le borse della spesa, di crescere i figli nati per errore, di ballare accudire e risolvere, di sopportare l’assenza, di parlare con le piante del patio e coi morti che non muoiono mai. La vita è femmina perché sa coniugare l’innocenza e il delitto, il candore e la perversione: sa affettare i peperonidopoaverchiusonelfrigoriferoilcadaveredell’uomoinutile — in quanto uomo sempre un po’ in ritardo, sempre al traino — poi apparecchiare per cento, mangiare e cantare Volver. Provate a rivedere la scena in cui Raimunda canta il tango di Estrella Morente tre, cinque, dodici volte: fa piangere sempre, e sempre allieta. È la leggerezza il suo segreto: l’assenza di moralismo. Tutto è ammesso senza che ci sia un tribunale permanente che stabilisce cosa è giusto e cosa no. Tutto è accolto perché la vita va dove vuole lei, non sei tu che decidi. La vita ti porta. Pedro Almodóvar è stato un bambino poverissimo della Mancia, uno studente con la divisa grigia nel collegio dei preti, un ragazzotto oltraggioso coi basettoni anni Ottanta nella movida di Madrid, un uomo fiero della sua omosessualità raccon-

C’

tata ed esibita come un fiore, un talent scout formidabile — Antonio Banderas e Penélope Cruz consegnati a Hollywood — un regista di film a volte sublimi altre volte pesanti, alcuni brutti ma mai dimenticabili, altri da Oscar. Adesso è un divo cinquantenne, malinconico e grassoccio, sempre più somigliante a uno spettinato cane randagio per quanto in abito Armani. Volver, scritto a sei anni dalla morte di sua madre «in preda a continue crisi di panico», è talmente impermeabile al sopracciglio alzato della critica da avergli consegnato finalmente il premio più ambito: l’applauso della Spagna. Noi resto d’Europa, insieme agli americani e ai cinefili d’Oriente, abbiamo pensato per quasi trent’anni che Almodóvar fosse la quintessenza dell’animo spagnolo, la foto esatta del paese in spettacolare, pirotecnica trasformazione: le sue madonne in processione e il suo gazpacho, i travestiti e la siesta, le portinaie impiccione e i vecchi franchisti a passeggio col cane, la strada e la festa, le tette e la notte, quel caldo, sempre, quel vento, quel moto perpetuo tragico e vitale, torere in coma e transessuali infetti, bambine col vestito a fiori e vecchie sulla sedia fuori dalla casa bianca. Noi l’abbiamo pensato, gli spagnoli no. Ha avuto sempre una cerchia stretta di adoratori e una moltitudine di indifferenti infastiditi, le accademie ostili, la borghesia imbarazzata, i giornali divisi. Ora che lo acclamano per strada (donne, soprattutto), ora che si protendono dalle transenne senza riuscire a toccarlo, lui ringrazia commosso e triste. Ha, nelle foto, lo sguardo di chi cerca per terra qualcosa che ha perso. «L’esperienza non è un vantaggio: è una perdita, se solo un poco ti distrai». L’esperienza offusca il talento se inneschi il pilota automatico e ti dimentichi la vita cos’è. Tornare, dunque. Tornare nella Mancia delle strade bianche e deserte dove i bambini crudeli giocano qualunque efferatezza in riva al fiume, mentre il resto della famiglia dorme narcotizzato dal caldo. Tornare all’innocenza capace di qualsiasi delitto. Al filo che lega chi c’era e chi c’è. Alle donne. Queste donne di Spagna così intrepide, divertenti, folli, sagge, capaci di appiccare un incendio, di uccidere e poi tornare a casa a cucinare per tutti. Al tango cantato come una ninna nanna. Alla ninna nanna di tua madre, che quando ancora non capivi ti addormentava dicendoti l’unica cosa che è davvero importante imparare: volver.

Bambino poverissimo, studente dai preti, fiero omosessuale e più cane randagio che divo

DIETRO IL FILM L’ultimo film di Pedro Almodóvar, “Volver”, è stato presentato in concorso al Festival di Cannes ed è già nelle sale italiane Adesso l’editore Einaudi manda in libreria, nella collana Stile Libero, un volume dallo stesso titolo (pagine 145, euro 11) Il libro contiene la sceneggiatura, firmata dal regista spagnolo, e alcuni scritti inediti, tra cui quelli che pubblichiamo

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LA MUSA

Penélope Cruz, forte e fragile E PEDRO ALMODÓVAR

la sua bellezza. Penélope è al massimo del suo splendore, è una frase fatta ma nel suo caso è vero. (Quegli occhi, il collo, le spalle, il seno! Penélope possiede uno dei décolleté più spettacolari del cinema mondiale). Guardarla è stato uno dei grandi piaceri di queste riprese. Malgrado negli ultimi anni si sia stilizzata, Penélope ha dimostrato (dai suoi esordi in Prosciutto, prosciutto) di avere più mordente nei personaggi popolari che in quelli raffinati. Sette o otto anni fa, in Carne tremula, interpretava una puttanella zoticona che partorisce in un autobus. Erano i primi otto minuti del film e Penélope divorava letteralmente lo schermo. La sua Raimunda di Volver appartiene alla stessa stirpe del personaggio di Carmen Maura in Che ho fatto io per meritare questo?!, una forza della natura che non arretra davanti a nulla. Quando recita, Penélope possiede quell’energia contagiosa, ma Raimunda è anche una donna fragile, molto fragile. Può (e deve, per esigenze di copione) essere furibonda e in un attimo crollare come una bambina indifesa. Questa disarmante vulnerabilità è ciò che più mi ha sorpreso della Penélope-attrice, e la rapidità con cui si connette con essa. Non c’è spettacolo più impressionante che osservare nella stessa inquadratura occhi asciutti e minacciosi iniziare improvvisamente a riempirsi di lacrime, lacrime che a volte fuoriescono dalle palpebre come un torrente o, come in alcune sequenze, le inondano soltanto senza fuoriuscire mai. Essere testimone di questo equilibrio nello squilibrio è stato appassionante. Penélope Cruz è un’attrice che rompe e graffia, ma è l’insieme di questa emotività fulminante a renderla insostituibile in Volver. È stato un piacere vestire, pettinare e truccare il personaggio e la persona. Il corpo di Penélope nobilita tutto ciò che indossa. Abbiamo optato per gonne strette e golfini che sono indumenti classici, molto femminili e popolari in qualsiasi decade, dagli anni Cinquanta al Duemila. E, bisogna dirlo, perché ci ricordavano Sophia Loren, nei suoi esordi da pescivendola napoletana. Per le meravigliose pettinature dobbiamo ringraziare il parrucchiere Massimo Gattabrusi e per il trucco Ana Lozano. La riga sull’occhio è stata un’idea. C’è solo un elemento falso nel corpo di Raimunda, il sedere. Questi personaggi sono sempre donne culone e Penélope è troppo stilizzata. Il resto è tutto cuore, emozione, talento, verità, e un volto che la macchina da presa adora. Come me. © 2006 Giulio Einaudi editore

IL RICORDO

Il fiume dell’infanzia ricordi più allegri della mia infanzia sono legati al fiume. Mia madre mi portava con lei quando andava a lavare perché ero molto piccolo e non aveva con chi lasciarmi. C’erano sempre tante donne che lavavano o stendevano il bucato sull’erba. Io stavo vicino a mia madre e infilavo la mano nell’acqua cercando di accarezzare i pesci che accorrevano alla chiamata del casualmente ecologico sapone che usavano le donne dell’epoca, fabbricato da loro stesse. Il fiume, i fiumi, erano sempre una festa. Fu sempre nelle acque di un fiume che scoprii qualche anno più tardi la sensualità. Senz’altro, il fiume è ciò che più mi manca della mia infanzia e pubertà. Mentre lavavano, le donne cantavano. Mi sono sempre piaciuti i cori femminili. Mia madre cantava una canzone di alcune mietitrici che aspettavano l’alba lavorando nei campi e cantando come allegri uccellini. Ne cantai i frammenti che ricordavo al musicista di Volver, il mio fedele Alberto Iglesias e lui scoprì che era un tema della zarzuela La rosa del azafrán. Nella mia ignoranza, non avevo mai immaginato che quella musica celestiale fosse una zarzuela. Così, il tema è diventato la musica che accompagna i primi titoli di testa. In Volver Raimunda cerca un luogo per sotterrare suo marito e decide di farlo in riva a un fiume dove si erano conosciuti da bambini. Il fiume, come i grafici di qualsiasi mezzo di trasporto, come i tunnel o i corridoi interminabili, è una delle tante metafore del tempo. © 2006 Giulio Einaudi editore

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I

LA MADRE

Il film di tutti i miei ritorni olverè un titolo che include vari ritorni, per me. Sono tornato, un poco, alla commedia. Sono tornato all’universo femminile, alla Mancia (è senz’altro il mio film più strettamente mancego: il linguaggio, le abitudini, i cortili, la sobrietà delle facciate, le strade lastricate), sono tornato a lavorare con Carmen Maura (non lo facevamo da diciassette anni), con Penélope Cruz, Lola Dueñas e Chus Lampreave. Sono tornato alla maternità, come origine della vita e della finzione. E, naturalmente, sono tornato a mia madre. Tornare alla Mancia è come tornare al seno materno. Durante la stesura del copione e le riprese, mia madre è sempre stata presente e molto vicina. Non so se sia un buon film (non sono io a doverlo dire), ma sono sicuro che mi abbia fatto molto bene farlo. Ho l’impressione, e spero non sia un sentimento passeggero, di essere riuscito a incastrare un pezzo (la cui mancanza, durante la mia vita, mi ha causato dolore e angoscia, direi addirittura che negli ultimi anni aveva deteriorato la mia esistenza, drammatizzandola più del necessario). Il pezzo a cui mi riferisco è “la morte” (non solo la mia e quella dei miei cari)ma la scomparsa implacabile di tutto ciò che è vivo. Non l’ho mai accettato, né l’ho mai capito. E questo ti mette in una situazione d’angoscia davanti allo scorrere sempre più rapido del tempo. Il ritorno principale di Volver è quello del fantasma di una madre che appare alle proprie figlie. Nel mio paese queste cose accadono (sono cresciuto ascoltando storie di apparizioni), tuttavia alle apparizioni non ci credo. Solo quando accadono agli altri, o quando accadono nella finzione. E questa finzione, quella del mio film (e qui viene la mia confessione), ha provocato in me una serenità che non avvertivo da tempo (davvero, serenità è un termine il cui significato per me è un mistero). Negli anni che ho vissuto, non sono mai stato una persona serena (né mi è mai minimamente importato), la mia innata inquietudine, insieme a una galoppante insoddisfazione, mi sono servite generalmente da stimolo. È stato negli ultimi anni che la mia vita è andata deteriorandosi, consumata da una terribile ansia. E questo non era buono né per vivere né per lavorare. Per dirigere un film è più importante avere pazienza che talento. E io, da tempo, avevo perso tutta la pazienza, specialmente per le cose banali che sono quelle che richiedono più pazienza. Questo non vuol dire che sia diventato meno perfezionista o più compiacente, niente affatto. Ma credo con Volver di aver recuperato parte della “pazienza”, parola che naturalmente comprende molte altre cose. Ho l’impressione, attraverso questo film, di aver elaborato un lutto di cui avevo bisogno, un lutto indolore (come quello del personaggio di Agustina). [...] Malgrado la mia condizione di non credente, ho cercato di portare il personaggio (Carmen Maura) dall’aldilà. E l’ho fatta parlare del cielo, dell’inferno e del purgatorio. E, non sono il primo a scoprirlo, l’aldilà è qui. L’aldilà si trova nell’aldiqua. L’inferno, il cielo o il purgatorio siamo noi, sono dentro di noi, e lo ha già detto Sartre molto meglio di me. © 2006 Giulio Einaudi editore

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spettacoli

FOTO CONTRASTO

Bilanci

Nanni Moretti “Io, autarchico e un po’caimano” PAOLO D’AGOSTINI

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ROMA

anni Moretti mi dà appuntamento in un baretto sotto casa sua, appartato e familiare. Lo trattano con riguardo, con affetto. È lo specchio di uno stile, il suo, che ha sempre coltivato un maniacale attaccamento alla dimensione artigianale e familiare appunto, un po’ rétro, rassicurante. Si è portato la sua agenda del 1976, infatti facciamo quest’intervista perché durante il fine settimana il piccolo ma tosto festival di Bellaria festeggia i suoi trent’anni di carriera: nel ‘76 fu girato e uscì Io sono un autarchico («Il titolo si riferiva alla solitudine sessuale del protagonista. Ero lontano dall’immaginare che avrebbe assunto un altro e più nobile significato, quello dell’indipendenza espressiva»). L’agenda ha la sua importanza nello svolgersi dell’intervista. Ogni volta che piazzo una domanda che gli pare poco pertinente sfoglia e legge a voce alta l’agenda un po’ come lo “Smemorato” di Fiorello diventa improvvisamente debole di udito se Baldini gli fa domande sgradite. Visto che lo spunto sono i trent’anni dal suo primo film, e che il suo cinema è percepito come estensione del suo carattere, dei suoi umori, le chiedo: come è cambiato lei in questi tre decenni? «Dovrebbero dirlo le poche persone che mi conoscevano allora e mi conoscono come sono adesso. Mi sembrano intatte due cose. Una è la voglia di fare i miei film, l’altra è la curiosità di vedere i film degli altri. Un cambiamento lo dichiara Il Caimano, per la prima volta non sono il protagonista. Prima mi sembrava naturale fare tutto io. Da quando nel ‘72, dopo la maturità, decisi di fare film». Io sono un autarchico fu un fatto marginale dal punto di vista industriale, ma da lì nacquero una stagione e una generazione. Le è pesata questa responsabilità? «Sono stato sempre impermeabile ai discorsi sulla “crisi” ma molti un po’ demagogicamente dissero che la mia era la risposta giusta alla crisi. Io non sentivo di avere questo compito né che la mia fosse la soluzione, so però che segnò per molti la scoperta che il cinema si poteva fare anche così. Non mi posi altro problema, con Io sono un autarchico e subito dopo con Ecce Bombo, che quello di fare i miei film. Meno che mai il problema di quale fosse il mio pubblico, se d’élite o meno. E non faccio il finto tonto». Ricorda la sua riluttanza ad accettare le categorie generazionali, ad essere accomunato ad altri? «È vero, scalpitavo. Voglio dire una cosa.

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Ai giovani che vogliono diventare cineasti consiglio di formare un gruppo affiatato E dico che servono almeno due di queste tre cose: determinazione, fortuna, capacità

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PRIMO FILM Accanto, Nanni Moretti oggi Nella foto piccola a sinistra, Moretti in una scena del film “Io sono un autarchico”, girato trent’anni fa

Sono passati trent’anni da quando firmò il suo film d’esordio. Adesso tira le somme e racconta di quel poco che è cambiato e del molto che è rimasto uguale Ho conosciuto molti registi, simpatici e antipatici, bravi o pippe atroci, e l’unico tra tutti noi non presuntuoso è stato Massimo Troisi». Lei compreso, tra i presuntuosi? «Naturalmente». E continua ad avere una cattiva opinione dei colleghi italiani? «Ne ho messi tanti dentro al Caimano. Ora ho rapporti meno duri, di alcuni sono amico, e poi l’essere diventato anche produttore mi ha

cambiato». Meno selettivo? «Non sono cambiati i gusti, è cambiato l’atteggiamento. Per fortuna». Trent’anni di percorso anche politico. Come molti della sua età si è formato nel clima dell’estremismo di sinistra dei primi anni Settanta. Poi? «In molti c’è il compiacimento, una specie di voluttà, di ricordarci tutti uguali, violenti e dog-

Domani su

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Dati, ricerche e interviste sulle strategie per affrontare il futuro

A. MANZONI & C.

matici: chi di noi non ha brindato, dicono, al tale atto di violenza politica. No, io no. E non ho mai, dico mai, sottoscritto slogan orribili come “uccidere un fascista non è reato”. Non ho fatto a botte neanche in vent’anni di pallanuoto. Se mi chiede quali sono le tappe importanti rispondo tre cose. I 55 giorni di Moro. I primi pentimenti dei terroristi rossi che mi fecero capire la loro derivazione dalla storia della sinistra. E il funerale di Berlinguer che non volli filmare come mi proposero ma preferii “vivere”». In realtà fino a un certo punto la politica non è stata così centrale nei suoi film. Poi, dentro e fuori dal set, qualcosa è cambiato. Palombella rossa, Il portaborse, La Cosa, Piazza Navona e i Girotondi, Il Caimano. Ha dimostrato, oltre che passione civile, di credere nella funzione civile del cinema? «Mi pare un’affermazione troppo netta. Per esempio l’assurdo dibattito del nostro ceto politico-giornalistico prima dell’uscita del Caimano: non so di chi parlassero dicendo che avevo fatto un film di propaganda. Casomai ho sempre, soprattutto, preso in giro me stesso e la sinistra. Palombella rossa conciliava il mio desiderio di mettere la pallanuoto in un film con quello di parlare della crisi del Partito comunista attraverso il rapporto con il passato e la memoria, con l’identità. Il protagonista ha un’amnesia e non ricorda più chi è. Ricordo con piacere, sì, l’aver preceduto di alcuni mesi la caduta del Muro e la proposta di Occhetto, così come Il portaborse precederà di molti mesi il primo arresto di Tangentopoli. Il Caimano: mi sembrava incredibile avere il privilegio di questo mezzo espressivo e non raccontare quello che ci è successo in questi anni». Soddisfatto di come ha gestito l’uscita del Caimano? È diventato, di fatto, un elemento della campagna elettorale. «Assolutamente sì, volevo che uscisse in quel periodo». (E qui Moretti si getta sull’agenda del ‘76). Che consigli dà ai giovani aspiranti cineasti? «Di formare un gruppo affiatato. E dico che servono almeno due di queste tre cose: determinazione, fortuna, capacità». È cresciuta la convinzione che lei sia uno scaltro gestore della sua immagine. Che l’avarizia nel concedersi ai media abbia fatto di lei un oggetto appetibile. «Non ho pensato mai a “gestire” assolutamente niente. Come spettatore mi piace scoprire i film quando li vado a vedere e ragiono nello stesso modo da regista». Sta di fatto che si è verificata la traduzione in marketing della narcisistica battuta di Ecce Bombo “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. «Non è vero che io “scompaio”. Partecipo a moltissimi dibattiti con il pubblico. Non mi importa di fare cose, partecipare a trasmissioni che vedrebbe molta più gente, che mi sarebbero utili ma che non mi piace fare. Per la promozione del Caimanonon ho accettato l’invito di molti programmi politici». Perché è sempre stato tanto diffidente verso la stampa, che l’ha sempre coccolata? «Lei, come lettore, non vorrebbe giornali fatti meglio?». Hanno fatto epoca indicazioni morali o intolleranze espresse dai suoi personaggi. Su fedeltà coniugale o educazione dei figli. È diventato più comprensivo verso debolezze e incoerenze? «Io sapevo benissimo che quando la paternità fosse capitata a me sarei andato molto oltre nel viziare mio figlio di quanto stigmatizzavo nell’episodio di Caro diario. E penso che la mia rissosità fosse il segno di una mia debolezza. Ma non so più se quest’interpretazione è farina del mio sacco o se l’ho rubata a qualche commentatore». Fuori registrazione gli chiedo se gli sia stato mai offerto un incarico politico. Nessuno crederebbe alla risposta, dice. Che è no.

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spettacoli Grandi concerti

PINK FLOYD LIVE POMPEI 1972

VENEZIA 1989

BERLINO 1990

IN ITALIA

La band suona tra le rovine del sito archeologico Il concerto diventerà un film con effetti speciali che riproducono la lava del vulcano

David Gilmour guida il gruppo Piazza San Marco è collegata con tutto il mondo per uno show da 100 milioni di spettatori

Roger Waters dedica alla caduta del muro il disco più celebre e controverso “The Wall” viene riadattato all’evento

Roger Waters sarà all’Arena di Verona questa sera e domani sera Il 16 giugno a Roma allo Stadio Olimpico e il 12 luglio a Lucca

L’ex leader dei Pink Floyd apre a Lisbona il tour mondiale

e arriva in Italia Parola d’ordine: show totale per abbattere Bush e “Tony”

Roger Waters Atto d’accusa contro la guerra ossessione di Roger Waters per l’insensatezza e la crudeltà della guerra ha segnato tutta la sua carriera artistica, dentro e fuori dai Pink Floyd. Ma la cronaca di questi ultimi decenni ha continuamente alimentato il trauma che l’artista di Cambridge, oggi 61enne, ha vissuto da bambino, quando il padre morì durante il secondo conflitto mondiale. L’autobiografia s’è fatta largo in modo drammatico tra le canzoni di The Wall, la critica politica contro la Thatcher e la guerra delle Falkland ha guidato la mano per i testi di The Final Cut, il senso di sconforto per l’umanità accecata dall’odio ha segnato i brani di Amused To Death. Oggi che nuovi eroi negativi cercano gloria e potere uccidendo il prossimo, Waters realizza con il suo concerto un atto d’accusa durissimo contro la guerra in Iraq di Bush e Blair recuperando dal suo passato proprio questi tre album. Il tour mondiale partito da Lisbona lo porterà stasera e domani all’Arena di Verona, poi in Europa e, nel mezzo, di nuovo in Italia, il 16 giugno a Roma e il 12 luglio a Lucca. In autunno Waters arriverà negli Stati Uniti, dove il consenso per Bush già vacilla di suo. Non è un vero e proprio concerto, è piuttosto un’esperienza sensoriale. E non solo per la cura maniacale del suono e per gli effetti in quadrifonia in cui si ritrovano i semi lanciati dal produttore storico dei Pink Floyd Alan Parsons. Ogni brano è accompagnato nello show dalle immagini di un piccolo film: ci sono foto che improvvisamente si animano e scoprono il mondo di Waters, i suoi incubi, le sue ossessioni; ma c’è anche il privato in bianco e nero con i Pink Floyd sulla spiaggia di Brighton o in un campo di grano, il tributo a Syd Barrett che con Waters fondò il gruppo per poi perdersi nell’acido lisergico. È un atto d’amore quello per Barrett che percorre come un filo rosso tutto lo show e che nella prima parte è sottolineato dai brani di Wish You Were Here mentre nella seconda, quando a Lisbona sono già le due del mattino, Waters affida all’esecuzione per intero (come fosse una partitura) di The Dark Side Of The Moon, di fronte agli ottantamila spettatori del festival Rock in Rio-Lisbon. La riflessione sulla guerra in Iraq non ha ancora prodotto un disco, anche perché negli ultimi anni Waters si è dedicato alla scrittura e all’esecuzione dell’opera lirica sulla rivoluzione francese Ça Ira. Ma per rivolgersi direttamente a Bush e, in modo tanto confidenziale quanto ironico, a «Tony» (Blair) nel 2004 Waters ha scritto un brano che presenta in anteprima per l’Europa in questo tour. Si intitola Leaving Beirut, racconta di un suo viaggio a diciassette anni nei paesi arabi ed è accompagnato per l’ennesima esplosione di creatività

multimediale da un fumetto, che il pubblico può leggere mentre sul palco i musicisti eseguono la canzone e che diventa un possibile karaoke quando il testo del fumetto si sovrappone al cantato dell’ex Pink Floyd. A Bush, Waters domanda quali guasti abbia prodotto la sua educazione cattolica laggiù nel Texas, a «Tony» invece si rivolge per chiedere se trovi davvero giusto ripagare con le bombe le gentilezze e il rispetto sacrale nei confronti degli ospiti che gli arabi da sempre nutrono. La follia della guerra trova il punto di massima esplicitazione in Perfect Sense, unico brano da Amused To Death: lo sguardo sulla terra da un satellite compie uno zoom fin dentro uno stadio stracolmo di pubblico urlante, ma al posto del prato verde c’è un’immensa piscina solcata da un sottomarino: saranno i suoi missili a “fare gol” distruggendo un ostacolo, e il fungo atomico che si alza minaccioso viene accolto dal tripudio della folla moltiplicato dalla quadrifonia. La parte più inquietante e amara dello show passa invece attraverso i brani di The Final Cut: «I had a dream», canta Waters in The Gunner’s Dream mentre una pioggia di papaveri rossi getta un po’ di colore sul grigio inquietante di paesaggi devastati dalla guerra, e quando poi canta con la voce spezzata e straziante «nessuno uccida più i bambini», un urlo disumano proveniente dal fondo dell’arena squarcia l’aria mentre tutti si girano a guardare, in un sussulto generale di terrore e sorpresa. Ancora portaerei ed elicotteri su Southampton Dock mentre in mezzo alla distruzione e alla desolazione di The Fletcher Memorial Home, luogo di riposo e di cura per militari che hanno perso il senno, su un muro compaiono a sorpresa le foto ingiallite di Bin Laden, di Bush, di Blair, di Reagan, di Saddam Hussein. I Pink Floyd hanno sempre curato l’aspetto visivo dei loro show, Waters con questo concerto può anche non aver inventato nulla, neanche per l’esplosione sui due finali di fuochi d’artificio e per i cannoni lanciafiamme che si alzano altissimi sul fronte del palco. La notizia è semmai che Waters è tornato dentro al sogno visionario dei Pink Floyd, compreso il maialino in volo tra le ciminiere come sulla copertina di Animals, immagine che in concerto accompagna l’amara Sheep, critica sul popolo pecorone, come sempre schiavo dei porci e dei cani che orwellianamente guidano e controllano il mondo. Un ritorno allo “show totale” come mai aveva fatto in precedenza, compresi i tour visti in Italia cinque o sei anni fa. «Anything is possible», ha scritto sul suo sito ufficiale Waters sotto la foto che lo ritrae con David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright per la reunion dello scorso anno al Live 8. Forse davvero tutto è possibile, anche sognare i Pink Floyd di nuovo insieme, almeno qui a Lisbona, e a notte fonda, mentre gli aerei solcano il cielo e ci sembra quasi di poterli toccare.

Schermi in movimento, girandole di fuoco Un’esperienza sensoriale

L’omaggio a Syd Barrett sembra un messaggio: la band tornerà a riunirsi

CARLO MORETTI

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LISBONA

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i sapori

Ricchi di vitamine, disintossicanti, tonificanti. E soprattutto trendy La cucina a base di petali di bocca di leone, grappoli di glicine, boccioli di nasturzio, radici di primula sta conquistando chef e gourmet

Colore in tavola Torre Pellice (To)

itinerari Michel Bras è uno dei più grandi cuochi del mondo Nel suo eremo sull’altopiano francese dell’Aubrac, a Laguiole, si occupa personalmente dell’orto botanico, in cui crescono erbe e fiori per il suo piatto-culto, il “Gargouillou” di verdure

Corvara (Bz)

La capitale del mondo valdese gode del clima di mezza montagna e della bella distesa di prati e pascoli della val Pellice Le fioriture primaverili ed estive sono declinate in molte ricette della cucina locale, dalle minestre alle salse per accompagnare le carni

Il bel borgo altoatesino, incastonato tra le vette dei parchi alpini di Puez e Fanes, in primavera espone un vero trionfo di fiori – oltre 600 varietà – che entrano nei menù delle vecchie “stube”, dove prosperano gli odori e i sapori della cucina ladina

La “nobile città di pietra” di D’Annunzio è adagiata su una dorsale della Majella, tra le colline argillose tagliate dai calanchi Tra le risorse, il peperoncino, la cicoria e il prezioso zafferano (fiori seccati di Crocus) tipico dell’altopiano di Navelli

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

FLIPOT (con cucina) Corso Gramsci 17 Tel. 0121.953465 Camera doppia da 80 euro

ALPENROSE Strada Agà 20 Tel. 0471.836240 Camera doppia da 60 euro

VILLA MAIELLA (con cucina) Via Sette Dolori 30 Tel. 0871.809319 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

IL CIABOT Via Costa 7, Roletto Tel. 0121.542132 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 25 euro

LA STÜA DE MICHIL (con camere) Strada Col Alt 105 Tel. 0471.831000 Chiuso lunedì a pranzo, menù da 60 euro

PARCO DELLA MAJELLA Via Colle Luna 2 Tel. 0871.83354 Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

CASCINA MUSTON Via Inverso Colletto 16 Tel. 0121.933379

ALIMENTARI SEPPI Strada Col Alt 85 Tel. 0471.836863

EMPORIO NATURA Via del Giardino 74 Tel. 0871.800842

Fiori

Così belli da mangiarseli LICIA GRANELLO oserosse per te. Simbolo di amore appassionato e imperituro. Ma anche appetitose e stuzzicanti: dipende se ne regalate una dozzina o se friggete i delicati petali in pastella. La cucina del sole ha bisogno di colori, per aiutare corpo e psiche a ritrovare smalto ed energia azzerati dal freddo e dalla poca luce dell’inverno. La cromoterapia floreale corrisponde esattamente a ciò di cui abbiamo bisogno: vitamine e flavonoidi, disintossicanti e tonificanti. Tutti uniti appassionatamente sulla corolla di una primula, nel suadente grappolo di glicini, sui petali vellutati di una pansè. Nulla di nuovo per botanici ed erboristi: unire l’utile al dilettevole è la dolcissima condanna dei cosiddetti “fiori eduli”, nati per rallegrare le tavole raccolti in un vaso o affondati in una ciotola d’insalata, pieni di profumi, morbidezze e virtù. Racconta Igles Corelli, principe della cucina floreale nell’oasi florofaunistica di Ostellato, Ferrara: «I fiori hanno un loro sapore molto delicato, che però sa caratterizzare i piatti. I boccioli del nasturzio sostituiscono i capperi per il loro gusto fresco e piccantino, perfetto con il pesce crudo. Il fiore di sambuco regala un grande gelato, il fiore di rosmarino era già conosciuto nell’Ottocento come compagno ideale del cioccolato, mentre le radici di primula mantecate con la salsa mou, danno un meraviglioso sentore di vaniglia. I risultati sono soavi». Una passione che si sta diffondendo sulle tavole più innovative, se è vero — come testimonia una recente indagine della Coldiretti — che il “consumo” di fiori è cresciuto di quasi il dieci per cento rispetto allo scorso anno. Se anche l’occhio vuole la sua parte, nulla rallegra la vista quanto un piatto dove occhieggiano i colori sfacciati di certe fioriture. Impudenti e benefiche, ma anche golose. Non a caso, uno degli chef che ha fatto la storia della gastronomia moderna, il francese Michel Bras, è diventato famoso nel mondo intero con un piatto, il Gargouillou, interamente costruito intorno alle erbe e ai fiori delle sue montagne. Oggi, che la gastronomia floreale sta facendo il giro del mondo — con servizi e reportage entusiasti di Time e Washington Post — il timido, geniale Bras viene invitato ovunque a spiegare come portare il giardino in tavola con esiti tanto mirabili. Lui, che non lascia praticamente mai il suo eremo nell’Aubrac, ha ceduto la scorsa settimana alle lusinghe di Boffi Cucine solo a patto di portare i “suoi” fiori per una grandiosa performance gourmand a base di erbe e teneri boccioli, trasformati in gelatine, mousse e sfoglie croccanti. I milanesi che hanno assaggiato le sue creazioni sono rimasti sbalorditi… Allo stesso modo, nessun visitatore dell’ultima edizione di “Euroflora”, svoltasi il mese scorso a Genova, si è tirato indietro al momento di assaggiare la scamorza affumicata su letto di bocche di leone, il tortino di patate ai fiori di crisantemi in salsa di pecorino, il risotto ai fiori di lavanda, su su fino alla mousse di cioccolato bianco con sciroppo di fiori di begonia e alla crostata ai fiori di calendula. Certo, chi non puoi permettersi di raggiungere Lagouiole (o più semplicemente Ostellato), prima di dedicarsi alla flower-kitchen farebbe bene a dare un’occhiata a un testo di botanica, tanto per informarsi sulla sgradevole amarezza del gambo di tulipano o sulla tossicità dell’oleandro (che ridotto a infuso veniva utilizzato un tempo come abortivo, con l’esito orribile di avvelenare, spesso uccidere, la sventurata). Ancora più facile, programmare un fine settimana tra Alto Adige e Romagna, dove a partire da sabato 24 giugno cominceranno gli appuntamenti con i fiori in tavola, tra laboratori, degustazioni e passeggiate per imparare a raccogliere senza offendere la natura. A chiusura, regalatevi una coppa di Elite, cocktail inventato dal barman Dario Comini: vodka, finissima polvere di perle e fiori freschi di malva. Delizioso, afrodisiaco, e più originale della solita dozzina di rose.

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Guardiagrele (Ch)

RISOTTO ALLE FRAGOLE E PETALI DI ROSA Si prepara il risotto (per 4) come da ricetta base, tostando il riso nella cipolla di Tropea rosolata nel burro, bagnando con un bicchiere di vino bianco e "tirando" la cottura molto al dente con brodo vegetale. Qualche attimo prima di spegnere il fuoco, va aggiunto un etto di fragole mature sminuzzate Si "ferma" la cottura appoggiando la pentola su uno straccio bagnato, mantecando i petali di una rosa, una noce di burro e qualche cucchiaio di Parmigiano grattugiato. Una seconda rosa servirà per guarnire i piatti

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CRISANTEMO Il fiore nazionale del Giappone è declinato in moltissime varietà, diverse per corolle e stagione di fioritura Ha proprietà digestive, che lo rendono prezioso nelle infusioni. Ottimo nelle frittate, regala profumo alle zuppe e dilata i sapori degli arrosti

LAVANDA I cespugli fioriti sono il simbolo della primavera provenzale. I più profumati crescono tra collina e mezza montagna (in pianura si trova la più comune “lavandina”) Ha grandi qualità lenitive Ideale per gelatine, biscotti e risotti aromatici Il suo miele è soave

CALENDULA Così battezzata dai Romani per le sue fioriture mensili (da calenda, mese), è una delle piante-cardine della fitoterapia, grazie alle sue qualità emollienti e antinfiammatorie. I fiori, coloratissimi, accendono il pallore dei risotti e insaporiscono le carni

ROSA Selvatica (Canina) o coltivata, la rosa era ben conosciuta già dagli Egizi, che la usavano per profumare l’aria, curare le piaghe, dare tono alla pelle. Ricca di vitamina C, serve per marmellate, canditure, acque profumate Ottima “pastellata” e fritta

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GLICINE Rampicante robusto e indomito, nel momento di massima fioritura, quando la pianta gronda di pigne, se ne staccano i fiori aperti, da lavare e asciugare delicatamente Immersi in pastella e fritti, si trasformano in bocconcini profumati, screziati di viola

NASTURZIO Il principe dei fiori da insalata, e utilizzato anche per gelatine, è una pianta erbacea amica dell’acqua, che regala fiori di un bianco splendente o biancastri È una buona fonte di vitamine (A, C, D) Se ne fanno infusi e decotti, con proprietà balsamiche

TARASSACO Un profluvio di fiorellini gialli per una pianta comunissima e benefica a partire dal rizoma, che – seccato e polverizzato – vanta proprietà digestive e depurative. È buonissimo nelle frittate e nelle zuppe primaverili, regala colore alle insalate

VIOLA Spontanea o coltivata, la “Tricolor”, Viola del pensiero, è considerata il fiore della bellezza per la ricchezza in flavonoidi (antiossidanti) e l’attività disintossicante Rallegra insalate e risotti Il suo regno è la pasticceria, tra sorbetti, gelati e canditure

Storie di mangiatori di fiori

Da Ulisse a Star Trek il cibo del “viaggio” DARIA GALATERIA re tossici! Per aver gustato i fiori del loto, stavano trasognati, e non volevano più partire; «la patria gli era caduta dal cuore». Odisseo, che li aveva mandati in avanscoperta tra i Lotofagi, li legò saldamente sotto ai banchi delle «negre navi» e salpò, prima che qualcun altro «ponesse nel dolce loto il dente». Horkeimer e Adorno, i filosofi di Francoforte, approvano: il nostos, il viaggio, è scoperta e civiltà. Molto contrario invece il poeta Tennyson: «Ma certo, certo che il sonno è più dolce delle fatiche», e la sponda è meglio che arrancare per mare — vento, tempesta, e remare: «Riposa, fratello marinaio, basta vagare: we will not wander more». È il 1832, lord Alfred Tennyson è giovane, quando alterna gli ariosi cori dei marinai, che lamentano di non ricordare più bene le spose, con le dolci lusinghe dei Lotos eaters: ma i miti, e la saggezza, sono duri a morire, e in Star Trek Captain Kirk deve strappare a una colonia planetaria invasa da spore euforizzanti la ciurma in stato di rapimento. A altri sogni alludono le piccanti Historiettes di Tallémant des Réaux quando raccontano di un corteggiatore così timido, che regalava violette alla fidanzata, pregandola di passarsele «non dico dove», e poi le mangiava. Neanche cinquant’anni dopo, è già il ragionevole Settecento, e il casto Fénelon dedica a Monseigneur il duca di Borgogna — il delfino — una favola, Viaggio all’isola dei piaceri. È un’isola di zucchero; gli abitanti si succhiano le dita, quando le immergono nei fiumi; ci sono venditori di sonno, un tanto all’ora, e in base ai sogni. I mercanti d’appetito — «di cosa volete aver fame?» — sono stupiti dalle richieste del nuovo venuto; la gente del luogo è di «grande delicatezza», e a colazione offrono fiori d’arancia, a pranzo «un nutrimento più forte»: tuberose; e solo giunchiglie a merenda. Ma la sera, arrivano grandi cesti pieni dei fiori più profumati; il nostro ha un’indigestione di odori, e fugge in città, dove governano le donne; gli uomini si incipriano e cuciono, e temono di essere battuti, se non obbediscono (non è sempre stato così: ma i maschi dell’isola erano così ignoranti e pigri, che le donne si erano vergognate di lasciarsi dirigere da loro, e ne avevano preso il posto). Grevi, i cibi degli uomini, «consacrati uccisori di selvaggina»; «ciclamini crudi? Bleah! Viva porci e montoni», canta la poetessa Christina Orcyanac, battuta nel 2002 all’elezione all’Académie française dal cinese François Gheng. Les abeilles et les hommes disegna «l’uomo dal gusto esecrando / che non conosce il bene di nutrirsi di fiori…/ Nessun pistillo, calice, stame o petalo / ebbe mai il favore d’entrare nella loro gola golosa»; ecco allora le api, dame dal corpo villoso, ardenti del piacere del gusto, che, testarde operaie, fanno per loro la mediazione del cibo degli dei — il nettare — creando il «miele d’oro». Anche i bambini sono testardi, e il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry continua a disturbare l’aviatore, che cerca di aggiustare il suo velivolo precipitato nel deserto: «Una pecora, se mangia gli arbusti, mangia anche i fiori?». I grandi sono ottusi; l’aviatore gli risponde: «Sì». «Anche i fiori con le spine?». «Sì. Anche i fiori che hanno le spine». «Ma allora le spine a che cosa servono?». L’aviatore si sta spazientendo con un bullone, che fa resistenza: «Niente. È pura cattiveria da parte del fiore». E rimane allibito dal pianto disperato del Piccolo Principe, che nel suo pianeta minuscolo ha lasciato una rosa, e ora capisce quanto sia indifesa; per lui è unica. L’aviatore promette di disegnare una museruola per la pecora del pianetino, e culla il Piccolo Principe, ma non sa come calmarlo, «il paese delle lacrime è così misterioso».

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le tendenze Corda ai piedi

Espadrillas

FLOREALE A sinistra l’idea di Stuart Weitzman: fiori secchi

Griffata e scorretta la scarpa-ciabatta torna regina d’estate IRENE MARIA SCALISE on ci sono vie di mezzo. C’è chi le ama e chi non le sopporta. Chi le trova romantiche e, perché no, anche eleganti. E chi scomode e poco pratiche. Stiamo parlando delle storiche espadrillas. Che, nell’estate che sta arrivando, saranno tra le grandi protagoniste della moda, autentiche rappresentanti di quella tendenza che passa sotto il nome di vintage. Di origine spagnola e portoghese, questa scarpa “povera” di tela e corda intrecciata, è stata mutuata dai pescatori mediterranei per diventare una calzatura estiva dalla seconda metà del Novecento fino a oggi. Considerate una sorta di ciabatte da usare come scarpe, in grado di coprire interamente le estremità ma più leggere dei sandali, sono state praticamente ai piedi di tutti: modaioli, gente comune, statisti e star. Ma nella loro semplicità hanno sempre avuto un’inclinazione frivola. Il primo vezzo delle espadrillas è stato, negli anni Settanta, l’aggiunta di un laccio alla caviglia e di un tacco di tutto rispetto (ovviamente per la versione al femminile): una sorta di zeppa ante litteram. Poi le espadrillas sono scomparse dalle scarpiere accusate dai più d’essere scomode e poco resistenti. E invece, eccole qui di nuovo. Si presenteranno in una doppia versione: nel modello basic, in pratica le gemelle di quelle che hanno vissuto il loro boom tra gli anni Settanta e Ottanta. E in una sorta di copia rivisitata e “scorretta”. Le espadrillas subiscono infatti una mutazione genetica in scarpe carissime, indicate per fashion ELEGANTI victim all’ultiNon solo mo stadio, apzeppa e corda pena sono ritoccate dai grandi Dolce nomi della moe Gabbana da come Louis Vuitton, Marc non rinunciano Jacobs, Anna alla femminilità Sui e Jean Paul Gaultier. Ma anche in Italia sono state liberamente interpretate da Alberta Ferretti, Kristina Ti e Sergio Rossi. Istruzioni per l’uso? Da indossare in vacanza ma non solo. Con gonne o pantaloni e, per le più coraggiose, allacciate sopra i jeans. Nella versione 2006 toccano il massimo dell’impudicizia: paillettes, rasi, cinturini preziosi, tessuti con logo. Un revisionismo che non conosce limiti. Tornano, più sobrie, anche per il pubblico maschile. Gucci ne ha proposto un modello minimalista, un rigato bianco e nero, anche per serate eleganti (naturalmente al mare). Grande fan delle espadrillas prima versione è la stilista Kristina Ti che le ha rifatte in vari tessuti, dal jeans alla stoffa che usa per i suoi famosi costumi da bagno. Spiega: «Trovo che le più belle siano quelle originali che ricordano le estati spensierate. Averle riproposte offre alle donne l’opportunità di mettersi una scarpa che regala una certa altezza ma con il vantaggio di non sembrare aiutate dal classico tacco a spillo. Insomma il trucco c’è ma si vede pochissimo». Saranno pure delle alleate delle mancate stangone, queste zeppe di corda mai sotto gli otto centimetri, però gira voce che siano scomodissime. «Niente affatto, è solo un modo diverso di camminare — smentisce Kristina Ti — che crea una barriera psicologica, ma in realtà sono comode perché il piede è praticamente orizzontale». E i prezzi? «Quelli decisamente non sono vintage — spiega la stilista —perché le nuove lavorazioni sono molto più laboriose, però il vantaggio è che durano a lungo e sono anche morbide». E se in Italia ritornano con una certa timidezza, all’estero sono quasi una fede. Gli stilisti di scarpe Castaner, storici fornitori di numeri uno come Hermes, Dior e Jean Paul Gaultier, ne producono in tutte le versioni e le spagnole ne posseggono almeno un paio a testa.

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MADE IN SPAIN Il marchio spagnolo Castaner reinventa la tradizione. Resta la sabbia. E la corda

LACCI Caviglie fasciate e imbrigliate, colori tenui per Betty Flowers

FIOCCO Incrocio di lacci per questa versione di Castaner

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Trent’anni fa le indossavano tutti, poi si disse che erano scomode e sparirono Ora tornano protagoniste e non solo al mare Perché gli stilisti le hanno modificate geneticamente RICAMI Betty Flowers aggiunge disegni floreali su tessuto color avorio

ARCOBALENO Nannini, tanti colori e dilemma risolto: non sono scarpe, sono ciabatte

OPEN SPACE Piede quasi scoperto per Can Cun

Erano come le Clark, decisamente “di sinistra”

Repubblica Nazionale 49 04/06/2006

Per le donne erano anche una divisa femminista, gli uomini le portavano “scalcagnate”. Poi se ne impossessarono artisti, star e principesse

Duravano tre mesi, se pioveva le buttavi, ma ci camminammo dentro per tutti i Settanta

Simbolo di libertà, un modo di volare LAURA LAURENZI on è facile spiegare ai ragazzi di oggi che cosa hanno rappresentato le espadrillas. Né scarpe né sandali né pantofole, ma un modo per volare. Scarpa anarchica, ecologica, libertaria. Intessuta nella trama della sua tela c’era la voglia di partire: partire nel senso di andarsene. È un’Italia dei primi anni Settanta, e di chi in quegli anni faceva l’università, quella che camminava sulle mitiche suole di corda. E partiva per la Grecia post-colonnelli, ma anche semplicemente per Ostia. De Gregori cantava Alice non lo sa, finiva la guerra nel Vietnam, Allende veniva assassinato. La televisione era in bianco e nero e trasmetteva l’Eneide, al cinema si andava a vedere Paper Moon ed Effetto Notte, maxicappotti e pantaloni a zampa d’elefante stavano già cominciando a stufare. Le espadrillas costavano poco: sembravano quasi vendute a prezzo politico. Erano una scarpa usa e getta: nel senso che a settembre finivano nel secchio della spazzatura, morte di morte naturale. Se per caso ci prendevi un acquazzone, la suola di corda intrecciata si sfilacciava e ne dovevi comprare subito un altro paio. Piaceva che fossero così rudimentali, senza nessuna pretesa, egualitarie. I maschi le portavano “scalcagnate”, cioè col calcagno calpestato; le ragazze si dividevano in due categorie. Le più alternative copiavano il look da pescatore: espadrilla rasoterra, molto fricchettona, in genere con la gonna da zingara; le più vanitose — e le loro sorelle maggiori — sceglievano il modello femminile con un po’ di zeppa e lacci alla caviglia. Regalava qualche centimetro di statura ma non tradiva lo spirito di una scarpa ad alto tasso ideologico. Le espadrillas erano un po’ come le Clark: indiscutibilmente “di sinistra”. Si abbinavano volentieri alle cosiddette vacanze intelligenti. Per le donne erano anche una divisa femminista, per la loro comodità un po’ sciat-

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ta, per come la tela prendeva, dito per dito, la forma del piede a maritozzo senza mai lasciarlo nudo. La loro origine era nebulosa ma ne faceva la scarpa etnica per eccellenza: erano nate tra i pescatori della Spagna nord-occidentale, nei Paesi Baschi, in Cantabria, in Galizia e nei villaggi lungo la costa portoghese, dove gli artigiani da secoli intrecciavano la corda per farne suole di scarpe. Se ne impossessarono elegantoni come Wallis Simpson e il suo docile consorte, l’ex re Edoardo d’Inghilterra. Le portava, chic come non mai, la neoprincipessa Grace Kelly. Le esibiva il più estroso fra i dissacratori di professione: Salvador Dalì. Le rilanciavano Brigitte Bardot in Camargue e Yves Saint Laurent a Parigi, etichettandole come scarpe campesine. Le portavano con calcolata nonchalance Gianni Agnelli e Bioy Casares, solo nere però, meglio se l’acqua del mare ci lasciava un po’ di alone salato. La scarpa di pezza è vintage per eccellenza ma quelle d’epoca non esistono (quasi) più: troppo deperibili per durare, troppo vulnerabili per essere tramandate ed ereditate, anche se messe in naftalina. L’espadrilla è una scarpa interclassista. La porta il tycoon e la porta la colf, specie se cinematografica, vedi Penélope Cruz nell’ultimo film di Almodovar: «Le scarpe sono fondamentali — ha dichiarato l’attrice iberica in una recente intervista — Per me parte tutto da lì, sempre. E la pensa così anche Pedro. Infatti la Raimunda di Volver porta le espadrillas, le scarpe giuste per una popolana spagnola che fa la donna delle pulizie ed è sempre in movimento». Le nuove e ricche espadrillas che fanno bella mostra di sé nelle boutique — ridisegnate, reinterpretate, modificate, infiocchettate e accessoriate dagli stilisti — non hanno più nulla a che vedere con una scarpa tanto semplice & gloriosa. L’hanno snaturata, imbalsamandola.

REVOLUTION Resta ben poco delle classiche scarpe di corda in questo modello di Castaner

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l’incontro

È uno degli ultimi direttori-sciamani, un grande vecchio del podio Ma non dimentica di essere stato il bambino prodigio che a undici anni dirigeva davanti a Toscanini Ora che con la New York Philharmonic affronta una tournée in Italia, racconta la sua carriera “Ho dovuto disciplinare le mie emozioni: prima la musica mi coinvolgeva troppo, ora ho imparato che un’interpretazione equilibrata e vibrante si ottiene grazie al controllo E all’amore, che è motore di ogni cosa”

Talenti precoci

Lorin Maazel

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opere predilette, insieme a Tosca». Nel 1960 fu il direttore più giovane, e il primo di nazionalità americana, a dirigere Wagner a Bayreuth. E fu nei primi anni Cinquanta che debuttò in Europa, «al Bellini di Catania, dove mi avevano invitato all’ultimo momento per sostituire Pierre Dervaux ammalato. Avevo 22 anni ma ne dimostravo 15, parevo uno scolaretto. Il sovrintendente, quando mi vide, quasi svenne, voleva cacciarmi. Ma non c’era tempo per trovare qualcun altro e si rassegnò. Poi il concerto andò benissimo e lui dovette ricredersi». Dal 2002 Maazel è il direttore musicale della New York Philharmonic, la stessa orchestra di somme tradizioni che aveva già diretto a 12 anni in pantaloni corti, «e com’è ovvio gli orchestrali di quel concerto oggi sono tutti morti». Con questo formidabile complesso sinfonico sta per affrontare una tournée in Italia, dall’8 al 20 giugno, con tappe a Roma, Firenze, Milano, Parma, Ravenna, Lubiana e Trieste: «È una formazione favolosa, dal suono massiccio ma

Ci sono molti modi di dire ‘ti amo’ Gridarlo, sussurrarlo, scandirlo in tono triste o felice E ci sono molte diverse maniere di fraseggiare

un gruppo di note

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orseè finita l’epoca del Direttore-Sciamano, l’onnipotente Mago della Musica che guida gli officianti di quel rito che è il concerto. I giovani direttori odierni smitizzano il carisma dei predecessori, giocano con le mode trasandate, odiano (o fingono di odiare) le affettazioni e le pretese dei divi. Tra i rari Grandi Vecchi che resistono spicca, agguerrito e maestoso, Lorin Maazel, in prima linea sul fronte di coloro che considerano la partitura una personale dichiarazione di diritti. Ammirevole per physique du rôle, testa leonina, piglio regale, sguardo imperioso, è sempre stato un fuoriclasse, sospinto da una capacità impressionante di bruciare le tappe: «A cinque anni suonavo il violino in pubblico, a otto diressi un’orchestra, a nove ero sul podio di un concerto alla Fiera di New York», racconta con voce calma e suadente dalla sua fattoria in Virginia, una magnifica tenuta piena di animali che brilla per immacolata identità ecologica, visto che «in questa fetta di mondo ogni industria è proibita, e non c’è un filo di fumo che inquini l’aria», segnala fiero l’illustre proprietario. Quando aveva undici anni Lorin conobbe Toscanini: «Era stato incuriosito dal giudizio di un critico newyorkese che di me aveva scritto: “questo bambino è un genio, la scoperta del secolo!” Perciò lui, all’epoca direttore musicale della Nbc Symphony, m’invitò a dirigere la sua orchestra. Dopo aver assistito a una prova venne in camerino, mi poggiò una mano sulla testa e mi disse dolcemente: “Dio ti benedica”. Era un uomo tenero, anche se nelle prove con gli orchestrali sbraitava tanto. Aveva un cuore sensibile e in fondo era un timido, bloccato dalla scarsa conoscenza della lingua inglese». La benedizione di Toscanini fu un portafortuna: Maazel aveva dodici anni

quando diresse per la prima volta la New York Philharmonic, regina delle orchestre americane, fondata nel 1842 e guidata da maestri leggendari come Mahler, Mengelberg e Furtwängler. «L’occasione fu un concerto all’aperto nel Lewisohn Stadium. Vi diressi la Quinta di Beethoven, col coraggio dell’innocenza. Ma ero ben preparato, e riuscii a comunicare ai musicisti la mia sicurezza». A capire subito il suo talento era stato il padre, «che quando avevo quattro anni notò in me un’inclinazione non comune alla musica. Mi fece studiare pianoforte e violino e dopo un paio d’anni volle che affrontassi lo studio della direzione orchestrale a Pittsburgh, dove vivevamo». Non ha pagato un prezzo nell’infanzia? «Tutt’altro, fu serena. Circolano troppi equivoci sul cosiddetto enfant prodige. Il termine evoca un fenomeno da circo sfruttato da genitori e agenti: un bambino che non va a scuola, non frequenta coetanei, fa un numero incredibile di concerti e a tredici anni è un rudere. Io invece giocavo a baseball, avevo amici, andavo a scuola e dirigevo concerti solo durante le vacanze». Il fatto è che nella musica, sostiene Maazel, lo straordinarietà del talento emerge presto, «intorno ai cinque anni, quando si svelano l’orecchio perfetto e speciali doti di memoria. E come il talento per gli scacchi, il tennis e la matematica, quello per la musica va coltivato fin dall’inizio. Stimolarne l’approfondimento è una scelta salutare. Terribile invece è la strumentalizzazione da parte degli adulti. Nel mio caso non è accaduto. Sono cresciuto in una famiglia come tante. Mia madre faceva la dottoressa, mio nonno era violinista nell’orchestra del Metropolitan, mio zio era pianista. Mio padre faceva l’attore. Per fortuna è ancora con me, ha 103 anni e sta benone, forse grazie all’aria di questa mia splendida campagna». Ama l’America? «Certo, moltissimo. Amo i suoi spazi, le spiagge sterminate della California, i cieli senza nubi, le montagne immense. Amo l’idealismo del mio Paese. Non bisogna guardarne solo i lati infantili e grotteschi. C’è anche un idealismo puro e necessario. Se ne fossi privo sarei vittima di quella bestialità che è l’impulso alla lotta sfrenata per il successo». Ciò nonostante a lui il successo non è mancato. Americano di famiglia ebrea e russa di origine, nato in Francia nel 1930, Maazel ha viaggiato sempre in sfere di plauso stellare, senza soste nella conquista dei posti di comando: la Deutsche Oper di Berlino, l’Opera di Stato di Vienna, l’Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, la Pittsburgh Symphony, la Philharmonia di Londra, l’Orchestre National de France, la Cleveland Orchestra, la Filarmonica Toscanini di Parma. Da quest’anno ha assunto anche la direzione della nuova Opera di Valencia, dove in settembre dirigerà Don Giovanni, «una delle mie

trasparente. Gli strumentisti hanno una personalità fortissima, e sono tutti fanatici dell’intonazione. In più sono newyorkesi, dunque cittadini del mondo, come lo sono io. Perciò tra noi c’è grande sintonia». Cos’è la direzione d’orchestra? In che consiste la capacità di comunicare al pubblico una partitura? «Si può paragonarla al lavoro del regista, che alla prima prova incontra gli attori i quali già conoscono i loro ruoli, però non basta. È lui che deve immettere la concezione personale di ogni interprete in una prospettiva che esprima la sostanza del testo. Allo stesso modo, in un’orchestra ogni musicista sa la sua parte, ma tocca al direttore inserire questa voce individuale in un’idea più ampia. Deve trovare la precisione del ritmo, l’equilibrio fra le sonorità dei diversi strumenti. E deve far fraseggiare nel modo giusto. Ci sono mille modi di dire “ti amo”. Gridarlo, sussurrarlo, scandirlo in tono triste o felice. Analogamente, ci sono almeno dieci diverse maniere di fraseggiare un gruppo di note. Sceglierne uno è impresa complessa e delicata. Oggi troppi dilettanti salgono sul podio senza capire ciò che fanno. Se c’è una buona orchestra possono illudersi di saperlo fare, ma presto emerge l’inganno. È come guidare una Rolls Royce senza patente. Lo sterzo può funzionare da solo, ma appena qualcosa non va salta per aria tutto». A Maazel attribuiscono equilibrio olimpico e padronanza di sé. Qualcuno parla di freddezza. Riesce a commuoversi? «Certo: la musica mi tocca nel profondo. Però il dominio delle emozioni è necessario per un direttore, e s’impara da giovani. Prima la musica mi coinvolgeva troppo. Via via ho imparato che in quel modo si perde forza. Un’interpretazione equilibrata, ma anche vibrante, non si ottiene senza controllo. Perciò cerco di canalizzare le mie energie nella bacchetta, che diventa molto espressiva. Deve risultare chiaro a tutti di che si tratta, a cosa aspiro, dove voglio andare». L’hanno accusato di avere un’ansia febbrile di esperienze, di contaminarsi con i mass media. Fu lui a dirigere la musica del primo film-opera di successo mondiale, il Don Giovanni di Losey, e poi quelle della Carmen di Rosi e dell’Otello di Zeffirelli. Fu lui a inaugurare in Francia il primo mega-spazio per concerti classici, quello parigino di Bercy. Fu lui a organizzare, sul modello degli eventi rock di solidarietà internazionale, le manifestazioni Classic-Aid. «Ma non ho mai fatto compromessi, né mi sono svenduto su fronti commerciali». Gli hanno detto che peccava di eclettismo, che col suo repertorio gigantesco rischiava la superficialità. «Quand’ero giovane non mi sentivo a mio agio con molta musica. Non capivo Sibelius, non sapevo dirigere un valzer. A 27 anni decisi di approfondire stili diversi. Ero capace, per un anno inte-

ro, di studiare solo musica francese, poi solo opera italiana, poi russa, poi atonale... Sono entrato nei mondi musicali più svariati, senza averne più paura. Non so se questo vuol dire essere troppo eclettico, ma sto bene così». Non gli piace che gli attribuiscano un virtuosismo sfolgorante, uno sfoggio di tecnicismo: «Di temperamento sarei impulsivo, ma ho domato la foga. Ora che dirigo con sobrietà c’è chi mi rimprovera la mancanza di passione. Non è vero: trasparenza e chiarezza sono fondamentali per un direttore, il resto viene dopo. E poi al centro di tutto c’è l’amore. È il motore di ogni cosa». Forse per questo ha al suo attivo sette figli e tre mogli. Con l’ultima, la tedesca Dietlinde Turban, attrice di cinema negli anni Ottanta, stesso ovale di Romy Schneider, ha avuto tre figli, «che ora hanno 18, 16 e 13 anni. E il sedicenne Leslie ha un gran talento per la composizione». Constatazione che lo riempie di orgoglio. Anche Lorin Maazel, quando può, compone musica, e una sua opera, 1984, ispirata al romanzo di Orwell, ha debuttato un anno fa al Covent Garden di Londra. «È stato un lavoro per me importantissimo, che mi ha fatto sprofondare nei tanti livelli di un testo atroce e profetico, pieno di incursioni negli abissi della viltà e del sadismo che albergano nell’animo umano. Ma nel libro di Orwell, per fortuna, un fiore d’amore, come un’isola di luce, cresce tra i blocchi di cemento della tirannia». Dice di amare sempre con la stessa intensità, di considerarsi «un direttore romantico e anche un uomo romantico. Credo all’amore anche grazie alla musica, un linguaggio che sa sempre arrivare a tutti. Se dirigo a Tokyo o a Mosca il pubblico reagisce allo stesso modo. La musica contiene tutto ciò che unisce, niente di ciò che divide. E io ho un bisogno estremo di comunicare. Passano gli anni e non solo non mi raffreddo, ma il mio romanticismo continua ad aumentare».

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LEONETTA BENTIVOGLIO