Scheda Morire di lavoro - Cineforum del Circolo

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Titolo: Morire di lavoro. Regia: Daniele Segre. Cast: Lavoratori e familiari di lavoratori morti nel settore costruzioni in Italia e tre attori, 2 italiani e uno senegalese: ...
I Cammelli S.a.s. di Daniele Segre & C. Via Cantalupo, 11 - 10141 Torino Tel. 0039 011 5695620 -Fax 0039 011 5695619 e-mail: [email protected][email protected] sito: www.danielesegre.it P.IVA 03871000018

MORIRE DI LAVORO un film di Daniele Segre con il sostegno del Piemonte Doc Film Fund

“Io credo, come uomo, cittadino e regista, che occorra trovare le energie per riprendere un cammino che da molto, troppo tempo si è interrotto e che non ha permesso ai lavoratori e alle loro famiglie di lavorare e vivere con la serenità necessaria. Credo sia ora di rialzare la testa, di non vergognarsi più, di ottenere il rispetto della legalità nei luoghi di lavoro, perché ogni mattina si deve andare a lavorare senza dovere avere la paura di non tornare a casa la sera” (Daniele Segre)

MORIRE DI LAVORO Italia, 2008 – Hdv – 88’ 15” Titolo: Morire di lavoro Regia: Daniele Segre Cast: Lavoratori e familiari di lavoratori morti nel settore costruzioni in Italia e tre attori, 2 italiani e uno senegalese: Ciro Giustiniani, Luca Rubagotti, Seck Bamba Produttore: Daniele Segre Produzione: I Cammelli S.a.s Ufficio Stampa: Studio Riccio Produttore esecutivo: Daniele Segre Distribuzione: I Cammelli S.a.s. Soggetto: Daniele Segre Sceneggiatura: Daniele Segre Collaborazione alla sceneggiatura: Antonio Manca Fotografia: Marco Carosi, Iacopo De Gregori Riprese: Iacopo De Gregori, Marco Carosi Suono: Fabio Minciguerra - Davide Pesola - Mirko Guerra - Gianni Valentino Montaggio: Daniele Segre Assistente al montaggio: Iacopo De Gregori Editing: Davide Santi Assistenti di produzione: Anna Piazzolla, Lia Furxhi Luoghi riprese: Lazio, Campania, Lombardia, Piemonte Data inizio lavorazioni: 23/04/2007 Data completamento: 03/02/2008 Note: Relazioni sindacali: Francesco Mancuso - Il film è stato realizzato con il sostegno del Piemonte Doc Fund e la collaborazione del Sindacato Costruzioni CGIL Formati disponibili: Beta SP, Beta Digitale, DVD – Si sta lavorando per portare il film in 35 mm SINOSSI Morire di lavoro è un film documentario che indaga la realtà del settore delle costruzioni in Italia, protagonisti i lavoratori e i familiari di lavoratori morti sul lavoro. La trama narrativa si sviluppa attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, ripresi in primo piano, che guardano in macchina. Altro elemento espressivo sono le voci di tre attori, due italiani e un senegalese, che interpretano ciascuno il ruolo di un lavoratore morto in cantiere. Nel film si parla di incidenti mortali nei cantieri edili, dell’orgoglio del lavoro, di come si è appreso il mestiere, della sicurezza e della sua mancanza, di lavoro nero, di caporalato. CONTATTI I CAMMELLI S.a.s. Via Cantalupo, 11 10141 – Torino P.IVA 03871000018 Tel. 011/56 95 620 Fax. 011/56 95 619

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RASSEGNA STAMPA Film TV 12/02/2008 Di Marì Alberione DIRITTI E DOVERI Un regista che ha scelto da che parte stare. è Daniele Segre che, in oltre trent’anni di attività, si è sempre schierato a favore dell'individuo. E lo fa anche questa volta con un film sulle morti nel mondo del lavoro. Una vera e propria urgenza la sua, tanto che per realizzarla non si è fermato davanti a niente: dopo aver bussato a molte porte, che gli sono state regolarmente sbattute in faccia, ha deciso di produrre lui stesso “Morire di lavoro” con la sua società, I Cammelli. E ha ottenuto un primo importante risultato: il 12 febbraio il documentario viene presentato in anteprima nazionale alla Camera dei Deputati. Come è nato il progetto? II tutto è partito un anno e mezzo fa, anche sulla scia dell'appello del presidente Napolitano sulla necessità di contrastare il gravissimo fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle morti bianche. Era un'idea che avevo da molti anni, ma tutte le volte che l'avevo proposta, era stata rifiutata. Ed è successo anche in questo caso. Normalmente quando non ho prospettive e riscontri, ma sento la necessità di portare a termine un progetto lo faccio, così nell'autunno 2006 ho iniziato a lavorare e per tutto il 2007 ho girato. A livello politico e sindacale si riuscirà davvero ad affrontare questa emergenza nazionale e magari anche a risolverla? Un conto è affrontarla e un altro risolverla. Grazie al sindacato ho avuto modo di contattare tanti lavoratori e familiari di persone scomparse sul lavoro e credo che stia a cuore prima di tutto al sindacato che la questione venga trattata seriamente. Che poi si trovi una soluzione, è più problematico perché entrano in gioco fattori che coinvolgono la politica e le imprese. Per il film lei è stato in Campania, Lazio, Lombardia, e Piemonte. Che differenze ci sono tra nord e sud nei luoghi di lavoro? L'illegalità è assolutamente diffusa, specie nel settore dell'edilizia, da nord a sud. Semmai ci sono differenze di umanità: quella straordinaria di Napoli con la sua ricchezza e la sua poesia anche da un punto di vista umano e, dall'altra, la riservatezza della Lombardia. In Tv, sulla stampa, si parla delle morti bianche quando succedono le tragedie (l'ultima alla ThyssenKrupp è esemplare), ma poi gli impresari non cambiano atteggiamento, i controlli sulla sicurezza non ci sono... Come può nascere una vera cultura del lavoro o quanto meno una maggiore coscienza civile? Bisogna innanzitutto ricostruire il senso dell'identità del nostro Paese dando un ruolo centrale al lavoro. È una questione fondamentale: i lavoratori, proprio per il contributo che danno, devono essere rispettati e questo da molti anni, in Italia, è venuto a mancare. Produrre cultura vuol dire riuscire a comunicare attraverso i mezzi d'informazione: la Rai dovrebbe tornare a fare il suo dovere di servizio pubblico, entrare in rapporto con le scuole, nei luoghi di lavoro producendo quella attenzione che fa maturare le persone nel rispetto della vita e dei valori che determinano la propria esistenza. È un segnale gravissimo quando viene leso questo diritto, questa dignità e gli operai fanno notizia solo perché muoiono. L'anteprima nazionale alla Camera dei D e p u t a t i s i g n i f i c a m o l t o … Indubbiamente. Ci tenevo perché spero possa servire a dare un minimo di senso alla sofferenza di tante persone che vivono questo dramma. Che tipo di distribuzione avrà Morire di lavoro? Al momento due obiettivi sono stati raggiunti: la presentazione alla Camera dei Deputati che, come atto simbolico, ha un significato fortissimo, perché può essere un'occasione di approfondimento non solo sul tema, ma anche sul ruolo che il cinema può avere. Il secondo traguardo è l'anteprima nazionale che segna l'inizio di un viaggio, di un contatto con la realtà per offrire questa riflessione difficile, dolorosa, ma necessaria alla produzione di una cultura dell'attenzione, della prevenzione, della sicurezza.

C'è dell'altro? L'altro obiettivo che mi sono posto è la messa in onda da parte del servizio pubblico: un'intera prima serata che la Rai deve dedicare al tema del lavoro, in cui si può proiettare il film, poi tutto il resto è dedicato al lavoro, senza pubblicità e senza fronzoli. Ci sono speranze? Diciamo che per ora, malgrado i miei sforzi, non ho raggiunto l'obiettivo. Questa è la realtà e lo dico senza polemica, però con grande imbarazzo perché il mio riferimento è il servizio pubblico. “Morire di lavoro” è un film per tutti, per qualunque forza politica, non ci sono preoccupazioni di par condicio. Perché gli argomenti "scottanti" devono essere territorio esclusivo di talk show dove tutto finisce per essere trattato nello stesso modo? Perché questo tipo di cinema dà fastidio, apre dei varchi e affronta argomenti "tabù", dando realmente diritto di parola ai protagonisti della realtà, in questo caso i lavoratori. È questo il problema politico che deve essere sciolto, il resto viene da sé. Purtroppo è una contraddizione lacerante tra le belle parole vuote e senza senso della politica attiva che quotidianamente calca i palcoscenici dei talk show e la realtà che è lontana mille miglia da quel teatrino. Non vogliono che la realtà riprenda il diritto di parola. Vedremo mai Morire di lavoro al cinema? Segnali di attenzione da parte di esercenti ci sono stati, ma sono in attesa di proposte concrete. La cosa che mi ha colpito molto - ed è la prima volta che mi capita - è che si sia parlato così tanto di un mio lavoro prima ancora che fosse pronto. Abbiamo avuto tantissime richieste di proiezioni del film sul territorio (chi fosse interessato può scrivere all'indirizzo: [email protected]).

Il Manifesto 13/02/2008 Di Antonio Sciotto “Morire di lavoro”, il viaggio di Segre tra gli edili Un film prezioso, che dà voce agli operai e ai parenti delle vittime sul lavoro: le madri, le sorelle, le mogli raccontano in prima persona. Si inizia con il ricordo terribile della telefonata: «Ho fatto il suo numero e lui mi ha risposto "sono qui". Poi ha preso il telefono il suo capo, e mi ha detto: tuo marito è caduto». Nessuno chiama il 118, l'operaio torna insanguinato a casa: «Non voleva sedersi sul divano, per non sporcare». Dopo c'è il silenzio, la morte. Tanti cantieri in Italia, nessuno può immaginare l'umanità che si muove dentro ogni giorno, la paura costante di farsi male e l'impossibilità di rivendicare più sicurezza, una paga equa, il rispetto: «C'è paura, solo paura - racconta un immigrato - Se ti fai male non si chiama mai l'ambulanza». Non solo i capetti e i caporali, ma gli stessi colleghi, lo fanno figurare come un incidente di moto, accaduto a chilometri di distanza. Un'incredibile congiura dell'omertà. Un operaio senegalese, morto a Torino, lo hanno riportato sul suo letto, lo hanno spogliato e lasciato lì: il coinquilino lo ha trovato già morto. Sono sconvolgenti gli spaccati d'Italia raccolti da Daniele Segre nel documentario «Morire di lavoro», eppure tutti noi dovremmo sapere quello che rischiano (e soffrono) i tanti operai edili che costruiscono le nostre città. Il film è prodotto da «I Cammelli s.a.s.» con «Piemonte Doc Film Fund», e il sostegno della Fillea Cgil. Ieri è stato presentato da Articolo 21 e Uniti a sinistra, con l'auspicio, fatto proprio dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, che possa essere mandato in onda in una prima serata Rai. Segre ha sentito proprio gli «ultimi», gli immigrati che lavorano in nero, i tanti italiani che si spaccano la schiena per 12-14 ore al giorno per 50 euro. Soprattutto quando hai più di 50 anni e per il mercato del lavoro sei solo un «rifiuto». Quanti operai sentiamo morire a 55, 60, 65 anni: sono nei cantieri perché incredibilmente low cost, ti fanno 14 ore di lavoro («dalle sei di mattina alle otto di sera, esco con il buio e rientro con il buio») per soli 30 euro. Quanto vale un'ora di lavoro in questo modo? Poco più di due euro. E dire - lo ricorda un operaio del Senegal - che «anche a un elefante basta una giornata per morire». Ma a noi, continua lo stesso edile, ci bastano due ore. Ecco che il documentario è anche un magico incrocio di dialetti (con tanto di sottotitoli), dal napoletano al bresciano stretto, a raccontare di un'Italia che muore e non si rivolge alle autorità dal Manzanarre al Reno. «Quann'arriva l'ispettore, se fuje: in copp'ai balconi, p'e scale, dentro' e case». «Lo sappiamo che vengono per noi, ma se ci trovano poi il capo ci toglie il lavoro». E così i primi a non raccontare quello che subiscono sono proprio loro, gli operai che cadono, e i compagni, impauriti, spesso vigliacchi: i parenti fanno difficoltà a raccogliere le testimonianze ai processi, nessuno spiega quello che è successo quando tuo figlio, tuo marito, tuo fratello è caduto. E si infortunano anche le donne: una restauratrice racconta di una caduta in una buca. «E io che sognavo di recuperare gli affreschi col pennellino, invece finisci a portare carichi nei cantieri». L'infortunio? Va segnato come malattia, lo chiede «u'mast», il capomastro. Alla fine del documentario, una piccola luce: un ragazzo che ha avuto la gamba maciullata da un carico vorrebbe tornare al cantiere perché, spiega, «il mio sogno è guidare un escavatore», e ha trovato il motivo per ripartire nella sua fidanzata. In questa Italia così crudele c'è spazio anche per i sogni.

La Repubblica 13/02/2008 Di Paolo D’Agostini Segre: i miei film sono spot per la dignità di tutti i lavoratori Fausto Bertinotti presidente della Camera dei Deputati, che ha ospitato l'anteprima del film di Daniele Segre “Morire di lavoro”, ha auspicato la possibilità di vedere un documento come questo in prima serata televisiva. Per contrastare "l'invisibilità" di opere come questa e soprattutto del suo argomento, degli esseri umani di cui si parla, dei lavoratori. Nel rispetto della nostra Costituzione, quarantennale proprio nei giorni scorsi, e del suo articolo 1: «L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». Non a caso il film si apre e si chiude sulle note dell'Inno di Mameli, in contrasto con quanto si racconta. Regista che da tanti anni insegue un modello di "cinema del reale" innumerevoli volte espresso nel documentare il mondo del lavoro, Daniele Segre ha realizzato il film prima che il clamore dell'incidente alla ThyssenKrupp imponesse l'emergenza all'attenzione della politica e dei media. Tramite la collaborazione con il sindacato edile della Cgil ha potuto avvicinare più di cento persone, vittime di incidenti e familiari di vittime, in quattro zone d'Italia — Piemonte, Lombardia, Lazio e Campania — e filmare le loro testimonianze. A partire da quella di una donna che nell'arco di quindici mesi ha perso prima il figlio e poi il marito. Testimonianze di italiani ma anche di numerosissimi immigrati. Un lavoratore africano denuncia, anzi autodenuncia la mancanza di coraggio. Il coraggio di "parlare", dice, e di esigere il rispetto dei diritti e delle regole. Perché si tratta sempre di incidenti capitati in situazioni irregolari, illegali. Dove non vengono rispettate le norme di sicurezza e contrattuali. E i lavoratori precari dei cantieri e delle costruzioni, sotto ricatto, tacciono per andare avanti. Non chiamano l'ambulanza, non vanno in ospedale, dichiarano malattia piuttosto che infortunio. Un po' come racconterà, quando uscirà in marzo, il nuovo film di Paolo Virzì sui call center (e ricordiamo che sul lavoro si possono vedere nei cinema il documentario di Ascanio Celestini "Parole sante" e il film di Wilma Labate "SignorinaEffe", e proprio domani in tv "In fabbrica" di Francesca Comencini. Mentre a fine mese inizierà a girare l'Italia lo spettacolo teatrale di Stefano Mencherini "Il pane loro. Storie da una Repubblica fondata sul lavoro"), la morale è: la storia dei diritti sembra aver fatto molti passi indietro. «Perché muoiono tante persone?», si chiede accorata un'altra testimonianza, «mica siamo in guerra!». Il regista, che ha presentato l'inchiesta con la collaborazione di "Articolo 21" e "Uniti a sinistra” a dichiarare con evidenza la sua collocazione politica («Sono di sinistra e mi offende che si dica "radicale", non sono un estremista»), non sa che destino avrà “Morire di lavoro”. Ha voluto iniziare il cammino da due luoghi simbolici, dice, la Camera dei Deputati (con la benedizione di Bertinotti) e, la sera stessa, con una seconda anteprima alla Casa del Cinema di Roma, presenti il ministro del lavoro Damiano, il segretario generale Cgil Epifani e altri leader sindacali. Non sa però che destino potrà avere il film, dopo aver fatto tutto quello che poteva («Ma non con il cappello in mano») per sollecitare chi secondo lui dovrebbe interessarsi all'uscita nei cinema (Luce) e televisiva (Rai). La rete culturale, sociale e scolastica, quella sì, è già in moto con molte richieste da varie località d'Italia. «Perché non immaginare — dice — una prima serata televisiva non per il mio film, ma dedicata al lavoro?». «Se si vuole si può» è lo slogan di Segre che dice: «Non avrei voluto fare un film del genere, calarmi come ho fatto nel dolore». Ma l'indignazione è sempre stata la sua molla. E il compito che si è dato è quello di «pubblicitario dei lavoratori: promuovo la dignità».

La Stampa 12/02/2008 Di Daniele Segre Morire di lavoro: viaggio all’inferno Ricevo la telefonata da mio marito, stavano venendo a prendermi, mio figlio si era fatto male...». La signora Franca Mulas Sonzogni parla all'inizio del mio film Morire di lavoro, di una telefonata che cambia la vita, che la distrugge. Lei ne ha ricevute due: 15 mesi dopo è morto anche il marito, in un cantiere di Varese. Il volto e la voce di questa donna, come di altri familiari di lavoratori deceduti, parlano dallo schermo del film, in proiezione alla Camera dei Deputati. Di questa occasione sono grato al Presidente della Camera Bertinotti che ha accolto la proposta delle Associazioni Articolo 21 e Uniti a Sinistra affinché la prima del film potesse avvenire alla Camera; è un momento importante, rafforzato dalla delicata fase politica che attraversa il nostro paese. E' da qui che inizierà la vita del film: sono infatti già arrivate tante richieste di proiezione. Sarà lei, Franca, la prima madre e moglie fra le molte che ho incontrato tra Lazio, Campania, Lombardia e Piemonte, a raccontare; poi Agnese, che ha il marito in coma irreversibile: «... credo che il coma sia una cosa peggiore della morte, perché alla morte viene un momento che ti rassegni... Vai davanti a una lapide, a una fotografia e poi torni a casa. Ma io vado tutti i giorni a trovare mio marito: adesso, per andare a Canelli, faccio circa 100 chilometri al giorno, tutti i giorni...». E, sempre parlando del marito: «Ha fatto tante belle cose... Ad esempio, nella strada che da Lanzo porta a Caselle, c'è un sottopasso. Quel sottopasso tutto in cemento armato, se passo lì sotto posso dire: "questo l'ha fatto Stefano con la sua squadra"». Morire di lavoro racconta anche l'orgoglio della professione, il rapporto fra compagni di cantiere; e le leggi eluse, i controlli inefficienti o scarsi, il «ricatto» cui viene sottoposto chi pretende che le norme di sicurezza siano applicate. Da molto tempo volevo fare un film sulle morti nei luoghi di lavoro; la molla determinante è stata l'impegno sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di dare visibilità e attenzione al mondo del lavoro e ai suoi drammatici problemi; ho deciso di realizzarlo e produrlo con la mia società di produzione I Cammelli dopo aver bussato a molte porte del sistema televisivo e cinematografico pubblico italiano, ricevendo silenzi imbarazzanti. Ho avuto il solo sostegno del Piemonte Doc Fund e la collaborazione del Sindacato Costruzioni Cgil. Il film è il risultato di un anno di incontri: un viaggio doloroso per portare un sostegno alla solitudine drammatica e vergognosa che da troppo tempo vivono i lavoratori e le loro famiglie. In un 2007 che ha visto la delibera da parte Onu, grazie all'impegno dell'Italia, della moratoria sulla pena di morte, nei luoghi di lavoro si è continuato a morire tutti i giorni: un operaio ogni sette ore, come condannati alla pena capitale o vittime di una guerra civile dove il «dio denaro» batte il tempo delle «non» regole. Un inferno in uno scenario di guerra civile che conta i suoi morti, i nostri morti, ogni giorno. I protagonisti di Morire di lavoro sono edili e familiari di edili morti in Italia. Dal Nord al Sud la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori è calpestata ogni giorno, la tristezza per questa condizione s'intravede nell'espressione degli occhi, velati di frustrazione; nei cantieri i lavoratori non hanno il diritto di parola e vivono l'angoscia di perdere il posto di lavoro. Per me questa umanità sconfitta e dolente rappresenta la vera Italia, quella che lavora e fa figli fra mille difficoltà. Tra l'altro nella maggior parte si tratta di famiglie numerose che dovrebbero essere premiate per la capacità di vivere e resistere con pochi soldi; per non parlare dei sopravvissuti agli incidenti, molti dei quali non sono più in grado di lavorare o di svolgere al meglio le proprie funzioni professionali; e per non parlare delle vedove e degli orfani. Il mio film vuol colpire le coscienze dando elementi di conoscenza narrati in prima persona dai protagonisti, per capire il perché si muore sul lavoro, che cos'è il lavoro, cosa è la mancanza di sicurezza, chi sono le lavoratrici e i lavoratori, come vivono, quali sono i loro problemi di vita e professionali. Vorrei che questo viaggio potesse arrivare in tutte le case degli italiani, magari in prima serata su Raiuno, senza pubblicità, in una trasmissione dedicata alla sicurezza nel mondo del lavoro. E poi nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle sale cinematografiche. Ecco, per me con il film Morire di lavoro inizia il vero viaggio, per contribuire al riconoscimento della dignità dei lavoratori, che devono essere rispettati, garantiti e difesi dall'illegalità, devono andare a lavorare tranquilli e con legittimo orgoglio. E' proprio quello che chiede Antonio, operaio edile di Napoli: «Nei cantieri si vedono cose allucinanti, la televisione ogni giorno ti dice che è morta una persona, due persone, tre persone. Perché muore tanta gente? Mica siamo in guerra, noi andiamo a lavorare, vogliamo rispetto, rispetto nei cantieri. Vogliamo tornare tutte le sere a casa».

L’Avvenire 13/02/2008 Di Luca Liverani TROPPI MORTI SUL LAVORO. FILM DENUNCIA DI SEGRE L’incubo comincia con una telefonata. Quella che annuncia alla moglie, o alla madre, che in cantiere c'è stato un incidente. E che Salvatore - o Ahmed o Christian - è grave. Molto grave. Le prime inquadrature sono per loro. Le mogli, le madri degli operai vittime di infortuni. Poi ci sono i protagonisti, primi piani di facce stanche, tirate, logorate. Manovali che raccontano come una vita di paghe non corrisposte, di rischi, di contributi mai versati, di promesse non mantenute, di precarietà cronica, di ricatti, di silenzi porta inevitabilmente all'incidente. È una dolente catena di volti il film di Daniele Segre “Morire di Lavoro”, film inchiesta presentato ieri alla Camera alla presenza del presidente Fausto Bertinotti. Una pellicola già prenotata da scuole è sindacati, ma ancora in cerca di uno sbocco nei cinema o in tivù. Tanto che Pietro Folena. presidente prc della commissione Cultura, assieme al democratico Giuseppe Giulietti, chiedono al servizio pubblico di trasmetterlo «al più presto e in prima serata». Stessa richiesta da Renata Polverini, segretaria generale dell'Ugl, il sindacato vicino ad An. “Morire di lavoro” racconta la piaga intollerabile degli infortuni, focalizzando l'attenzione sul settore edile: 235 morti nel 2007, sui circa 1.300 l'anno. Il film - prodotto da I Cammelli, società dello stesso regista, col sostegno del Piemonte Doc Film Fund e il contributo della Fillea-Cgil - si apre con il racconto delle donne. Una è Franca Mulas Sonzogni, che in quindici mesi ha perso figlio e marito. Dopo la prima tragedia aveva segnalato alla Asl che quei ponteggi erano traballanti. La Asl le ha scritto, dopo il secondo lutto, per scusarsi della mancata ispezione: non abbiamo personale. Un'altra è Agnese Aggio, che il marito ce l'ha ancora, ma in coma irreversibile. Il film racconta un'Italia apparentemente scomparsa da decenni, ma che invece esiste e soffre, sistematicamente ignorata dai mass-media e dagli operatori culturali. Qualche volta i riflettori si accendono: «Come sula ThyssenKrupp - dice il registra Segre - ma non basta a produrre quel cambiamento auspicato da tutti. Il rischio è quello di avere un altro argomento, un altro "caso" da affrontare nei talk-show e nei bar: c'è stato Cogne, Garlasco, Perugia e ora Torino». Gli operai raccontano con accenti settentrionali, meridionali, magrebini, balcanici, africani. Per chi non c'è più, una voce fuori campo. Raccontano dei 50 euro al giorno per 12 ore di lavoro. Cominciano che è ancora buio, staccano che è già buio. Senza caschi, guanti, cinture di sicurezza. Li indossano quando si sa che è attesa l'ispezione. Quando arrivano i - rari - controlli a sorpresa, è un fuggi fuggi: «Non dovremmo scappare, loro vengono per noi. Ma se ti prendono, non ti fanno più lavorare». E poi la paga che non arriva mai: «Ogni volta devi litigare». Quando c'è l'infortunio, niente ambulanza. A casa: «All'ospedale ho detto che ero caduto attaccando la tenda». È così se vuoi continuare a lavorare. «Perché muore tanta gente? Mica siamo in guerra». Lavoro nero, un contratto, disoccupazione, ancora lavoro nero: «Quando sei vecchio hai messo assieme sì e no 20 anni di contributi. Sai quanto prendi di pensione? Niente». «Spesso sono famiglie numerose - racconta Segre - che dovrebbero perlomeno essere premiate per la capacità di sopravvivere con i pochi soldi che guadagnano».

Liberazione 13/02/2008 Di Roberta Ronconi IL CINEMA TORNA “AL LAVORO” NEL DESERTO DELLO SHOW Lo abbiamo già scritto, lo riscriviamo. Il cinema in questi mesi sta coprendo un buco di memoria e di attenzione dell'intero paese. Si sta facendo carico di riportare alle nostre memorie e ai nostri occhi la storia, le storie, di chi questo paese lo ha fatto, lo ha nutrito, con le proprie mani, con il proprio lavoro. Un dovere che il cinema si è assunto e spesso nei suoi autori più marginalizzati, nei suoi autori più caparbi. Quelli che, come Daniele Segre, dopo aver fatto proposte per due anni a tutte le autorità possibili, televisioni di stato ed enti di stato anch'essi, e averne ricevuto dinieghi ha preso i suoi soldi e si è prodotto il suo film. Si intitola Morire di lavoro, racconta di morti bianche, non ha altri produttori oltre lui, non ha distributori, non ha attualmente futuro. Però ieri lo abbiamo potuto vedere (grazie alle pressioni di Articolo 21) nella sala del Cenacolo del Parlamento, assieme al presidente della Camera Fausto Bertinotti e alla signora Franca Mulas, che sulle impalcature ha perso un figlio di 22 anni e un marito di 41. Cosa sarà domani, di “Morire di lavoro” per ora non è dato saperlo. Più fortunata Francesca Comencini, a cui la Rai Teche diretta da Barbara Scaramucci ha commissionato “In fabbrica”, che andrà in onda il 14 febbraio su Raitre, ma già bollato dalle proteste di chi sostiene che sia un lavoro capzioso, di parte, privo di contraddittorio e del sangue fatto scorrere, anche in fabbrica, dalle Brigate rosse. Di chi lo ha già marchiato come l'ultima cena del governo uscente, l'ultima mangiata di soldi, spesi a ufo per ricordare una classe operaia già morta e sepolta. Buona solo per i santini dei comunisti. Ad arrivare in sala ce l'ha fatta Wilma Labate, con la sua Signorina Effe, che però - diciamo - gli osservatori non hanno trattato con i guanti. Ma ci sono anche Ascanio Celestini, Silvio Soldini, Guido Chiesa, Roberto Dordit. Con prepotenza, forza e anche coraggio sono tutti autori che in questi mesi tentano di imporre il mondo del lavoro passato e presente come soggetto forte di riflessione e confronto all'intero paese. Ma chi con il paese dovrebbe fargli da tramite, ignora l'invito e volta la testa dall'altra parte. N emmeno si fossero m e s s i d ' a c c o r d o . C o m e n c i n i S e g r e L a b a t e Celestini e altri sembrano essersi divisi i pezzi del puzzle. Tutti insieme, i loro film ci restituiscono un quadro piuttosto esaustivo di cosa sia stato e di cosa sia oggi il mondo del lavoro in Italia. Soggetto che, ricordiamo, apre la nostra Costituzione dove viene proclamato elemento fondante della nostra Repubblica e della sua democrazia. Ad avviare l'ipotetica visione è senz'altro “In fabbrica” di Francesca Comencini (in onda il 14 febbraio, in seconda serata su Raitre) che, grazie ai materiali Rai e al contributo dell'Archivio del movimento operaio ricostruisce la nascita stessa della fabbrica in Italia. Quando andare a lavorare al nord significava abbandonare i campi e le famiglie e sognare una casa e le scuole per i figli. Giovani donne e contadini che mescolano i vecchi accenti meridionali ai nuovi del bergamasco, le vecchie pettinature ai nuovi abiti, il passato di miseria a un presente povero ma ricco di sogni. La fabbrica che chiama con le sirene, un fiume umano che entra in bicicletta e a piedi, le macchine gigantesche che aspettano di essere avviate da mani sapienti. E poi la notte a dormire in stazione, con la valigia accanto. E' il decennio dei Cinquanta, la fabbrica è l'emblema della riscossa di un intero paese, ogni sacrificio è sostenuto dalla speranza. Nei Sessanta le cose iniziano a cambiare, le mani sono stanche e i cervelli davanti alla catena cominciano a cedere. Iniziano le lotte, si forma la coscienza. Comencini lascia che a raccontare siano i documenti, le voci degli operai e delle operaie. Solo a tratti il commento della regista storicizza i passaggi. Nei Settanta la battaglia si fa sempre più dura, l'atmosfera si incupisce fino a culminare nel corteo dei quarantamila colletti bianchi. Con il passare dei decenni il documento di Comencini va scemando i materiali delle Teche sembrano impoverirsi, fino a giungere frettolosamente a un presente di reparti colorati, dove l'elemento umano è scarno ma ben inserito, la dignità apparentemente recuperata e l'attenzione dell'autrice tesa più che altro a testimoniare una presenza operaia ancora viva anche se ignorata. Gli anni Ottanta appena sfiorati da Comencini sono il cuore pulsante del film di Wilma Labate, la cui “Signorina Effe” è concentrata tutta lì, sui 35 giorni di sciopero che porteranno alla manifestazione dei "capetti" e poi al rientro in fabbrica a testa bassa. Quel momento che in tanti hanno definito come il punto esatto dell'inizio della fine. Da allora in poi gli operai non saranno più una classe, ma solo forza lavoro in via di disgregazione. Del presente, Labate non ha percezione tanto che il suo film cade proprio (e solo) lì, in un oggi a cui la regista non offre alcuno sguardo personale e che nulla ci racconta dell'avvenuta trasformazione. La staffetta passa nelle mani di Daniele Segre proprio in quel momento. Per recuperare dall'oblio di un ventennio volti e storie, Segre si serve di cinema puro. Facce in primo piano, luci di taglio che offrono profondità, voci con sottotitoli quando si esprimono in dialetti troppo stretti. Le poche immagini esterne sono con camera fissa, quadri urbani, contesti alieni. Uomini e donne raccontano. Delle telefonate e dello shock, delle frettolose bugie, delle ultime parole. Prima di sapere, prima di capire che un figlio o un marito o un compagno a casa quella sera non torneranno. Tante storie, simili a quelle che leggiamo ogni giorno sui giornali in notiziole. In televisione difficilmente arrivano ad avere un corpo, più spesso solo un titolo. Segre restituisce invece i visi, le consistenze umane. Il contesto è principalmente quello dell'edilizia, un mondo fatto di 830mila imprese iscritte alla Camera di commercio di cui

550mila attive (in Germania sono la metà). Il 98 per cento del totale ha meno di 15 dipendenti, spesso solo due o tre. E' un mondo fatto quasi esclusivamente di lavoro nero e caporalato. Se vuoi un po' di sicurezza è meglio che il caschetto e i guanti te li compri da solo. Nel 2007, gli incidenti sul lavoro (secondo le stime Inail e Fillea-Cgil) sono stati 915mila di cui 965 mortali. Un terzo di morti appartengono all'edilizia. Segre però non fa numeri né commenti. Gli 89 minuti di “Morire di lavoro” sono tutti per loro, per i testimoni e i sopravvissuti, per i malati e peri morti. Per restituire a tutti loro la dignità di poter esistere e testimoniare. Il minimo, per una Repubblica fondata sul lavoro. Il minimo, per una Rai (pubblica) mandarlo in onda. Lo chiede il presidente Bertinotti, i giornalisti di Articolo 21, i tanti sindacalisti che ieri lo hanno visto in anteprima a Roma. Ma lo chiede soprattutto l'etica di un servizio pubblico a cui non dobbiamo permettere di voltare, ancora una volta, la testa da un'altra parte.

L’Unità 13/02/2008 Di Gabriella Gallozzi Morti sul lavoro, i volti del dolore Ci sono parole che pesano come macigni sui lavoratori: fretta, subappalti, caporalato, omertà, precarietà, lavoro nero, sicurezza negata e ancora e, soprattutto, fretta. Sono le parole chiave che snocciolano come in un rosario i tanti protagonisti di “Morire di lavoro”, il film di Daniele Segre sugli omicidi bianchi che ieri (sostenuto da Articolo 21 e Uniti a sinistra) ha cominciato il suo cammino a partire dalla Camera dei Deputati (in serata, poi, alla Casa del cinema con i leader dei tre sindacati) e da domani sarà in cantieri e fabbriche, e magari in futuro nei cinema (distribuzione autarchica), mentre in tv no. La Rai proprio non ne ha voluto sapere del film, come racconta lo stesso regista che dice di aver bussato fino ai piani più alti di viale Mazzini. Con buona pace, evidentemente, dei tanti inviti istituzionali (Napolitano in testa) rivolti al servizio pubblico per dare più spazio a certi argomenti. Ultimo quello di ieri mattina del presidente della Camera Bertinotti che, ritenendo «ineludibile» la «centralità del lavoro nella prossima legislatura», ha sollecitato la Rai a trasmettere in prima serata “Morire di lavoro”. Via dunque alle testimonianze. O meglio alle esistenze «agre» o alle vite spezzate del film di Segre, dove i tanti volti dei lavoratori, primi piani secchi su fondale nero, compongono un mosaico agghiacciante, una mappa Nord/Sud di un'Italia in cui c'è un morto ogni 7 ore e in cui, a queste condizioni, «morire di lavoro» non può che essere la normalità. «Vado ai lavori forzati», racconta un manovale napoletano che prende 50 euro al giorno anche per 17 ore di lavoro. Tutto in nero, ovviamente. «Il contratto?», dice, «È quello che ti fanno a voce e ogni volta per avere i soldi sono litigate». Le condizioni, poi, sono in totale mancanza di sicurezza. Né un casco, né una corda. Cose che arrivano, invece, quando si annunciano le ispezioni. «Quando arriva l'ispettorato - dice un altro - non so come ma lo sanno sempre prima i padroni. E allora ti dicono: mettiti la cintura, mettiti il casco...». «In cantiere ti manca il coraggio di dire basta», riflette ancora un carpentiere del Sud, «quando hai i figli e la famiglia da mantenere devi accettare tutto». Pure di camminare su un tetto con una pendenza al 70% senza neanche una corda, come testimonia un altro, senza neanche raccontarlo in famiglia «per non farli preoccupare». È cadendo, infatti, che si muore di più. Come è successo al figlio di questa donna che racconta con gli occhi segnati e il volto scavato. Ad annunciarlo la telefonata di rito. Poi il marito di quest'altra: «L'hanno riconosciuto dalle scarpe» tale era ridotto il corpo. E Fausto allora? «L'hanno pure lasciato a terra», racconta la moglie, giovanissima, una ragazzina quasi. «Nessuno l'ha aiutato - prosegue - anzi, certi colleghi hanno detto di non conoscerlo ed erano pure venuti al nostro matrimonio». Quanti, infatti hanno paura di parlare. E quanti altri denunciano «l'incidente» fuori dal cantiere per paura delle ritorsioni. Per gli immigrati, poi, è ancora peggio. «In Senegal - recita una voce fuori campo - si dice che anche ad un elefante basta un giorno per morire. Non avevo mai capito il significato. Sono dovuto venire in Italia per capirlo. Qui ci vuole molto meno di un giorno: io sono morto in meno di due ore e neanche mi hanno portato all'ospedale». Per gli africani ci sono insulti e parolacce, racconta un ragazzo di colore: «Le posso dire? Negro, bastardo....». E aggiunge: «In Africa avevo sempre studiato e quando sono arrivato qui, in cantiere, non sapevo fare nulla». Tanto i lavori si «improvvisano»: oggi carpentiere, domani escavatorista, dopodomani manovale. L'unica cosa che conta, spiegano tutti, quasi in un coro, è «la fretta». Ed è quella che ammazza. Quella che t'impongono i lavori in subappalto, i caporali. «Che puoi fare davanti a quelli ? - dice un altro operaio - soltanto stare zitto e lavorare. Il caporalato non ha una cittadinanza fissa, puoi trovare il kosovaro, l'italiano, l'egiziano. E’ una guerra». Ma noi, conclude, «non vogliamo andare in guerra. Andiamo al lavoro e la sera vogliamo tornare a casa».

Cineforum 27/07/2008 Tullio Masoni e Paolo Vecchi INTERVISTA A DANIELE SEGRE La sinossi ufficiale di Morire di lavoro recita: «un film documentario che indaga la realtà del settore costruzioni in Italia, protagonisti i lavoratori e i familiari di lavoratori morti sul lavoro. La trama narrativa si sviluppa attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, ripresi in primo piano, che guardano in macchina. Altro elemento espressivo sono le voci di tre attori, due italiani e un senegalese, che interpretano ciascuno il ruolo di un lavoratore morto in cantiere...» La nota è esaustiva e basterebbe a introdurre l'intervista. Vogliamo comunque aggiungere un'osservazione. Segre definisce, col film odierno, la nuova tappa di un percorso che potrebbe prolungarsi per un tempo indefinibile. E' il suo stile di lavoro; un modo che noi stessi, recentemente, abbiamo accostato a quello di Chris Marker: «Segre ha perseguito l'utopia del dire e del mostrare con verità (esaltando il rischio di un approccio inevitabilmente parziale) contro la pornografia telegiornalistica imperante e senza chiudersi in una maniera (...) Con la sua ironia elegante, in un'intervista di parecchi anni fa, Resnais attribuiva all'amico e collaboratore Chris Marker il dono dell'ubiquità: opera in posti diversi nello stesso momento ma non lo si incontra quasi mai. Per Segre è un po' lo stesso: non sappiamo con precisione in cosa sia impegnato e dove ma sappiamo con certezza che lavora e che, presto, ce ne darà conto». (1) Lo farà ricorrendo all'urgenza, o alla fretta zavattiniana, potremmo aggiungere, e con la lentezza che occorre per contrastare le derive di un cinema povero quanto affannato e la sconfortante semplificazione mediatica dell'oggi. Come ti è venuta l'idea del film? Ce l'avevo in mente da molti anni, ma sono sempre stato costretto a rinunciare per mancanza di ascolto da parte dei possibili produttori. Finchè nel 2006, col famoso richiamo del Presidente della Repubblica, ho sentito il bisogno di tornarci sopra. Ho provato a verificare con la Rai, ma non ho avuto nessun riscontro da parte del direttore di Rai3 Paolo Ruffini, così sono partito da solo. Poi, sempre alla Rai, sono tornato con la proposta, ma il servizio pubblico radiotelevisivo ( è ancora un servizio pubblico? ) mi ha opposto indifferenza se non addirittura arroganza. Il sindacato costruzioni CGIL, la Fillea, mi è venuto in aiuto collaborando sul piano organizzativo-logistico; questa collaborazione mi ha permesso di incontrare lavoratori del settore edilizio - avevo deciso di circoscrivere il campo di indagine per tenermi agganciato ad alcune costanti ed evitare le dispersioni – e famigliari. Poi c'è stato anche il sostegno del Piemonte.... La produzione, a ogni modo, è stata interamente sostenuta da "I cammelli". Ma l'interesse per l'argomento? Beh...si può dire sia implicito a tutto il mio lavoro; non mi sono scoperto all'improvviso come il paladino della povera gente. Certo: leggere ogni giorno questo bollettino di guerra, sapere che ogni giorno ci sono quattro morti sul lavoro, toccare con mano l'arroganza di chi dovrebbe dare garanzie e la logica del profitto, assistere allo sfascio di un paese che sarebbe tutto da commissariare: da Trenitalia all'Alitalia...tutto questo, dopo una carriera interamente dedicata all'impegno sociale, ha dato una ulteriore scossa alla mia coscienza civile. E' stato un altro dei miei viaggi: per fortuna l'ho fatto. Rifiuti e indifferenza invece di abbattermi mi hanno ancor più motivato. La situazione, poi, è davvero drammatica. Qui non si parla di "pensiero debole", si parla di gente che muore tutti i giorni. Il mio strumento, il cinema, ha solo offerto visibilità a ciò quotidianamente viene negato. Ho solo fatto il mio dovere. Come hai selezionato storie e personaggi? Attraverso la Fillea, che ha fatto circolare la notizia nei cantieri, i lavoratori e i famigliari sono stati informati. Chi se l'è sentita di dare un contributo di conoscenza alla questione si è messo in lista e io l'ho incontrato al momento di fare le interviste. Così, dal confronto e dall'ascolto, sono venute fuori le storie da raccontare e i personaggi. Da che regione hai cominciato? Ho cominciato dal Lazio, proseguendo poi con la Campania, poi con la Lombardia, e da ultimo, nel novembre 2007 col Piemonte. La lavorazione, le riprese, ecc, sono cominciati dal marzo-aprile del 2007 e sono poi proseguite nel novembre 2008. La tragedia della Tyssen-Krupp mi ha ovviamente spinto ad accelerare i tempi di lavorazione; il film non doveva più essere pronto, come avevo programmato, nella tarda primavera. Ho finito prima, così ho anche avuto l'onore di un'anteprima alla Camera dei deputati il 12 febbraio 2008 e un'altra l'11 marzo al Parlamento europeo di Strasburgo. La realtà, purtroppo, è stata più veloce dei

programmi di lavoro e della produzione. Per starle dietro ho aumentato i ritmi miei montando da solo e gestendo in prima persona le inevitabili complicazioni. A ogni stazione del viaggio selezionavo il materiale e lo pre-montavo come se avessi dovuto fare non un film unico ma quattro film regionali. Quando sono arrivato in Piemonte e ho fatto selezioni e pre-montaggio, avevo già messo a punto una struttura quasi definitiva. Questo prima dell'Epifania. Poi ho chiesto un permesso di due settimane alla Scuola Nazionale di Cinema, dove ero impegnato come docente, e sono tornato a Torino per rivedere e dare gli ultimi ritocchi. Tenevo molto a che il film fosse, secondo il mio punto di vista, perfetto. Il film non doveva avere slabbrature, sia riguardo al racconto dell'identità-lavoro, sia per la problematica incidentistica. Mi riferisco all'incidentistica nell'insieme, non solo quella mortale, ma anche quella invalidante, quella che crea contraccolpi pesanti sia sul piano fisico che su quello del degrado mentale, psicologico. E' stata un'impresa molto impegnativa ma bella; ci ho messo tutta l'esperienza accumulata negli anni sulle problematiche sociali e, alla fine, il film è venuto come volevo: non ideologico, perché i miei film non lo sono mai stati, ma al tempo stesso capace di raccontare la dignità e l'orgoglio del lavoro. Poi, lo dicevo prima, avevo anche intenzione, restituendo la parola a chi se la vede negare da troppi anni, di porre il problema del servizio radiotelevisivo pubblico, ormai ridotto a regime. Ci sembra che tu abbia usato un "espediente" drammatico nuovo: alcuni personaggi appaiono dapprima come testimoni del lavoro, del mestiere e, ovviamente, del pericolo; poi ci accorgiamo che sono stati vittime di incidenti gravi, invalidanti. E' un'idea che avevi subito o ti è venuta durante la lavorazione? La struttura ha preso forma dopo le interviste, che non sono mai preordinate. Valutando la consistenza del materiale a disposizione ho messo a punto una forma di racconto in grado di disorientare uno spettatore già affezionato ai protagonisti per come, sulle prime, gli erano apparsi. Un modo per svelare la forza drammatica della realtà, insomma, evitando una piatta messa in scena della sofferenza. Lo stesso ho cercato di fare col racconto dei morti. Quei tre lavoratori, che di solito non sono neppure chiamati per nome, "parlano" in prima persona, spiegano l'accaduto. Il disorientamento di cui prima dicevo e questa restituzione di voce vogliono dare all'insieme uno specifico equilibrio drammaturgico e uno specifico significato. Non avevi mai usato la voce di un attore che parla, che racconta su immagini di esterno... No. Ma stavolta ho sentito il bisogno di ricorrere all'iconografia, cioè di rappresentare dei luoghi... Luoghi esemplari, cartoline: il Golfo di Napoli, il Duomo di Milano, la Mole Antonelliana, l'Altare della Patria a Roma. L'effetto è molto suggestivo. Hai utilizzato attori professionisti? Per Brescia mi ha dato la voce una attore che si chiama Luca Gotti, che ha lavorato allo Stabile di Torino ma che per vari motivi famigliari adesso svolge solo un'attività amatoriale. Per Napoli ho utilizzato un sindacalista, Ciro Giustiniani, che mi portava in giro per i cantieri, e che, ho poi saputo, nel tempo libero fa del cabaret. L'ho impegnato per tutta una domenica a studiare; soprattutto a tradurre e adattare in napletano il testo già predisposto. Per la parte del senegalese ha collaborato con me un giovane immigrato che adesso fa il mediatore culturale a Torino ma che a suo tempo ha fatto piccole esperienze teatrali. Sull'inquadratura dell'Altare della Patria hai messo l'inno di Mameli. Ricorda...di Lindsay Anderson, un bellissimo documentario sui mercati generali che inizia e finisce con l'inno nazionale inglese. A chi gli chiedeva se cercasse un effetto ironico o sarcastico Anderson rispose di no, lui voleva semplicemente celebrare il lavoro inglese. Vale anche per me. Facendo ascoltare l'inno io ho voluto sottolineare il contributo che i lavoratori in generale, e questi oggi, hanno dato e continuano a dare al progresso e alla crescita del nostro paese. Non a caso l'Altare della Patria è l'immagine di chiusura: loro, questi lavoratori, si sono immolati per il paese, sono caduti (spesso ignoti, di fatto) come tanti soldati rimasti vittime delle guerre. Avevo usato l'inno nazionale in un altro mio film: Andata e ritorno, nel 1984. Una banda un po' scalcinata, in un piccolo paese della Calabria, fra il primo e il quattro novembre, celebrava sia la festa dei morti che i caduti della Grande Guerra. Insomma l'inno dovrebbe trasmettere un senso di sacralità. La parte napoletana sembra la più vivace, anche dal punto di vista narrativo. Forse perché lì hai trovato persone più espressive naturalmente... Mah...anche gli altri...Certo i partenopei, in generale, sono straordinari...la loro umanità, la loro capacità di esprimersi dà brividi, emozioni, simpatia, tenerezza...I lombardi, invece, sono un po' più difficili da "aprire", come i piemontesi, del resto. Sì, certo, i partenopei hanno dato l'ossatura al film. Hanno convenuto subito con me che dovevano parlare la loro lingua, il dialetto. Se avessero parlato in italiano tutto il senso della loro presenza davanti alla mdp sarebbe stato stravolto. E' molto toccante anche la parte dei famigliari. E il pudore che hai usato per raccogliere la loro testimonianza.

Credo sia nel mio stile. Nel mio lavoro mi sono sempre addentrato nei drammi. La morte è sempre stata protagonista; le malattie degradanti o terminali, gli incidenti del sabato sera...Credo che la dignità sia un valore assoluto, non negoziabile. E credo anche che da un rapporto con essa dipenda il valore che va oltre il cinema e riguarda il grado di civiltà di un paese. Rispetto e basta. Quindi comprenderete che ogni volta in cui mi sono trovato in situazioni delicate, difficili e complesse - situazioni nelle quali il dolore delle persone ha superato una certa soglia - ho spento la cinepresa e non ho voluto scavare di più per evitare il rischio, facile, di cadere nella morbosità, nella violenza che dissacra l'intimità personale. Insomma c'è un codice etico da rispettare: facendo cinema e oltre. Un nostro amico psicoanalista, Cesare Secchi, considera il tuo film sull'altzeimer un capolavoro proprio per la leggerezza, il pudore, la delicatezza...E la capacità di far emergere le contraddizioni umane che si esprimono nel malato e in chi lo circonda. Il mio scopo è sempre trovare uno sguardo leale e obiettivo. Dire le cose come stanno. In Morire di lavoro non ho certo nascosto le responsabilità che, in qualche misura, riguardano anche i lavoratori. I lavoratori le scontano e ne subiscono le conseguenze talvolta per mancanza di cultura...In un certo senso il mio film è "al di sopra delle parti", cioè riguarda tutti nel momento in cui pone una questione etica davvero generale. Morire di lavoro vuole essere un film per il paese, perché solo attraverso il recupero della dignità umana questo paese "in mora" può recuperare se stesso. Ci sembra che anche questa volta, ma forse con intensità diversa, la tua esigenza etica trovi un giusto mezzo di stile: Alludiamo all'uso del primo piano frontale, che hai lungamente maturato negli anni. La signora coi capelli grigi, ad esempio, quella che fa cento chilometri ogni giorno per visitare il marito in coma irreversibile... Agnese Aggio, così si chiama. A un certo punto dice che il coma è peggiore della morte, perché con la morte tu puoi andare davanti a una lapide, guardare una fotografia...Ha ragione, perché da vedova potrebbe trovare una pace che il coma impedisce. Potrebbe elaborare il lutto, trovare un equilibrio... I piani assumono, ci sembra, un particolare valore iconico, una sacralità, per dirla con Pasolini. Poi impressiona l'intensità costante dell'immagine, il modo con la quale viene distribuita e offerta... Occorre considerare, riguardo a questo, l'uso che ho fatto del montaggio. La "materia prima", poetica, me l'ha regalata il destino, nel senso che le persone si sono espresse per quel che erano nel vivo degli incontri. Il montaggio mi ha permesso di mantenere la lucidità, e di evitare facili tranelli. Non a caso ho agito in progressione rifinendo man mano, limando, alla scopo di regolare oltre ai ritmi anche le emozioni. Ciò, senza nulla concedere al "veltronismo", ci tengo a sottolinearlo. Riguardo alla sacralità del primo piano frontale essa comincia nel momento in cui vivo fino in fondo la consapevolezza che gli occhi del personaggio si offriranno agli occhi dello spettatore. La consapevolezza oltre che mia sarà poi dello scambio maturo fra personaggio e spettatore e dell'autenticità dell'argomento. Per Morire di lavoro il primo piano mi serviva anzitutto per eliminare i fronzoli, poi ho pensato di alternare i primi piani con "quadri": gli anziani attorno al tavolo, i giovani sui gradini. Immagini quasi stereotipate: muratori in pausa pranzo, convenzionalmente, poi l'uso di sindacalisti come quinte come nella scena degli infortuni camuffati da malattie con quel ragazzo tatuato. E' fatto apposta: immagini iconografiche come quelle che si potrebbero usare per una rappresentazione a teatro. L'elemento forte, dentro questa struttura, credo però sia stato la scelta di far parlare i morti. Una scelta di carattere, di stile che dà impronta al racconto. Senza quella avrei fatto solo un documentario. Invece ho fatto l'appello e, all'appello mancavano i morti a cui ho voluto dar voce. Nel coro di questa tragedia contemporanea, allora, ci sono anche quelli che non avevano avuto parola: i morti. I testi sono sintetici, giusti. Qui ha giocato l'esperienza. Erano più lunghi, sono stati adattati in dialetto bresciano, in napoletano...è stato inserito il proverbio iniziale del senegalese. I primi piani li ho concepiti usando lampade molto comuni; però ho messo un fondo nero e non ho variato la cromaticità come in altre occasioni. Ho fatto una scelta di lutto: un panno nero come fondale che ha dato uniformità e coerenza fotografica senza penalizzare il valore espressivo dei personaggi. Col fondale nero, la dignità di una situazione di lutto viene ancor più valorizzata. Non hai dispersione cromatica, e così ottieni il massimo di concentrazione; sei sul personaggio, sul volto e basta. Tornando alla struttura, il film, sul piano narrativo e della gestione dei vari blocchi tematici, appare più elaborato di altri. Tanto che fa pensare a una maggiore complessità anche dal punto di vista produttivo... E' stato un esito naturale: intanto io mi sentivo del tutto responsabilizzato in una situazione non facile: ho detto delle barriere, dei rifiuti che mi hanno opposto...L'arroganza della Rai, che avevo scelto come unico interlocutore mi ha offeso anche considerando l'insieme del mio lavoro, l'impegno sociale, e la delicatezza con la quale ho cercato di affrontare argomenti complessi...Poi c'erano le difficoltà produttive, come avete immaginato. In un primo momento non ero sicuro di avere la forza di sopportare tutto l'onere da solo...La

mia società, I Cammelli, esiste dal 1981 e me la sono sempre cavata, ma Morire di lavoro mi imponeva un'esposizione particolare: andare in giro per l'Italia, soggiornare...Non sono ricco, lo sapete, ho una famiglia a cui devo provvedere per la mia parte, una società che ha i suoi costi fissi...Però, ripeto, avevo anche la carica particolare che viene dalla consapevolezza di operare "nell'interesse del paese". Morire di lavoro non è un film come Mitraglia e il Verme o Vecchie... Certo è una costruzione molto più laboriosa... Ma che si è definita, come dicevo, naturalmente. Sono partito dagli incidenti, ma poi volevo allargarmi sul lavoro, approfondire il tema. Volevo scoprire, capire come si fa il muratore. Il film si concentra sul lavoro edile, sui cantieri. Ebbene, del mondo delle costruzioni io avevo una conoscenza molto superficiale. Adesso se mi trovo davanti a un ponteggio esercito un'attenzione precisa, ho acquisito una specie di occhio clinico: mi accorgo subito se il pontaggio non è stato costruito a norma, valuto la sicurezza dei lavoratori...Adesso conosco meglio la materia grazie a tutto quel che i lavoratori mi hanno raccontato. Pensate che il montaggio mi ha costretto a sacrifici dolorosi: scegliere una cosa invece di un'altra non meno utile all'economia del discorso. Al Festival di Torino, quando ancora eri impegnato sulla parte piemontese, in conferenza stampa hai fatto l'ipotesi di una versione a capitoli regionali... Sì, ma più che altro tenere in mente il lavoro fatto in una regione mi è servito per mettere a punto, progressivamente, il quadro nazionale. Sapevo sempre, durante la lavorazione, fino a che punto ero arrivato e a quale grado di profondità. Insomma il film è venuto fuori gradualmente e gradualmente ha assunto spessore: come se, man mano che procedevo, si perfezionasse dando evidenza a quel che s'era ordinato, appuntato nella mia testa. Poi, con la tragedia della Tyssen, ho accellerato i tempi e mi sono sottoposto a un tour de force "di fabbrica": turni e straordinari. E' un film polifonico. Più polifonico di altri, anche se si avverte sempre la tua soggettività... E' vero. Tanto che posso dire di aver immaginato i personaggi come i personaggi di un coro in un melodramma, in un'opera tragica. Ne ho parlato anche coi miei più stratti collaboratori: un coro, una tragedia contemporanea. Quanto alla soggettività, credo di aver messo nel lavoro una tensione, e una rabbia anche, che all'inizio, quando portavo in giro il film, faceva velo a quella che credo sia la verità di fondo: io sono uno dei personaggi che non compaiono, sono un'appendice, sono uno di loro. Ma, nel tuo lavoro, quanto conta la preparazione (la razionalità) e quanto l'intuizione. La razionalità è fondamentale; è un supporto strategico sia per definire un disegno produttivo che per la creazione. Il tutto però è regolato da un istinto attraverso il quale la scelta si impone. In apparenza molti miei film nascono dalla casualità: lo stimolo arriva dalla Tv, da una notizia letta su un giornale, da un appello del Presidente della Repubblica... anche il rapporto con i personaggi e con gli attori si definisce partendo dall'intuizione; Vecchie è nato in una sera in trattoria e il mese dopo era pronto. Non so spiegare...Mitraglia e il Verme si deve all'osservazione di un particolare a casa di uno dei protagonisti, Stefano Corsi...dopo mezz'ora avevo già in testa il titolo del film...E' un fenomeno psicologico attraverso il quale le cose vengono fuori in una forma quasi compiuta. Ma con l'immediatezza c'è anche la fiducia di chi lavora con me o da me si lascia interrogare. Non tradisco. Per esempio, tornando a Morire di lavoro: quell'uomo di Napoli che ha perso un braccio nell'ingranaggio, per venti minuti, quando abbiamo cominciato a girare , era bloccato. Non so bene come sono riuscito a sciogliere la sua tensione ma poi è successo. Io ho insistito - sapevo che l'infortunio lo aveva portato sull'orlo della depressione - e l'ho fatto cercando di essere gentile e rasserenante ma, al tempo stesso, di attribuire alla sua testimonianza tutta la necessità che aveva. Di farglielo sentire. Così ha capito che doveva rivisitare il suo dramma con coraggio: E' difficilissimo farlo, soprattutto davanti alla macchina da presa. Devi superare un dolore sapendo che altri se ne accorgeranno, e devi aver chiaro che questo è un atto di elevata responsabilità. 1)Tullio Masoni e Paolo Vecchi, Un cinema con, un cinema per, un cinema contro. L'attitudine maieutica di Daniele Segre, in, Angela Gregorini, a cura di, Un'amorosa visione. Il cinema della realtà fatto da ragazze e ragazzi, Il lavoro editoriale, 2008, pag. 70.