Riverso - Indicazioni operative sul rito Fornero - Ordine Degli ...

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Incontro di studio sul tema : La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92. Roma, Ergife Palace Hotel 29/10/2012- 31.12.2012 Indicazioni operative sul rito Fornero (con una divagazione minima finale) Roberto Riverso (giudice del lavoro, Tribunale Ravenna)

1.- Obbligatorietà del rito. Il rito è dettato nell’interesse di entrambe le parti della causa, alla celerità del giudizio; e non già nell’interesse dell’uno o dell’altro soggetto. Ha interesse il datore ed ha interesse il lavoratore (il quale ad es. in un licenziamento ex art 18 con tutela solo risarcitoria subisce oggi il rischio del tempo del processo). Non vale perciò quanto la giurisprudenza ha sostenuto per il rito previsto dall’art.28 dello Statuto affermando la facoltatività dell’azione, ammettendo perciò il sindacato ad impugnare il comportamento antisindacale sia con l’azione ex art. 28, sia con azione ordinaria davanti al giudice del lavoro. 2.- Non accessibilità al rito da parte del datore di lavoro Difficile riconoscere l’accesso al rito speciale al datore di lavoro; non tanto perché la sua non è mai azione di “ impugnativa di licenziamento” ( a cui si applica il rito ai sensi dell’art.1, comma 47), quanto perché oggi l’interesse alla celerità del datore di lavoro è presidiato da un doppio breve termine imposto al lavoratore per l’impugnativa del licenziamento. Essendo in particolare previsto un termine breve anche per l’impugnazione giudiziale non pare più possibile riscontrare, in concreto, un reale interesse del datore ad anticipare l’impugnazione del lavoratore; gli basterà attendere il decorso del termine. 3.- Questioni di rito e questioni di merito Nel processo, il rito è scelto sempre dal giudice in base alla domanda; vale sì il principio di prospettazione, ma non il principio dell’intestazione del ricorso; è il giudice che deve decidere sul rito qualificando la domanda, ab initio, così come prospettata dall’attore in base al petitum ed alla causa petendi. a.- Pertanto se il ricorso contro un licenziamento ex art. 18 non è qualificato ai sensi della legge ‘92 bensi proposto ai sensi del’art.414 c.p.c. il giudice dispone il mutamento del rito. b.- Se in un ricorso con la legge 92 si azioni una qualsiasi domanda diversa da quelle esplicitamente ammesse (riguardanti licenziamenti ex art.18 o qualificazioni di rapporto preliminari al licenziamenti o fondate sugli stessi fatti costitutivi), oppure soltanto la tutela obbligatoria, anche qui il giudice dopo aver letto il ricorso fissa

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l’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. e lo tratta come un ricorso ex art.414 c.p.c. E quando al giudice sia sfuggita la natura vera della domanda introdotta col ricorso, potrà disporre il mutamento del rito, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza, in analogia a quanto previsto dall’art.4 del decreto legislativo 150/2011; dopo di che la questione si sana. c.- Nell’ipotesi in cui nella causa proposta come impugnativa di un licenziamento ex art. 18 risulti (non in base alla domanda, ma in seguito all’istruttoria) che il licenziamento rientri nella tutela obbligatoria, il giudice deve decidere nel merito, senza mutare rito, nè tantomeno dichiarare l’inammissibilità della domanda. Perché qui il ricorso è stato proposto bene (è rituale), in base alla domanda svolta; ed il giudice deve quindi decidere nel merito la domanda svolta (sulla tutela reale); respingendola. Solo dopo, si porrà di conseguenza il problema della concessione della tutela obbligatoria. Che il lavoratore potrebbe richiedere anche in via subordinata, ed anche in sede discussione, precisando le conclusioni (Cass n. 14486 del 19/11/2001). Il giudice dovrà quindi concederla, perché sarebbe assurdo e oltremodo defatigante, dopo l’istruttoria, disporre il mutamento del rito ed effettuare un nuovo giudizio sui presupposti sostanziali del licenziamento ai fini della tutela obbligatoria; oltre tutto che il mutamento del rito non è un giudizio sulla domanda ed il lavoratore ha chiesto bene la tutela reale; ed il giudice nel non concederla giudica nel merito; e si deve quindi sottoporre ad un controllo sul merito (anche perché lo stesso giudice potrebbe aver sbagliato a conteggiare i lavoratori, o a decidere sulla qualifica del prestatore, ed il lavoratore intenda poi proporre opposizione). Non si può pertanto neppure respingere ogni domanda, o non pronunciarsi sulla domanda subordinata solo perché non rientra nel rito. Insomma, chi prospetta una tutela reale e poi ottiene una tutela obbligatoria non sbaglia il rito, ma ha torto (eventualmente, solo parzialmente) nel merito. Per di più si potrebbe sostenere, oggi, che il giudice debba pronunciarsi sulla tutela obbligatoria anche in mancanza di una domanda subordinata. Chi si rivolge al giudice ed impugna un licenziamento ex art.18 chiede implicitamente anche la tutela economica debole, perchè nel più ci sta sempre il meno (come avviene in fondo per il risarcimento del danno). Oltretutto oggi la stessa tutela ex art.18 è strutturata, in generale, come ipotesi di tutela obbligatoria; mentre quella reintegratoria rimane una tutela speciale, riservata a casi specificamente contemplati. Dichiarare l’inammissibilità della domanda potrebbe portare pure a conseguenze aberranti per via della decadenza dall’azione, ove sia trascorso il termine di 180 giorni per l’impugnazione giudiziale con il rito ordinario; né la decadenza è interrotta dal primo ricorso (sempre che questo termine venga inteso come termine di decadenza). 4.- Domande non rientranti nel campo d’applicazione della legge Per tutte le altre domande - diverse da quelle di impugnazione di licenziamento che che vanno sempre decise nel merito; e da quelle relative a qualificazioni di rapporto

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preliminari o fondate sugli stessi fatti costitutivi - proposte in via principale con rito speciale, ictu oculi non ammissibili (ad es. domande risarcitorie, mera domanda di nullità del termine, domande retributive connesse alla qualificazione del rapporto), occorre disporre invece il mutamento del rito e non ci si può limitare a dichiarare l’inammissibilità della domanda. Anzitutto perchè l’ordinamento in generale, quando si sbaglia rito, è per il suo cambiamento, e quindi agevola la regolarizzazione; lo si desume dal principio di conservazione degli atti; dalle soluzione stabilite dal c.p.c. ( artt. 426 e 427) quando si sbaglia il rito del lavoro o quello ordinario; dal decreto legislativo 150/2011 sulla semplificazione dei riti disciplinato in forma generale dall’art. 4 d.lgs. n. 150/2011 in ordine ai rapporti fra rito ordinario di cognizione, rito del lavoro e rito sommario di cognizione. ; da quanto prevede espressamente la legge Fornero sulla domanda riconvenzionale inammissibile nella fase (pur essa speciale) di opposizione. 5. Domande riguardanti il contratto a termine illegittimo (subordinato o finto autonomo) Possono in concreto configurarsi tre diversi casi. Se la questione della scadenza del termine viene proposta come impugnazione di un licenziamento, la domanda va rigettata in diritto. Se invece è proposta come impugnativa della disdetta la domanda non rientra nello schema del rito ex lege 92 Fornero ( perche non riguarda l’art.18) e se proposta in quanto tale va cambiato il rito. Se invece il lavoratore deduca un vero e proprio licenziamento come tale (e non la mera illegittimità del termine e della sua disdetta) in tal caso si applica il rito speciale. 6.- Domande connesse ammissibili (in via principale ed in via riconvenzionale) nella fase sommaria Sono proponibili nella fase sommaria le domande fondate sugli identici fatti costitutivi del licenziamento. Ad es. domanda di risarcimento del danno in caso di licenziamento, anche ingiurioso; o relativa a malattia o infortunio professionale in ipotesi di licenziamento per supero del comporto o per inidoneità del lavoratore; oppure domanda di differenze retributive derivanti dal licenziamento (indennità di preavviso). Lo stesso datore di lavoro potrebbe avere interesse a proporre una riconvenzionale fondata sugli identici fatti costitutivi; come ad es. per i danni conseguenti ad licenziamento per grave inadempimento - ad es. danneggiamento. Può il datore chiedere i danni in via riconvenzionale già nel rito sommario? E se proposta cosa bisogna disporre? (pronunciare l’inammissibilità e basta; o cambiare il rito?). Il rito non la prevede, ma plausibilmente dovrebbe ritenersi ammissibile la domanda riconvenzionale nel rito sommario, per un principio di economia e di parità di trattamento, alle stesse condizioni per cui è ammissibile una domanda diversa dal licenziamento formulata dal lavoratore in base agli identici fatti costitutivi. Negare tale facoltà, significa esporre l’ordinanza del giudice a revisione e costringere il datore di lavoro a fare opposizione (perché in quella fase questo genere di

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riconvenzionale è ammissibile). Non solo, ma significa anche far subire al datore una condanna esecutiva per somme che magari non dovrebbe pagare. Si pensi ad un licenziamento disciplinare con tutela solo obbligatoria ex art. 18 (impugnato per vizio di motivazione o comunque perché consentito dal CCNL) e per il quale il datore rivendichi un danno rilevante. Ritenere inammissibili queste domande espone la normativa a questioni di costituzionalità per violazione dell’art.24 Cost.

7.- La riconvenzionale in fase di opposizione Con l’atto di opposizione si chiede la riforma dell’ordinanza pronunciata nel rito sommario e si possono porre inoltre altre domande fondate sugli stessi fatti. L’opposizione può essere proposta dal datore o dal lavoratore o da entrambi ed in tale ipotesi vanno riunite. Il convenuto in opposizione potrà porre anche altre domande riconvenzionali ma sempre se fondate sugli stessi fatti relativi al licenziamento originario (e non tanto sugli stessi fatti dedotti nell’atto di opposizione). Se invece la domanda riconvenzionale non sia fondata su fatti costitutivi identici a quelli che hanno portato al licenziamento impugnato, il giudice deve, con ordinanza, disporre la separazione delle domande (ma anche, è implicito, il mutamento del rito). 8.- Le altre domande diverse (da quelle ammissibili) nella fase di opposizione Nella fase di opposizione, le domande diverse da quelle previste come ammissibili vanno trattate al pari delle domande riconvenzionali inammissibili. Quindi nella fase di opposizione tutte le domande non ammissibili ex lege 92 devono essere separate; questo lo si deduce dalla previsione relativa alla domande riconvenzionali che si dovrà però applicare anche a tutte quelle principali inammissibili proposte con l’atto di opposizione; occorre perciò separare e disporre il mutamento del rito. 9.- Non esclusività del rito in materia di licenziamenti ex art.18: a) l’art.700 In astratto non può escludersi un ricorso cautelare ex art. 700 cod. proc. civ., ma in proposito il requisito del periculum va valutato con notevole rigore in considerazione della rapidità che contraddistingue la fase sommaria tipica, sicché il pregiudizio irreparabile dovrebbe essere così imminente da non poter essere evitato con un provvedimento emesso in un paio di mesi. La questione si potrebbe porre in concreto soprattutto ai fini dell’adozione di un provvedimento cautelare inaudita altera parte; certamente potrebbe essere un caso raro, ma non può escludersi l’ eventualità di un urgenza così impellente da consentire in presenza di un periculum qualificato una istanza cautelare ai fini di un provvedimento inaudita altera parte. Si pensi ad es. ad un licenziamento illegittimo intimato in prossimità di una progressione di carriera non ripetibile. D’altra parte, se si riflette sull’essenzialità e complementarietà della tutela cautelare rispetto alla tutela di tutte le situazioni giuridiche, non si può escludere a priori – in presenza di periculum - l’utilità del ricorso alla tutela cautelare, posto che “ogni situazione giuridica deve poter trovare un suo momento

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cautelare” (Corte Cost. 326/1997)1. Per chi ritenga invece sempre inammissibile la tutela cautelare si pone l’ulteriore questione del provvedimento da adottare sul ricorso ex art.700; ed anche in tal caso il giudice dovrà cambiare semplicemente il rito in quanto certamente il ricorso ex art. 700 soddisfa anche i requisiti del più agile (perché non richiede periculum) ricorso ex lege 92. 10.- b). Il ricorso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori Un altro sistema per impugnare un licenziamento, diverso dall’azione ex lege 92, rimane il ricorso ex art. 28 ove si possano configurare gli estremi del comportamento antisindacale, e ciò non solo per la qualifica di sindacalista del prestatore (che darebbe comunque luogo ad una reintegra piena anche ex art.18); ma anche per vizi che colpiscano solamente le prerogative sindacali. Ad es. in caso di violazione delle procedure in materia di licenziamento collettivo, che secondo la nuova versione dell’art.18 potrebbe portare solo ad un’indennizzo; in tal caso non solo il rito va incardinato secondo l’art.28 , ma la stessa tutela sostanziale cambia, perché la pronuncia del giudice potrebbe comportare in ogni caso anche la caducazione dei licenziamenti dovendo garantire la rimozione degli effetti (anche in ipotesi come, appunto, quella della violazione della procedure sindacali nei licenziamenti collettivi che a seguito della riforma potrebbero dar luogo soltanto ad un indennizzo). 11.- Il regime intertemporale Il nuovo rito si applica soltanto “alle controversie instaurate successivamente all’entrata in vigore della legge” (art. 1, c. 67). La normativa sostanziale sui licenziamenti si applica invece soltanto ai licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della legge ‘92 e non può essere applicata retroattivamente, perché la normativa sanzionatoria contenuta nell’art.18 fa parte della tutela sostanziale (e le conseguenze giuridiche che discendono dal vizio di un atto vanno individuate in base alla normativa vigente al momento dell’emanazione dell’atto). Inoltre lo stesso rito va applicato anche se la nuova disciplina sostanziale non sia ancora in concreto applicabile, perché si tratti di licenziamenti che prima rientravano nella diversa area di tutela di diritto comune che continua quindi ad applicarsi (come ad es. per i licenziamenti nulli per vizi di forma o intimati in regime di divieto matrimoniale o di interdizione per gravidanza, nelle piccole imprese); quindi, per quest’ultimi licenziamenti, si applicherà la nuova disciplina processuale pur continuando ad applicarsi la vecchia tutela di diritto comune. La nuova disciplina cioè si applica sempre nel concorso di cui condizioni: che il licenziamento sia stato impugnato dopo il 18 luglio 2012 e che rientri oggi nella nuova disciplina dell’art.18, anche se in                                                              1

Come osservava Satta “l’idea della cautela è un’idea non giuridica e quindi ispiratrice di un’ infinità di norme, se non

di tutte poiché non c’è norma che non sia dettata da ragioni di cautela”.  

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concreto non sia applicabile. 12.- La fase sommaria (non cautelare) La prima fase della procedura dal rito ex leghe 92 è sommaria, ma non cautelare, poiché non occorre la prova di alcun periculum concreto, essendo l’urgenza valutata una volta per tutte dal legislatore per il tipo di controversia. 13.- Carenza di preclusioni per deduzioni istruttorie ed allegazioni Degno di nota è che la fase sommaria non conosce decadenze, né preclusioni. Come conferma il fatto che il ricorso deve essere redatto rispettando i requisiti previsti dall’art.158 c.p.c. il quale non prevede l’assolvimento di oneri istruttori; si ricava da qui l’inesistenza di preclusioni istruttorie o decadenze per il ricorrente. E lo stesso non può non valere – per il principio di parità delle armi - per il convenuto; ancorchè la stessa norma preveda, con carattere di novità rispetto ad es. al giudizio cautelare uniforme, che il convenuto si debba costituire entro cinque giorni prima dell’udienza. Pertanto quand’anche il convenuto si costituisca in ritardo non incorrerà in alcuna decadenza. Comunque ciascuna parte potrà dedurre ulteriori istanze istruttorie anche all’udienza e nel corso del giudizio. Alla costituzione nel rito sommario non si può perciò applicare alcuna decadenza, nè per gli oneri istruttori nè per le allegazioni. 14.- Termini non perentori ed udienze apposite Non sono perentori tutti i termini previsti nella fase sommaria; anche quelli stabiliti per la costituzione delle parti, data la sommarietà della procedura; in caso di violazione dei termini il giudice sposterà perciò l’udienza, senza che ciò comporti nè la nullità dell’atto introduttivo, né la decadenza del convenuto da eccezioni o istanze istruttorie. Il giudice deve riservare “ particolari giorni nel calendario delle udienze” e “i capi degli uffici vigilano sull’osservanza della disposizione”. La lettera della legge sembrerebbe imporre ai giudici di tenere delle udienze aggiuntive e dedicate esclusivamente ai licenziamenti rispetto a quelle già fissate per la trattazione delle cause ordinarie; va preferita, però, la diversa soluzione data nel parere del CSM (Delibera consiliare del 17 maggio 2012) secondo cui la riserva obbligatoria di particolari giorni di udienza per la trattazione delle controversie in oggetto potrebbe essere una misura non sempre funzionale al raggiungimento dello scopo, in quanto “in alcuni uffici” (ma ciò vale in realtà per i giudici di tutti gli uffici giudiziari) le cause di licenziamento rappresentano una minima quota del totale delle controversie di lavoro. La previsione normativa allora potrebbe parimenti assolvere alla finalità perseguita dal legislatore, se interpretata nel senso che le udienze destinate alla trattazione delle cause di licenziamento debbano essere predefinite nel calendario, ma non in via esclusiva: insomma nel senso che si assicuri comunque priorità di trattazione alle stesse cause di licenziamento ex art. 18.

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15.- Il giudizio ordinario di opposizione. In caso di soccombenza reciproca ciascuna parte può proporre la propria opposizione principale con successiva riunione, mentre la legge tace sulla proponibilità di una opposizione incidentale anche tardiva, che dovrebbe essere ammessa se si trattasse di una fase impugnatoria come l’appello. Le statuizioni dell’ordinanza non opposta passano in giudicato. L’opposizione si propone “con ricorso contenente i requisiti dell’art. 414 del codice di procedura civile” (art. 1, c. 51) ed a sua volta l’opposto si costituisce con “memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’art. 416 del codice di procedura civile” (art. 1, c. 53). Pertanto nella fase dell’opposizione valgono per entrambe le parti tutte le preclusioni e le decadenze dell’ordinario rito del lavoro. L’opposizione introduce un giudizio ordinario a cognizione piena, come risulta dal riferimento agli “atti di istruzione ammissibili e rilevanti”. Rimangono alcuni caratteri di specialità rispetto al giudizio ordinario ex art. 414 c.p.c.: sia per quanto riguarda le domande connesse e riconvenzionali (la cui ammissibilità nella fase di opposizione è più ristretta), sia per quanto riguarda lo speciale modello di decisione che il giudice deve adottare. 16.- La sentenza A seguito dell’eventuale istruttoria e di eventuali note difensive, la causa di opposizione è decisa con sentenza immediatamente esecutiva da depositare entro dieci giorni dall’udienza di discussione (art. 1, c. 57), la cui efficacia può essere sospesa per gravi motivi dalla Corte d’appello (art. 1, c. 60). Non è prevista la lettura del dispositivo in udienza. Non è ammissibile nemmeno la sentenza contestuale, perché la legge non prevede che la sentenza venga pubblicata a seguito di lettura. Prevedendo bensì che “la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione”, la legge ha delineato un modello decisorio speciale, diverso da ogni altro attualmente previsto nel rito del lavoro dall’art. 429 c.p.c., come modificato nel 2008 dall’art. 53 del d.l. 25 giugno 2008, conv. in legge n. 133/2008 17.- Incompatibilità del giudice della fase sommaria Un problema non risolto dalla legge 92/2012 concerne l’individuazione del giudice della fase di opposizione. Ferma la competenza funzionale dell’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, ci si chiede se possa essere lo stesso giudice (inteso come persona fisica) che ha già trattato la fase sommaria. Come noto, la Corte Cost. si è pronunciata in passato sull’analogo problema dell’individuazione del giudice per la fase di opposizione ex art. 28 dello Statuto, affermando motivatamente, e con sentenza interpretativa di rigetto (n.387/1999), che l’unica soluzione conforme con la Costituzione ed in grado di rispettare il principio di “imparzialità del giudice” è quella che prevede l’incompatibilità del giudice, ai sensi dell’art.51, comma 4 c.p.c. Si tratta di una soluzione insuperabile, estensibile anche al caso in esame; perché - nel nucleo essenziale e caratterizzante - la struttura bifasica

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del giudizio delineato dalla legge 92/2012 per l’impugnazione dei licenziamenti è simile a quella del giudizio sul comportamento antisindacale delineato dall’art.28. In entrambi i casi si chiede infatti al giudice dell’opposizione - fermi restando i presupposti e l’oggetto del giudizio nelle due fasi - di riesaminare un giudizio già effettuato su una questione controversa in materia di licenziamento; e tale riesame non può essere compiuto dal giudice che ha già deciso “dovendo essere evitato che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l'identico itinerario logico precedentemente seguito”. Tale impostazione dettata dalla Costituzione non può essere superata, nè sollevando supposte esigenze organizzative, nè enfatizzando gli aspetti di novità che potrebbero eventualmente presentarsi, per certi limitati profili, nella fase di opposizione ex lege 92. La necessità di rispettare il principio “assolutamente preminente” (rispetto agli aspetti organizzativi) dell’imparzialità del giudice postula infatti “come condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale la sola preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. Corte Cost sentenza n. 131 del 1996)”. Mentre qui si tratta, sempre, dello stesso oggetto e degli stessi presupposti relativi alla domanda principale già azionata nella fase sommaria. La Corte Cost. ha peraltro escluso da tempo (sentenza 326/1997) che la stessa incompatibilità possa sussistere nell’ambito del giudizio cautelare, onde neppure si corre alcun rischio di trascinamento, con ulteriori complicazioni sotto il profilo organizzativo. 18.- Applicabilità del rito alla PA Quanto al problema dell’applicabilità del rito Fornero ai licenziamenti intimati nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, la soluzione discende dalla risposta apprestata sulla più generale questione relativa all’applicabilità della riforma anche sostanziale dell’art.18 alla PA (posto che da essa segue l’applicazione del nuovo rito). Il problema interpretativo nasce dal fatto che mentre l'art.1, comma 7, stabilisce che le disposizioni della "legge fornero", per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti; il successivo comma 8 stabilisce pure che il Ministro della funzione pubblica, sentite le parti sindacali, definisce anche mediante “iniziative normative”, le modalità e i tempi per l’armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti della PA. Ora non c’è dubbio che la legge Fornero non preveda “espressamente” nulla per i licenziamenti della PA, sicchè sembrerebbe che l’applicazione della legge Fornero alla PA debba avvenire a seguito di iniziative legislative future. Senonchè a questo punto rimarrebbe irrisolto il problema di quale sia oggi la disciplina applicabile ai licenziamenti intimati nel pubblico impiego. Non essendo più in vigore l’art.18 vecchio testo; e non essendo stata disposta una deroga per la PA, ne conseguirebbe che per il pubblico impiego non vi sia più una disciplina specifica. A meno che non si ritenga che nel comma 7 vi sia anche una implicita deroga all’abrogazione del vecchio art 18 o comunque una riserva volta a mantenere in vita il

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vecchio art.18 ( “ fermo restando la disciplina dell’art. 18 abrogata…”) ai fini della sua applicazione alla PA. Ma solo questa riserva non compare, da nessuna parte; non solo, nell’ordinamento c’è, invece, un rinvio recettizio del T.U. 165 ( art 51, comma 2) “alla legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni”, e quindi al nuovo art.18, che andrebbe applicato anche alla PA, nella sua interezza, in mancanza di espresse deroghe. La tesi è rafforzata dall’art. 2 comma 2 del Tu 165 secondo cui “ I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”. Sarebbe quindi da applicare la normativa generale sui licenziamenti come prevista nel codice civile, nella legge 604/66 e nella legge 300/70. La contraria tesi secondo cui il vecchio testo dell’art.18 sarebbe “sopravvissuto per rinvio materiale fino alla prevista armonizzazione " ( art. 1 c. 7 ed 8 nuova legge )" non sembra avere un aggancio normativo testuale e coerente.

19.- Costo zero e norme antigiudici La riforma Fornero in materia di rito riflette la velleitaria pretesa di risolvere il problema dei ritardi dei giudizi in materia di licenziamento semplicemente scrivendo norme nuove ed aumentando le incombenze processuali (aumentando le fasi processuali e le udienze). Se ciò dovesse ritenersi fondato, il metodo dovrebbe essere subito esportato a tutte le altre non meno importanti controversie trattate dai giudici del lavoro (ad es. in materia di tutela della salute, dignità, retribuzione del lavoratore); e definite generalmente in tempi lunghissimi, nonostante il rito ordinario del lavoro ne preveda di assai brevi. In realtà tutti sanno che il problema della celerità della giustizia del lavoro non si può risolvere semplicisticamente aumentando le udienze, occorrendo invece diminuire i carichi o aumentare le risorse ed i giudici del lavoro; a meno che non si supponga che ,a risorse invariate, i giudici debbano produrre di più perchè siano in realtà “fannulloni”; ed è forse questo il retro pensiero che alligna dietro queste norme; se è vero che nella stessa legge si prescrive ai giudici di effettuare più processi di licenziamento in tempi più rapidi, subito precisandosi, però, che da tutto questo non ne debbano “derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art.1, comma 69).

20.- Ipocrisie e mea culpa Si potrebbe risalire a lungo nella catena delle responsabilità per la discussa e contorta normativa processuale, dettata dalla legge ‘92; la cui genesi ha in realtà molti genitori, datori di lavoro e giudici inclusi. Un argomento da sempre ripetuto nel dibattito contro la precedente disciplina, era che “il vero problema” della tutela ex art. 18 consistesse – più che nella giustizia del principio – nella sua applicazione processuale, in quanto sarebbe stato il ritardo del

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processo a rendere eccessivo il costo del licenziamento per l’impresa (perchè col “processo lungo” maturavano maggiori retribuzioni per il lavoratore). La doglianza nascondeva però una ipocrisia nota a tutti gli operatori processuali: infatti, tutte le volte in cui il lavoratore agiva col “processo corto”, azionando contro il licenziamento una procedura d’urgenza ex art.700, il datore di lavoro convenuto contestava, sempre, in primis, proprio le ragioni dell’urgenza (il c.d. periculum in mora), e chiedeva lui il “processo lungo” ovvero proprio quello che gli sarebbe poi costato di più. Per parte loro i giudici, venendo, per lo più, incontro a tali eccezioni, finivano per negare l’evidenza, ovvero che in ogni licenziamento ci sia (provare per credere) una ragione lapalissiana di urgenza; se è vero che il posto di lavoro, per superiore direttiva costituzionale, non è soltanto strumento per ottenere un reddito, ma esprime prima di tutto un bisogno esistenziale di presenza libera e dignitosa nel mondo. La maggior parte dei giudici si inerpicava, invece, in astratte argomentazioni chiedendo ai lavoratori privi di lavoro di “dimostrare dell’altro” e “di più”, rispetto alla pacifica perdita illegittima del lavoro, proprio al fine di comprovare l’esistenza del periculum in mora richiesto dall’art.700; col risultato di restringere di molto l’applicazione dell’art.18 e di distorcere il significato della stessa tutela (proprio in danno di quei lavoratori che chiedevano di tornare subito al lavoro, senza voler strumentalizzare alcuna dilazione processuale a fini monetari). Se dunque oggi – anche per reagire a queste incongruenze – la legge 92 prevede un procedimento rapido obbligatorio (senza che occorra dimostrare più alcun periculum) sono in tanti a non potersene dolere, senza aver prima recitato almeno un mea culpa….