Scienze della religione e dialogo interreligioso

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ruoli sociali (sociologie della religione), degli influssi culturali (antropologia della ... scientifico", cui si è ispirata, soprattutto, la nuova antropologia delle religione.
INTRODUZIONE 1.

La nuova sfida mondiale delle religioni

In una società mondiale, sempre più plurietnica e pluriculturale, la rinnovata vitalità delle religioni solleva sfide impreviste per la chiesa, gli umanesimi e la cultura. Alla Chiesa chiede di "ripensare" la sua cattolicità (universalità), i suoi crescenti vincoli di solidarietà con il genere umano e il suo rapporto con i miliardi di persone, salvate in Cristo, che cercano Dio. Agli umanesimi mostra l'obsolescenza delle chiusure immanentiste e il potere liberante dei valori trascendenti. Alla cultura, già convinta della definitiva scomparsa della religione, chiede di scoprire cause e ragioni della rinnovata vitalità religiosa che pervade l'umanità a tutti i livelli. Il kairos delle religioni non è concluso, né la loro missione annullata dall'entrata di Cristo nella storia, dall'espansione cristiana nel mondo e dall'invasione tecnoscientifica. L'interesse riaffiora ovunque, confermando le anticipazioni profetiche del Concilio Vaticano II: dialogo, incontro e stima per tutti i valori religiosi dell'umanità.

2.

Scienze della religione: gli apporti insostituibili

A sua volta, la cultura scientifica moderna ha reso il massimo omaggio alle religioni e alla religiosità del genere umano, nel modo più congeniale: creando e sviluppando le scienze della religione. Tuttavia, vi è qualcosa di paradossale, se non di misterioso, nel fatto che gli originari presupposti irreligiosi, atei o secolarizzati, alla base delle loro ricerche, le abbiano portate, via via, a riconoscere l'estrema l'importanza, valore e significato della religiosità e delle religioni per l'umanità: persone, culture e società. Comunque sia, ne deriva un patrimonio di documentazione e di conoscenze d'immenso valore per la comprensione delle religioni e della religione. Per questo abbiamo proposto la seguente tesi: le scienze della religione hanno elaborato una documentazione di eccezionale valore per la conoscenza, la verifica critica e la valorizzazione delle religioni. Soprattutto hanno focalizzato problematiche di significato e valore straordinari: le teofanie, l'homo religiosus e le antropofanie, fondamentali per la comprensione della religione e per il dialogo interreligioso. Infatti, avendo rinnovato il discorso sulla religione, potranno pure dinamizzare il dialogo interreligioso, almeno per due motivi. Il primo, di ordine antropologico, è che offrono utili criteri per verificare la validità e l'autenticità degli atteggiamenti e dei comportamenti personali (psicologia e psicanalisi della religione), delle funzioni e dei ruoli sociali (sociologie della religione), degli influssi culturali (antropologia della religione), dei significati strutturali e istituzionali (fenomenologia e storia comparata delle religioni), delle credenze e dei valori morali e spirituali (storia e storia comparata delle religioni). Il secondo motivo, di ordine teologico, è che il discorso sulle teofanie, antropofanie e uomo religioso pone, senza forzature, al centro del dialogo interreligioso, il "caso Gesù Cristo": come suprema ierofania-teofania o manifestazione salvifica di Dio; come massima antropofania o rivelazione della piena autenticità umana; come perfetto homo religiosus o vero adoratore in spirito e verità, artefice di umanizzazione, umanesimo e cultura.

3.

Teofanie e antropofania come sfida teologica

Quindi, la gran mole dei dati scientifici consente ed esige, a livello culturale e interculturale, un confronto sulle potenzialità di umanizzazione delle religioni, per il futuro dell'uomo e al planetarizzazione culturale. Tuttavia, le scienze della religione fanno molto di più, chiamando tutte le religioni a confrontarsi con i loro rilievi critici e, soprattutto, con le formidabili problematiche sollevate da teofanie, antropofanie e homo religiosus. Se le religioni sono chiamate direttamente in causa, la fede cristiana è addirittura provocata e sfidata a giustificare e motivare la sua "pretesa" suprema teofania, e antropofania dell'uomo religioso Gesù di Nazaret, Unto, Figlio di Dio, crocifisso morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini, rivelazione definitiva dell'amore del Padre. Pertanto, la "mediazione" delle scienze della religione porta a una concentrazione sulle tematiche cristologiche e soteriologiche della fede cristiana, con le quali la teologia deve misurarsi "dialogicamente". Deve sviluppare, perciò, una "dialogica" (teologia generale del dialogo) e una "focalizzazione cristologico-pneumatologica" del discorso sulle religioni, (teologia specifica del dialogo interreligioso).

4.

Struttura del volume: scienze e "dialogica cristologica"

Tutto ciò, nel presente volume, viene articolato in due parti. Nei primi sette capitoli si analizzano le singole scienze della religione, fissando i criteri per una lettura critica e costruttiva dei loro dati. Nei capitoli da otto a dodici si studiano modalità e strumenti del dialogo interreligioso (dialogica teologica) e della valorizzazione teologica (cristosoteriologia dialogico-interreligiosa) dei contenuti delle scienze e delle tradizioni religiose. La ricca tematica delle scienze della religione viene evidenziata riguardo a linguaggi, simboli e atteggiamenti dell'homo religiosus di tutti i tempi, jerofanie, teofanie e antropofanie. L'ottica che presiede a questa parte è la rinnovata comprensione del ruolo storicosalvifico delle religioni e delle nuove finalità del dialogo interreligioso, che nella seconda parte viene messa a fuoco. Il discorso è puntualizzato su una "dialogica" cristologica e pneumatologica delle religioni, in cui il mistero di Cristo non è soltanto il centro della fede cristiana, ma anche il punto di confluenza dei temi emergenti dalle varie religioni e dalle scienze della religione. Tale "dialogica" valorizza al massimo la logica dell'Incarnazione, che coinvolge tutte le realtà storiche e mondane, compresi i problemi planetari della liberazione, della pace e della promozione integrale delle persone, culture, popoli e società.

5.

Religioni e scienze per un nuovo umanesimo

Nell'attuale cultura plurietnica e cosmopolitismo planetario, le grandi tradizioni religiose e scientifiche costituiscono una forza decisiva, nel bene o nel male. Perciò, una convivenza pacifica, volta a costruire insieme i futuri umanesimi della nuova èra, non può prescindere da un dialogo interreligioso (e interculturale) caratterizzato da fede e religiosità profonde, serena capacità critica e creatività propositiva, aperto a tutti gli uomini di buona volontà e ai migliori contributi delle religioni e delle scienze.

1.

NUOVO SPIRITO SCIENTIFICO E SCIENZE DELLA RELIGIONE

1.

Cenni introduttivi

Le scienze della religione si svilupparono sotto il succedersi di diverse tradizioni filosofiche e scientifiche. Dapprima quella positivista ed evoluzionista del XIX secolo, successivamente, quella fenomenologica ed ermeneutica heideggeriana del secolo XX. Il passaggio dalle prime alle seconde segnò una svolta decisiva, che portò al "nuovo spirito scientifico", cui si è ispirata, soprattutto, la nuova antropologia delle religione. In questo capitolo cercheremo di analizzare le componenti e le fasi di questi passaggi.

1.1. Storia delle religioni e presupposti filosofici Le ricerche sulle religioni, come per ogni scienza, si ispirarono ad alcuni presupposti dominanti. Uno fu la necessità di spiegare la religione con la scoperta delle sue origini, sviluppi e stadi evolutivi. Un altro fu l'esigenza di stabilire, invece, la sua essenza. Un altro ancora fu la convinzione che lo studio delle religioni esigesse la somma di tutti gli oggetti religiosi e di tutte le dimensioni reperibili della religione. Altri pensavano di disporre le religioni a cerchi concentrici secondo una data idea o realtà. Altri ancora, infine, proposero di studiare la religione attraverso tutte le funzioni esercitate e tutti i significati funzionali attribuitile.1 Ciascuno di questi orientamenti ha consentito risultati interessanti e sovente inaspettati, ma non poteva darci l'essenza della religione, anzi condusse alla convinzine di dover abbandonare tale proposito. Infatti, le ricerche condotte su aree storiche, geografiche e fenomeniche sempre più vaste, unite a una maggior consapevolezza epistemologica e filosofica, convinsero che il discorso fondativo ed esplorativo dell'esperienza religiosa doveva essere reperito nel "simbolico". In esso risiedono, sia il riferimento al fondamento nella sua ultimità, che il bisogno di interpretare, chiarire e spiegare. Inoltre, apparve sempre più chiaro che per accostarsi ai fenomeni religiosi era impossibile prescindere dalla vita e dall'esperienza religiosa. L'approfondimento dell'istanza ermeneutica ha messo in luce che, anche nelle scienze della religione, come per le altre scienze, soprattutto umane, va considerata la "circolarità del conoscere", che chiama in causa le "precomprensioni globali" e le "ipotesi totali". Pertanto, nelle scienze storiche, ad esempio, non si può evitare la storicità della coscienza. Nelle scienze sociali, a loro volta, l'oggetto è pure co-soggetto di conoscenza e la conoscenza avviene per le implicazioni del soggetto. Anche nelle scienze naturali si ammette qualcosa di analogo, perché la loro conoscenza avviene per paradigmi e teorie (precomprensioni), in cui il loro contesto ipotetico-deduttivo è più importante delle loro falsificazioni. Pertanto, si pensò che una stessa "circolarità del conoscere" debba operare anche nel campo religioso, di modo che, fenomeni e comportamenti religiosi possano essere colti, innanzitutto, in ciò che esprimono religiosamente.

2.

Nuovo spirito scientifico e tematica dell'homo religiosus

Poste queste premesse, la storia dei concetti di "homo religiosus" e di "simbolo" e del loro progressivo affermarsi nelle scienze della religione, costituisce un caso epistemologico e storico-scientifico di grande rilievo. Esso coincise con l'affermarsi del nuovo spirito scientifico e dei paradigmi ad esso collegati. Entrambi i concetti erano

inaccettabili dal vecchio paradigma scientista e positivista. Perciò i ricercatori dovettero preparare le condizioni e gli strumenti che ne consentissero l'affermazione. I concetti di homo religiosus e simbolo si affermarono come chiavi dell'antropologia religiosa, nel suo duplice versante scientifico e filosofico. La ricerca scientifica (antropologia della religione), studiava i rapporti strutturali e funzionali che legano l'homo sapiens e il simbolo alle diverse manifestazioni della cultura. La riflessione filosofica studiava i loro concetti nell'ambito della storia delle idee e del pensiero.

2.1. Il vecchio paradigma scientista Come abbiamo già accennato in un preedente volume,2 a partire dal secolo XIII, iniziò quella frattura fra due atteggiamenti e due mondi di pensiero, che poté essere superata solo nella seconda metà del secolo XX. Essa riguardava la fede e la religione, da un lato, e la scienza dall'altro. Non era ancora emersa la consapevolezza che religione e fede si esprimono attraverso mediazioni metaforiche, simboliche e illustrazioni iconografiche, mentre le scienze si esprimono mediante unioni sempre più formalizzate di pensiero diretto e "combinazioni semiotiche tra i percetti e i concetti".3 L'atteggiamento e il pensiero scientifico risultarono vincenti per alcuni secoli, culminando nei vari positivismi e nelle filosofie che tentavano di limitare la ragione ai dati puramente naturali (interpretazione naturalistica della realtà), senza tuttavia riuscirvi. Tale progetto portò all'eclissi dello spessore ontologico e religioso della verità, di fronte alla "verità secolarizzata" della scienza. Di conseguenza si puntò pure al riassorbimento della religione e dei suoi contenuti in una storia umana assolutizzata, al suo inveramento nello "stato", come pure alla dissoluzione del discorso teologico nel discorso positivo. Pertanto si ipotizzò una "religione dell'umanità" la cui suprema divinità, centro dell'universo e motore della storia, era identificata nel progresso. Dalle prime origini al declino di questa potente e onnicomprensiva concezione, trascorsero alcuni secoli, per cui le sue propaggini permangono tuttora. Nel corso di quei secoli, quanto più il pensiero laico e scientista riduceva la forza o annullava la ricchezza ermeneutica delle figure, delle metafore, dei simboli, dei linguaggi figurati, tanto più le espressioni religiose incontravano crescenti difficoltà. Fede e religione, con il loro carico di espressioni simboliche, venivano sempre più emarginate, confinate ed isolate. Ogni tentativo di incontro, dialogo o riconciliazione finiva in qualche riduzionismo scientista, risoluto a spegnere o neutralizzare anche le forme più livellate di mediazione simbolica quali le metafore. Ciò avveniva in base al presupposto scientista, ereditato dall'agnosticismo illuminista, che la conoscenza scientifica era il modello finale e definitivo della conoscenza.

2.2. "Simboli" e "immaginario" nel nuovo paradigma La riflessione sulle insormontabili difficoltà apparse nelle scienze naturali, tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX, e delle scienze umano-sociali nel secolo XX, preparò la grande svolta degli anni 1960. Lo spazio non ci consente di indicare qui quanti contribuirono alla grande svolta scientifica, epistemologica e filosofica.4 Limitandoci strettamente al nostro campo, sottolineamo che, nella misura in cui fallivano uno dopo l'altro tutti i programmi positivisti, neopositivisti e neo-analitici, veniva sempre più valorizzata la validità concettuale ed euristica dell'"immaginario", dei "simboli" e dei "miti". Gli stessi fisici, ora, riconoscevano che i loro processi scientifici più astratti erano solo parte di strutture immaginarie più ampie e inglobanti, rivelatesi determinanti. Veniva capovolta la plurisecolare convinzione che si doveva "ridurre" il mondo dell'immaginario al mondo della pura razionalità e ai suoi rigorosi formalismi.5 Anche nel campo matematico si ammetteva che "alla pertinenza del sistema matematico o 2

fisico risulta indispensabile un 'coefficiente' di immaginario".6 Lo stesso veniva riconosciuto per la biologia e l'embriologia.7 Appariva chiaro, perciò, che il simbolo deriva dal conflitto di due diversi criteri di identificazione della realtà e che, nella realtà, esistono modi radicalmente diversi di considerare l'identità di un essere. Questi due parametri costitutivi del simbolo, a motivo della loro tensione conflittuale, costituiscono una carta d'identità. Vale a dire, che all'identificazione contribuiscono tutte le descrizioni identificanti, quale che sia il linguaggio in cui sono scritte. Perciò, nel simbolo sussistono due parti: il "significante", che rappresenta la componente localizzata, inculturata, storicizzata e databile, descrivibile con il metodo storico e filologico. Vi è, poi, l'altra parte, il "simboleggiato", che è la componente non localizzabile perché qualitativa, semantica e riferita al comprendere anziché allo spiegare. Tali tipi irriducibili di identità, che costituiscono le due parti del simbolo, sono indissolubili e legati, costitutivamente, l'uno all'altro. Perciò formano un "insieme sistemico", caratterizzato da unità e stabilità. L'interazione delle due parti fonda la potenza del linguaggio simbolico. Alcuni autori hanno utilizzato il termine "logos", per indicare la parte non separabile né localizzabile, che trascende semanticamente le manifestazioni significanti. Esso designa l'identità di una "risonanza", che permane nonostante tutte le perturbazioni spazio-temporali dell'universo circostante.8 Tale risonanza non si colloca nell'ambito della materia, ma dello spirito e della trascendenza.

3.

Nuovi significati di: degradazione, conservazione e accrescimento

Appare assai singolare la convergenza di fisici e biologi nel cogliere la presenza dello spirito o, comunque, di un fattore immateriale all'interno dei processi studiati dalle loro discipline. Essi si servono dei dinamismi simbolici per risolvere le contraddizioni irrisolte e ineliminabili, della visione scientifica del mondo. Essi leggono oggi, in questa luce, i due principi fondamentali della termodinamica: la "conservazione" e la "degradazione" (entropia) dell'energia. Mentre l'entropia esprime l'irreversibilità di ogni fenomeno situato entro le coordinate spazio-temporali, la conservazione rappresenta l'identità non localizzabile, la negazione dell'entropia, la base "immateriale" della memoria cosmica. I processi biologici sono stati intepretati mediante i concetti di "sintropia e neghentropia" ossia l'orientamento e il movimento opposti alla degradazione. La "memoria", che assicura la "conservazione", grazie al suo processo di raccolta e di conservazione delle informazioni, è un fattore che nega l'entropia. Queste realtà esprimerebbero l'immagine stessa della vita e questi progressi del pensiero matematico, fisico e biologico porterebbero a fondere e unificare in una teoria unitaria le due diverse letture dell'universo. Esse avrebbero spinto il fisico Charon a ritenere che ogni particella di materia, indipendentemente dal suo corpo fisico osservabile, possiederebbe un'entità mentale (da lui chiamata eone) non direttamente osservabile, con proprietà di memoria cumulativa e di ragionamento ossia "di accrescimento della significazione dei simboli memorizzati".9 Non sta a noi pronunciarci sul merito di queste nuove impostazioni di cui, al momento è pure difficile prevederne il futuro. Ciò che conta è il fatto innegabile e significativo, che esse vengono formulate ed elaborate in quegli stessi ambienti scientifici che finora erano dominati dai tabù scientisti. Questo panorama molto succinto serve, perciò, a dare una prima idea del rivoluzionamento che, alla fine del nostro secolo, scuote un pensiero a lungo cristallizato su posizioni ritenute irriversibili e definitive. Si tratta di una nuova fase della scienza, che prelude al superamento delle molte ombre, ambiguità e contraddizioni che da tempo si proiettano su tutte le discipline. 3

Il progetto di rinnovamento muove in direzione opposta al vecchio "concordismo riduttivo" volto ad "omologare" o allineare le scienze "deboli" (umano-sociali, storiche, della religione) su quelle "forti" (fisica, microfisica ecc). Esso tende, invece, a quanto auspicava Popper: un confronto interattivo fra le istanze delle scienze e l'enorme eredità artistica, letteraria, filosofica, culturale e religiosa, accumulatasi nella storia dell'homo sapiens. In questo progetto, le conoscenze sulla religione e le religioni, accumulate da una vasta costellazione di scienze e discipline (esperienze, pensiero, concetti, teorie, riflessioni ecc.) costituiscono il centro di un confronto transdisciplinare, culturale, scientifico, filosofico e teologico. Questo confronto appare ancora più urgente, in seguito al forte risveglio religioso e ai crescenti rapporti interculturali e interreligiosi fra tutti i popoli dell'umanità.10

4.

Processi simbolici nella religione e nel pensiero scientifico

L'epistemologia attuale, quindi, conferma che il processo simbolico si rivela sempre più essenziale riguardo alla realtà e al pensiero scientifico. Si parla, sempre più apertamente, di "una trascendenza che si manifesta attraverso segnali immanenti", come una "telefonata dall'esterno". Altri sottolineano le innegabili "sporgenze" e "ridondanze" immanenti al tempo e allo spazio, chiaramente percepibili come tracce di un senso che le trascende. Questi riconoscimenti sono visti come vie necessarie per uscire da quel vicolo cieco in cui la scienza moderna si dibatteva da lungo tempo. Il riconoscimento del simbolo come espressione specifica dell'homo sapiens, ricolloca pure l'homo religiosus al centro dell'attività cosciente, dell'ominizzazione e umanizzazione, della costruzione consapevole della cultura e delle conquiste autentiche e non illusorie, dello spirito. Di conseguenza, la religione non viene più relegata nell'oscurità del primitivismo e nell'infantilismo delle "ère teologiche". La nuova epistemologia consente pure di ricomporre la frattura ormai plurisecolare fra le due culture e i due saperi. La riflessione sul simbolo permette di non separare artificiosamente, dal pensiero scientifico i significati e gli apporti dei discorsi, ragionamenti e intuizioni, che provengono dalle religioni, dalla fede e dalle mistiche. Nell'ambito dello studio scientifico della religione, la disciplina che maggiormente ha usufruito-di, ma anche contribuito-a questo rinnovamento è l'antropologia della religione. Ciò appare un emblema della rinnovata temperie scientifica, epistemologica ed ermeneutica, che si concentra sull'uomo più che sulle cose. Pertanto ci soffermeremo maggiormente su di essa.

5.

I simboli nell'antropologia religiosa

I condizionamenti del positivismo, che agli inizi del XX secolo pesavano ancora su Durkheim, Hubert e Muss, vennero praticamente superati dagli approcci fenomenologici. Fenomenologi quali Otto, Söderblom, Van der Leeuw diedero luogo a un'importante biforcazione euristica, che valorizzava i caratteri autonomi dell'uomo religioso, liberandoli dai residui positivistici e storicistici. Il loro "zoccolo fenomenologico" venne "sinergizzato" dalla rivoluzione epistemologica sopra illustrata. La valorizzazione dell'homo religiosus si attuò mediante lo studio approfondito dei suoi simboli. Nei decenni dal 1930 al 1960 si ebbe un'eccezionale crescita di documentazione e di pensiero, che consentì il costituirsi della nuova ermeneutica simbolica e, insieme, la valorizzazione dell'homo religiosus. Tra i grandi protagonisti di questa impresa, vanno riconosciuti, in particolare, G. Dumézil, C.G. Jung, H. Corbin e M. Eliade.

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Essi furono accomunati da un'immensa erudizione, una profonda cultura e l'uso di metodologie interdisciplinari, che consentirono loro di realizzare grandi sintesi e ardite comparazioni, senza cadere nei sincretismi. Per più decenni, s'incontrarono tra loro e con altri grandi rappresentanti delle più diverse discipline.11 Pertanto si sostennero nel costruire una nuova e rigorosa scientificità, capace di rifiutare coraggiosamente i dogmatismi e i riduttivismi, allora ancora molto forti, dell'illuminismo, del positivismo e dello storicismo. Jung e Dumézil, da antropologi, seguivano le tracce dell'homo religiosus, ricostruite dalla fenomenologia e dalla filologia, all'interno dei processi psicologici e sociologici, senza ridurli ad essi. Jung confermava la dignità dell'anima e la sua possibilità di relazione cosciente con la divinità. Dumézil cercava ciò che unifica le strutture delle diverse società. Tutti convergevano verso il fondamento del sacro, come fondo ultimo e infrastruttura per l'instaurarsi della coscienza e dell'anima, delle cultura e delle società. I risultati così ottenuti contraddicevano e confutavano le impostazioni positivistiche e materialistiche, rovesciando le prospettive psicologiche e sociologiche che ne derivavano.12 Pertanto la categoria del "religioso" acquisiva ruolo euristico e valore centrale per tutte le scienze umano-sociali. A sua volta l'homo religiosus, che i precedenti agnosticismi avevano degradato a "epifenomeno e sovrastruttura", veniva reintegrato al centro delle problematiche fondamentali dell'uomo, della cultura e delle strutture essenziali per il funzionamento della "città degli uomini". Con ciò si ricostituiva il collegamento (re-ligione) del sacro e dell'uomo religioso con la psicologia e la società.

6.

Spazio e tempo: diverse dimensioni e significati

Eliade e Corbin, a loro volta, elaboravano le condizioni a priori di un processo di conoscenza totale, che non lasciava nulla al di là delle antinomie e aporie della pura ragione. Con ciò valorizzavano le intuizioni, le esperienze e il discorso religiosi. Dimostravano pure che la religiosità, per potersi manifestare con la sua propria intensità e universalità, ha bisogno di uno spazio e di un tempo che non sono quelli "vuoti" delle geometrie euclidee o "indifferenti" degli orologi della fisica classica newtoniana. Lo stesso discorso valeva pure per il sacro e le teofanie, per i quali occorre recuperare il senso del tempo "concreto e pieno di significato", vero "kairòs"13 nel quale possono ripetersi il racconto sacro, il simbolo e il mito.

6.1. Lo spazio del non-dove Corbin è giunto alle sue importanti acquisizioni sullo spazio, attraverso le forme di pensiero e i contenuti degli "spirituali" dell'Islam, che gli han fatto riscoprire e rivalutare fondamentali elementi della propria tradizione cristiana, soprattutto giovannea e della "Chiesa di Giacomo", senza cadere in sincretismi. In questo modo, ha riaffermato e rafforzato il "mondo immaginale" soffocato dalla razionalità e respinto dalla episteme occidentale.14 Gli epistemologi confermano che esso coincide con quel mondo immaginale, di cui abbiamo sottolineato la riscoperta da parte degli uomini di scienza contemporanei, al fine di superare gli irriducibili dualismi dello spirito che prende corpo e dei corpi che si spiritualizzano. In esso trovano pure possibilità di fusione, nella modalità simbolica, le due "identità": quella "localizzabile" e quella "non separabile". Queste due realtà vengono espresse pure medainte il discorso dei "due spazi". Nello spazio delle "localizzazioni geografiche" le distanze contano più che i punti di partenza e di arrivo. Nello spazio del "non-dove" (u-topia in senso forte) i punti di partenza e di arrivo contano più delle distanze. In quest'ultimo appaiono i corpi e le forme sottili, in una sorta di "non distanza", riconosciuta anche da alcuni fisici attuali.

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Pertanto, ogni manifestazione dell'anima si colloca nel "mondo immaginale" ed è soggetta a una fenomenologia. Lo spazio religioso, in senso forte, implica l'eternità delle anime e la "spazializzazione", nell'immaginale delle rivelazioni profetiche. Spazializzazione significa "interiorizzazione trascendente di morfologie". Riguardo al tempo profano, lineare, e insignificante, il riscatto che lo trasfigura passa attraverso la liturgizzazione e la commemorazione, che producono un tempo ciclico.15

6.2. Il tempo del "non tempo" Eliade si è particolarmente preoccupato del tempo dell'uomo religioso, che esprime una concezione temporale appropriata alle manifestazioni e all'accesso al sacro. Anch'egli ha distinto il tempo degli orologi, ossia della durata continua, dell'irreversibile usura e dell'entropia degli oggetti materiali, da quello ciclico, negatore dell'entropia, proprio delle ridondanze liturgiche e delle ripetizioni del mito. Il primo è la squallida, banale e desolante misura del decorso delle cose alla loro fine. Il secondo è la forma discorsiva della temporalità, che per la sua forza di reminiscenza, di commemorazione e di ridondanza, sfugge alla fine ultima. Corbin rendeva l'idea con una bellissima frase presa da Gustav Mahler: "Credi, mio cuore: nulla si perde per te. Restano tuoi, sì tuoi per sempre, tutto ciò che furono le tue attese, il tuo amore, le tue lotte".16 Tutta l'opera di Eliade sembra gravitare attorno al fondamentale problema religioso della "uscita" dal tempo profano, che è il portatore del "terrore della storia", dell'usura entropica delle cose e della morte. La sua acquisizione fondamentale, che "il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non uno stadio nella storia della coscienza stessa" mette in luce che la storia rivela l'unità fondamentale e la perennità dei fenomeni religiosi e le crisi, le creazioni e le rivoluzioni che li rinnovano. Perciò il religioso per-mane e per-dura in un tempo-atemporale, mentre il mondo passa. Mentre Corbin ha attinto le sue convinzioni sullo spazio, dallo studio dei "racconti visionari dell'Islam", Eliade ha raggiunto le sue acquisizioni sul tempo ciclico dallo studio degli autori indù. Durand ha notato che il tempo ciclico si trovava sovente nel pensiero cristiano e che cominciò ad esserne emarginato solo a partire dal secolo XVII, sotto l'incalzare delle concezioni illuministe del progresso lineare della storia, fino al secolo XIX, col trionfo delle idee evoluzioniste. Furono il pensiero degradato e il concordismo deteriore a svuotare la sacralità del tempo, in favore dei modelli pragmatici e materialisti. Di qui la grandissima importanza delle acquisizioni di Eliade, per cui l'homo religiosus, fondandosi sulla sua relazione con l'abisso del tempo e col metafisico, ritrova, nel suo profondo, la speranza di un tempo. Le oscurità di essa, illuminate dal ricordo di una luce iniziale, si aprono alle promesse e alla speranza di una luce finale. Conclude, pertanto: "Il potere immaginatorio dell'uomo e la sua facoltà fondamentale di 'homo symbolicus' ricollegano 'homo sapiens' al mondo della trascendenza e in questo modo lo consacrano 'homo religiosus'. Uomo 'legato' a una trascendenza, a un dramma dell'anima che lo supera, a un 'topos' dell'altrove assoluto e, infine, a un tempo liberato dalla morte e dal terrore, un 'kairòs' che, attraverso la liturgia, è pegno e promessa di eternità".17

7.

Nuovo spirito scientifico e nuova antropologia della religione

L'eccezionale rivoluzione epistemologica di questi ultimi cinquant'anni ha consentito di riscoprire il valore e la potenza del pensiero simbolico. La rivalutazione del simbolico, a sua volta, ha consentito di riconoscere la "dimensione religiosa" dell'homo sapiens e la "dimensione più che razionale" dell'homo religiosus. Ciò è stato

6

fatto nell'accresciuto riconoscimento e rispetto dell'autonomia, ma anche della complementarità degli ambiti della scienza e della fede. Il "religioso" infatti si manifesta nell'intelletto, ossia nelle ragioni che conducono la scienza attuale a ipotesi di ordine e di coefficiente mentale affini alla teologia naturale. Allo stesso modo si manifesta nella fede, che si fa incontro all'anima mediante i suoi simboli. Ritroviamo qui, in senso pregnante, la "fides quaerens intellectum". Durand ha messo bene in luce che le più avanzate scoperte scientifiche degli ultimi cinquant'anni, sfociate nel nuovo spirito scientifico, hanno riscoperto la potenza del pensiero simbolico e rivalorizzato l'originaria religiosità dell'homo sapiens.

8.

Riflessioni conclusive

Gli studenti delle contestazioni del '68 che, in tutto l'occidente, reclamavano un nuovo spazio per l'immaginazione, forse non afferravano tutto il significato rievocativo dei loro slogans: "immaginazione al potere" o "potere all'immaginazione". In realtà rivendicavano l'ineliminabile valore originario dell'immaginale, dell'immaginario, del simbolico e del mito, usurpati all'umanità e relegati in un secolare oblio dalle filosofie razionaliste, illuministe, positiviste e scientiste. Analoga rivendicazione da quest'oblio emerge, forse incosciamente, dalla crescente ricerca di modelli religiosi dell'antico oriente: Veda, yoga, tao, zen, spiritualità orientali, interessi esoterici, ecc. A Pasadena e Princeton, scienziati delle più diverse discipline, cercano di costruire una nuova religione, con un "bricolage" dalle più antiche tradizioni religiose e dalle conoscenze scientifiche moderne.18 Ciò conferma il significato delle acquisizioni delle scienze delle religioni. Dal paleolitico ad oggi l'homo sapiens si è mostrato homo religiosus, testimone di una "Realtà trascendente" che si manifesta in questo mondo, dando a tutto una dimensione di compimento. Toccato da essa, l'uomo assume un modo di esistere, che sfocia in valori assoluti, capaci di dare senso alla vita umana e che lo spingono a costruire un mondo pieno di significato. Sorprende, perciò che religioni e teologia, in Occidente, non sembrino avvertire l'eccezionale valore positivo, che emerge dai nuovi approcci scientifico-religiosi, come un vero segno dei tempi.19 1

Schmid G., Principles of Integral Science of Religion, Paris-New York 1979, 56-60.

2

G. Gismondi, Fede e cultura scientifica, Bologna 1993.

3

G. Durand, "L'uomo religioso e i suoi simboli", in E. Anati, R. Boyer, Le origini e il problema dell'Homo religiosus, Milano 1989, 77. 4

A puro titolo indicativo indichiamo Einstein, Bohr, Heisenberg, Planck, Holton, Dobzhanski, Perelman Tyteca, Popper, Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Michaud, Durand, ecc. Per una più approfondita trattazione cf. Gismondi G., Critica ed etica nella ricerca scientifica, Torino 1978, e Fede e cultura scientifica, cit. 5

Per questi aspetti cf. G. Holton, The Scientific Imagination. Case Studies, Cambridge 1978, (tr. it. Torino 1983). 6

Cf. R. Thom, Modèles mathématiques de la morphogénèse, Paris 1984; Durand, "L'uomo religioso", 86. 7

Thom prende dalla terminologia usata da Waddington e Sheldrake i termini di "creodo" che indica il carattere orientato e stabile dei tessuti nonostante lo sviluppo casuale e perturbato dell'embrione e i concetti di "campo morfologici" (o morfici) e di "risonanza morfica" (o morfologica). Cf. R. Sheldrake, A New Science of Life. The Hypothesis of Formative Causation, London 1981; C.H. Waddington, Towards a Theoretical Biology, 4 voll., Edinburgh 1968-1972. Anche un fisico giunge a simili conclusioni nella sua "teoria dell'ordine implicito" o di energia trascurabile che presiede allo svolgimento di un processo, conferendogli la sua vera identità, cf.

7

D. Bohm, "L'immagination et l'ordre impliqué", in Science and Conscience, Paris 1980. Per lui tale ordine implicito è una specie di memoria cosmica, cf. Id., Whileness and the Implicate Order, London 1979. 8

Il concetto di risonanza viene qui usato per indicare la stabilità e l'unità delle vibrazioni, nonostante le perturbazioni dell'ambiente circostante; cf. R. Thom, Les racines biologiques du symbolisme, Paris 1980; B. D'Espagnat, À la recherche du réel, Paris 1979. 9

J.E. Charon, La Relativité complexe et l'unification de l'ensemble des quatre interactions physiques, Paris 1987; Id., Le Tout, l'esprit et la matière, Paris 1987. 10

Incontri di questo tipo sono avvenuti a Cordova (1979), Fez e Tsukuba (1983), Washington (1984), Venezia (1986). 11

Alle "Tagungen" del Circolo Eranos.

12

Durand, "L'uomo religioso", 104-105.

13

Nella filosofia greca, il termine Kairòs indica la crisi nella quale, in una determinata esperienza di tempo, l'uomo interpellato deve decidersi sul piano della storia. Nella Scrittura indica il tempo della salvezza (Mc 1,15) deciso e disposto da Dio, la pienezza dei tempi (Gal 4.4), l'ultima offerta della grazia in Cristo a Israele, (Lc 19,44) e a tutti gli uomini (2Cor 6,2) e l'inizio del giudizio (1Pt 4,17; Col 4,5). Esprime quindi la sovranità di Dio che dispone liberamente anche del tempo. Cf. K. Rahner, H. Vorgrimler, Dizionario di Teologia, Brescia 1968, 342. 14

Episteme, indica l'insieme delle conoscenze positive e delle teorie scientifiche che caratterizzano una data epoca, con una sfumatura relativa ai loro presupposti, tesi fondamentali, proposte interpretative, ecc. 15

H. Corbin, L'Homme de lumière dans le soufisme iranien, Chambery 1971; Id., Corpo spirituale e terra celeste, Milano 1986; Durand, "L'uomo religioso", 107-112. 16

Corbin, Corpo spirituale, 119.

17

Durand, "L'uomo religioso", 115.

18

R. Ruyer, La Gnose de Princeton. Des savants à la recherche d'une religion, Paris 1975.

19

I teologi dell'Asia hanno criticato l'arretratezza e il concordismo delle teologie della liberazione latino americane, tributarie dei vecchi paradigmi occidentali razionalistici, scientisti e antireligiosi. Cf. A. Pieris, Une theologie asiatique de la liberation, Paris 1990. Per una'analisi più dettagliata del problema cf. G. Gismondi, "Contestualizzazione, liberazione e nuova evangelizzazione nel contesto asiatico", in Antonianum 67 (1992), 360-413.

8

2.

SCIENZE DELLA RELIGIONE: ASPETTI GENERALI

1.

Cenni introduttivi

Nel primo capitolo abbiamo notato la nuova situazione caratterizzata dall'emergere di un nuovo spirito scientifico e dal crescente accumulo di una nuova documentazione scientifica, meno ideologizzata, sulle tematiche religiose. In uno studio precedente, abbiamo dimostrato come lo sviluppo delle scienze crei cultura allargando le aree problematiche, riformulando i problemi in modi nuovi e aprendo nuovi campi d'indagine che esigono ulteriori livelli di ricerca e di riflessione meta-scientifici fino a coinvolgere i problemi dell'ultimità.1 Questo fatto risulta ancor più significativo per le scienze della religione le cui domande, già alle soglie della demarcazione strettamente scientifica, diventano sfide decisive e ineludibili. Occorre perciò approfondire come, oggi, una gran numero di domande, rilevanti per profondità e significato, possa muovere proprio dallo sviluppo delle ricerche scientifiche sulla religione.2

2.

Scienze della religione e dinamica culturale

Questa vigorosa dinamica culturale delle scienze della religione ha fatto sì che le loro acquisizioni, riportassero al centro del "sistema globale" della cultura, il ruolo dinamico della religione. Esse hanno accertato che, mediante le esperienze religiose, le persone acquisiscono una nuova comprensione dell'universo e della storia; sollevano i grandi interrogativi e affrontano i problemi essenziali della loro esistenza: senso della vita, valori etici, comportamenti morali, ecc. e, infine, pervengono a scelte e decisioni fondamentali. Pertanto, attualmente, lo studio delle religioni e dei loro rapporti con le culture, costituisce un tema comune, non solo per la religione ma, ancor più, per la cultura e la società.3

2.1. Caratteri specifici delle scienze della religione Anche dal punto di vista metodologico ed epistemologico, le scienze della religione costituiscono un esempio interessante, poiché dimostrano la necessità di un pluralismo metodologico, che valorizzi forme di scientificità specifica nate all'interno di ogni disciplina e consone alle proprie esigenze caratteristiche.4 Le scienze della religione, in particolare, hanno dovuto compiere uno sforzo durissimo per liberarsi dalle pesanti ipoteche razionalistiche dell'illuminismo e da quelle riduttive del positivismo. Solo a questo prezzo riuscirono a unificare, mediante intelligenti strategie interdisciplinari, i contributi di scienze molto diverse, quali storia, critica testuale e letteraria, etnologia, linguistica, antropologia, psicologia, sociologia ecc.5 Inoltre dovettero anch'esse affrontare pesanti condizionamenti ideologici, quali l'inarrestabile scomparsa della religione e la definitiva eclissi del sacro. Pertanto, forse ancor più delle altre scienze, poterono beneficiare della grande crisi epistemologica, per ridefinire ulteriormente il loro oggetto, il rigore dei loro metodi e il corretto rapporto tra soggetto e oggetto, che li differenziano da ogni altro gruppo di scienze. Di conseguenza, le scienze della religione presentano una grande quantità di problemi tuttora aperti e dibattuti. La loro stessa denominazione è ancora aperta a diverse modalità, che designano percorsi di ricerca, con differenti opzioni scientifiche ed epistemologiche, quali: scienza della religione, scienza delle religioni, scienze della religione, scienze delle religioni. Questo incrocio di voci singolari e plurali indica il pluralismo di approcci, di metodi e di oggetti possibili.6 Naturalmente, alla base di ogni opzione vi sono, non solo motivazioni epistemologiche e metodologiche, ma anche pre-comprensioni, che inducono a

considerare la religione come una realtà unica quanto all'oggetto e al metodo oppure, oppure come un campo disciplinare aperto e dinamico. Questo fatto accresce la difficoltà di trovare una "definizione" della religione capace di superare sia il riduzionismo, che priverebbe l'oggetto d'indagine di qualunque specificità, sia l'idealismo essenzialistico, che postula la realtà di quell'oggetto che proprio la ricerca dovrebbe svelare.

2.2. O pzione metodologica Alcuni propongono di superare questo dilemma, mediante un'opzione metodologica, che colleghi l'autonomia delle scienze della religione agli specifici criteri metodologici da loro scelti. Tuttavia tali criteri dovrebbero essere formulati, sperimentati e confermati da determinati risultati. Bisogna chiedersi, allora, che cosa sia un risultato, visto che la realtà cui le scienze della religione si riferiscono appare assai varia e non si presta ad essere catturata da un'unica griglia metodologica.7 La risposta deve partire dal fatto che, ciò che si dà a conoscere allo studioso dei fenomeni religiosi, non è né una "religione" allo stato puro, né solo la psiche, la cultura o la società, ma un intreccio concreto, storicamente dato, tra determinate "individualità" religiose (religioni), dotate di particolare logica e struttura e presenti in determinati contesti storico-sociali, di cui l'analisi deve decifrare e ricostruire, di volta in volta, la delicata trama soggiacente.8

3.

Progresso scientifico e razionalità informatica

L'interrogativo sui risultati solleva pure il problema di stabilire in che cosa si concreti il "progresso" scientifico: nell'insieme di scoperte? in strumenti di ricerca più raffinati e potenti? in situazioni che impongono nuovi punti di vista? in svolte metodologiche? in nuovi modi di considerare i problemi? Il dibattito è del tutto aperto, anzi viene sempre più allargato dall'espandersi dei mezzi di comunicazione e dalla diffusione dell'elaborazione elettronica, che costituiscono un forte potenziale di rinnovamento metodologico.9 Se guardiamo meglio a questa esplosione dei mezzi di comunicazione e d'informazione, all'espansione dell'informatica e agli usi e applicazioni crescenti degli elaboratori elettronici, ne possiamo comprendere meglio i loro molteplici influssi sui modi e sulle vie di conoscenza. Innanzitutto i ricercatori accedono sempre più rapidamente e diffusamente a masse di dati sempre maggiori, ottenibili e scambiabili in tempi sempre più brevi. Il popperiano "mondo tre"10 diviene oggetto di facile consultazione, analisi, e rapida utilizzazione, nei più svariati modi e con vastità fino ad ora impensabili.11 Questa situazione consente un accesso più generalizzato ai dati culturali e religiosi e quindi una loro maggior conoscenza, ma spinge pure a una loro considerazione in un'ottica informatica che, almeno finora, privilegia l'ottenimento di effetti qualitativi mediante i metodi quantitativi. Esso ha dato effetti positivi. Ad esempio l'interesse crescente per le religioni "vive" ha costretto gli studiosi a confrontarsi con la globalità mondiale del fenomeno religioso. Ne è conseguita una maggior consapevolezza della vastità e complessità dei suoi problemi.12 Non mancano tuttavia i pericoli di effetti negativi. Sono gli stessi specialisti informatici a mettere in guardia dai potenziali effetti negativi dell'elaborazione stessa, che esprime una razionalità e dei linguaggi universali tutt'altro che neutri. In più, è ormai noto che nessuna razionalità, per quanto capace di illuminare i diversi lati della realtà, può raggiungere una qualche completezza. Questo fatto è più incisivo nel calcolo informatico (categoria algoritmica), che esige un ordine sequenziale ossia una serie di passi non eseguibili a caso ma secondo un ordine ben preciso. Ogni passo deve

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essere definito con esattezza, senza incertezze, né equivoci, né libertà d'interpretazione. Ogni algoritmo, tuttavia, è necessariamente finito, ossia, le sue procedure e la sua esecuzione devono terminare dopo un certo numero di passi. Questo fa capire come il fenomeno religioso, con le sue esigenze specifiche di apertura, ulteriorità, trascendenza, dimensione simbolica e metaforica, ne possa venire particolarmente "ridotto" e deformato. Anche riguardo agli atteggiamenti umani e culturali, l'informatica produce ulteriori conseguenze, perché la modalità di pensiero seguita dall'elaboratore è il: "che cosa fa", tipica delle discipline tecnologiche, che legano anche l'identità umana alla funzione e al fare.13

4.

L'ermeneutica della religione

Queste considerazioni sulla cultura e le discipline scientifiche ci fanno chiedere se le scienze siano sufficienti a darci una conoscenza e, ancor più, una comprensione delle tematiche religiose, o se non sia invece indispensabile una riflessione filosofica e un tragitto ermeneutico completo, che conducano alla loro comprensione teologica. Infatti, dopo il riconoscimento della pluristratificazione, ipercomplessità e non ingenuità di ogni dato scientifico, l'interrogativo sulle scienze della religione, cui inerisce sempre l'ineffabilità, l'assoluto e il mistero, si è ulteriormente ingrandito. Almeno due "aporie", non prive di rilevanti conseguenze, vengono ricordate dalla filosofia della religione. Una è che la non innocenza del dato comporta la non analiticità di dato e significato, per cui il significato non è un predicato precontenuto nel soggetto e neppure una reduplicazione del soggetto. La seconda è che il dato, che crediamo di qualificare, in realtà, è già qualificato. Pertanto, un dato non potrebbe essere considerato "religioso" senza un concetto previo di religione. In effetti, il significato viene tanto "prima" che "dopo" il dato. Prima lo individua, dopo lo rafforza, costituendo, con ciò, un circolo ermeneutico completo senz'essere "vizioso".14 Ciò riconosciuto, sorge l'esigenza, per tutte le scienze, di misurarsi con le sporgenze meta-scientifiche delle loro acquisizioni, che fanno capo a tematiche ermeneutiche, per le quali non sono attrezzate. Il dilemma è fra lasciare incompiuto e aperto il messaggio dei loro dati, oppure affidarne ad altri il completamento ermeneutico. Questo problema è particolarmente vivo per le scienze della religione, dato che il loro oggetto presenta una logica autonoma, la cui comprensione è resa possibile da un itinerario completo e non riduttivo. "Oggetti", "fatti" e "parole" religiosi non si esauriscono in una materialità priva di intenzionalità, perché non sono "cose" ma segni, simboli e rivestimenti sensibili di valori ideali. I dati religiosi sono metafore, ossia segni trasferibili da un'intenzione materiale ad una più alta e allusa, perché concettualmente inafferrabile. Simbolo e metafora esprimono, così, un duplice movimento, in cui il primo racchiude l'idea nel segno sensibile, mentre la seconda sprigiona l'idea dal segno sensibile o dalla parola, scandendo con i loro ritmi, l'ambito della comprensione.15 Nell'esercizio interpretativo, ogni particolare prende senso e luce dal contesto generale che, a sua volta, si configura meglio con l'apporto dei sensi particolari. La "situazione" è un inesauribile rimando, che fa dell'ermeneutica un sapere aperto e incrementabile, in cui ci si deve decidere per il significato, senza mai raggiungere un'evidenza assoluta. Quindi, l'atto ermeneutico è molto complesso, più un itinerario che un rispecchiamento. Pertanto, deve passare attraverso molte porte, ricorrere a molte discipline: scientifiche, filosofiche e teologiche, in un rapporto dialogico incessante, in cui il dato risponde e, a sua volta, interpella e pone domande.

3

Questo dinamismo è potenziato ed esaltato al massimo dall'oggetto della religione e dal suo studio, che perciò deve essere, insieme, scientifico, filosofico e teologico.16

5.

Per un nuovo approccio alla religione

Il riconoscimento di Mircea Eliade, che il sacro fa parte della struttura della coscienza e non è soltanto un suo stadio storico, sottolinea efficacemente l'inesauribile spessore della religione e, insieme, le sue valenze personali, culturali e sociali. Pertanto, lo studio globale del fenomeno religioso esige, oggi, tutta una serie di approfondimenti. Innanzitutto, occorre una rinnovata interpretazione e comprensione del fenomeno religioso (homo religiosus, ierofanie, teofanie, tradizioni) e del suo perenne valore per le persone, le culture e le società, espresso in un'enorme varietà di esperienze. A tal fine occorre pure una discussione sulla metodologia delle discipline, che studiano le tematiche religiose ai vari livelli (scienze, filosofia, teologia), per renderne gli approcci sempre più rigorosi, critici e, insieme, aperti. Questa metodologia, per la struttura stessa del fenomeno religioso, dovrà essere rigorosamente inter- e trans-disciplinare. Questo programma di ricerca va orientato non soltanto verso finalità puramente teoretiche, ma anche verso il dialogo interreligioso e interculturale, resi sempre più urgenti dal processo di planetarizzazione dell'umanità e dal crescente movimento migratorio di persone e popoli, che si preannunciano come i fenomeni culturali, sociali e religiosi più rilevanti del prossimo millennio.

6.

Scienze della religione, scienza dell'uomo e scienze umane

L'importanza assunta dalla religione, e dalle scienze che l'analizzano, solleva il problema dell'identità di queste ultime. Gli aspetti generali della scientificità delle scienze naturali, matematiche e umano-sociali, sono già stati trattati in "Fede e cultura scientifica" cui rimandiamo. Qui affrontiamo il tema specifico delle scienze della religione, il cui inserimento fra quelle umano-sociali, senza alcun'altra precisazione, solleverebbe alcuni problemi. Infatti, dal punto di vista storico, le scienze umane nacquero nell'alveo della "scienza dell'uomo" che, per i suoi oggetti, contenuti e metodi, non va confusa con le attuali scienze umane. Essa faceva parte della "storia naturale" dei cui metodi si avvaleva. Questa situazione durò circa ottant'anni, dalla "Histoire naturelle de l'Homme" del Buffon (1749), alle opere di de Virey (1801), Lawrence (1817-1819) e Lacépède (1827). L'etnografia17 offre un esempio in parte analogo e in parte diverso. Infatti per studiare le civiltà umane si avvalse di varie scienze naturali e non: geografia, storia, sociologia, psicologia, ecc. da cui desunse criteri e metodi che, in seguito, raggruppò e ordinò diversamente, originando una disciplina indipendente e avente caratteri propri. Per questi motivi la sua classificazione restò controversa, in quanto i suoi operatori di matrice letteraria la ritenevano una disciplina letteraria, mentre quelli di formazione scientifica la ponevano fra le scienze empiriche.18 Per superare tutte queste ambiguità, J. Ladriére propose di distinguere due aree fondamentali dei problemi umani: fenomeni suscettibili di "approccio metodologico di modellizzazione" (scienze naturali) e fenomeni suscettibili di "approccio metodologico ermeneutico" (scienze umane),19 offrendo un'ulteriore ragione a favore del pluralismo metodologico ed epistemologico.20 La "nuova antropologia religiosa" fin dagli inizi si è dichiarata strutturalmente interdisciplinare, attingendo il suo metodo da molteplici altre discipline quali: storia,

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storia delle religioni, storia delle culture, sociologia, preistoria, psicologia, paleontropologia, etnologia ecc.21

7. Pluralismo metodologico e comunicabilità fra le scienze della religione Comunque sia motivata la distinzione fra scienze della natura e dell'uomo, appaiono alcuni problemi. Il primo riguarda la distinzione fra spiegazione e comprensione. Il secondo riguarda il pluralismo metodologico e le garanzie della scientificità specifica di ogni disciplina. Il terzo riguarda la comunicabilità fra le varie discipline.

7.1. Antecedenti storico-culturali delle scienze della religione La nuova antropologia della religione imposta la loro soluzione seguendo un percorso metodologico diverso da quello finora seguito per le scienze umane. Essa si colloca, infatti, nella prospettiva dei contenuti e dei significati, anziché della pura metodologia, per cui potrebbe definirsi come un'ermeneutica delle precedenti metodologie della storia e della fenomenologia delle religioni. Anche a questo proposito, un breve commento storico potrà chiarire molti aspetti del problema. Agli inizi, le "scienze umane" non si diedero tale nome per distinguersi dalle "scienze naturali", ma dalle "scienze divine" (teologiche). Il progetto cui si ispiravano filosofici e uomini di scienza come Pascal, Malebranche, Descartes, Galilei, Hobbes, ecc., era di sviluppare un discorso scientifico dotato di un percorso proprio, diverso da quello delle "scienze divine", interessate alla salvezza dell'uomo. Ricollegandoci a quanto detto prima sulla "scienza dell'uomo", anche il primo nucleo di "scienze umane" studiava, attraverso le matematiche e l'osservazione, gli oggetti delle scienze naturali, che diedero luogo alla meccanica, all'astronomia, alla chimica, ecc. Da queste derivarono molte altre discipline, che condussero, infine, all'attuale cultura frammentaria delle specializzazioni scientifiche. Pertanto, sotto l'influsso di grandi personalità quali Linneo e Buffon, si sviluppò un secondo nucleo di scienze che, questa volta, si concentrava sui viventi: biologia, zoologia, antropologia fisica, anatomia, paleontologia, e, nel secolo XIX, con Boucher de Pertes, scienze della preistoria. In questo gruppo trovò seguito e applicazioni lo schema darwiniano. Nel secolo XVIII, i fermenti suscitati dalle idee di Rousseau, Herder, Voltaire, Leibniz, Vico, Montesquieu, Lessing, Kant e altri, condussero al sorgere di un terzo nucleo di discipline, focalizzato sugli elementi specifici del genere umano: storia, progresso, cultura, civiltà, linguaggio, società, istituzioni ecc. L'interesse per lo studio scientifico della religione, come elemento storico e culturale degno di rilievo, si sviluppò durante questi periodi, sotto l'influsso delle diverse forme di pensiero. Tuttavia fu fortemente condizionato dagli atteggiamenti critici e ostili alle religioni ufficiali europee, dovuti a ragioni storiche, geografiche e politiche. Le prime riguardavano la violenta frattura avvenuta nel cristianesimo d'occidente. Le seconde derivarono dalle grandi scoperte geografiche che davano accesso e facevano conoscere altre nuove religioni. Le terze erano frutto delle volontà di dominio assolutistico degli Stati nascenti. I resoconti di esploratori, missionari, viaggiatori e le prime "ricerche sul campo" di antropologi ed etnologi consentirono un crescente accumulo di documenti da decifrare, interpretare e valutare, con criteri sempre più rigorosi. Si sviluppavano, pertanto, nuove scienze quali: archeologia, filologia, orientalismo, indianologia, etnografia, ecc.

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7.2. Scienze della religione e conflitti culturali Le problematiche e i conflitti che accompagnarono le scienze della religione affondano le loro radici in questo ambiente storico-culturale, in cui si sovrapposero e incrociarono differenti assi. Il primo asse, sovente storicista, fu quello delle discipline storico-culturali. Il secondo fu quello delle discipline naturalistico-biologiche, che nel secolo XIX assunsero lo schema evoluzionista e positivista. Entrambi introducevano elementi molto eterogenei, la cui eterogeneità si ripercosse sulle numerose discipline che studiavano le culture e la società. Era perciò normale, che, anche per queste discipline si aprisse un acuto conflitto sui metodi e sulle interpretazioni, in seguito allo sviluppo della riflessione critico-epistemologica del secolo XX. Esso indusse i fautori della storia delle religioni, che identificavano la loro disciplina con la "scienza della religione", a irrigidirsi su un rigoroso metodo criticostorico centrato esclusivamente su fatti e dati. Tuttavia, nel frattempo, altre discipline si erano occupate seriamente della religione, ispirandosi a presupposti, principi, metodi, schemi interpretativi e tecniche derivanti da scienze diverse come la biologia, la sociologia, la psicologia normale e del profondo, ecc. Altre discipline, a loro volta, come la filosofia e la teologia, rivendicavano il diritto di un approccio diverso, che superase i limiti di una pura visione storicistica o naturalistica, per poter comprendere il significato profondo della realtà religiosa. Molti di tali approcci prendevano ispirazione dalle filosofie fenomenologiche ed ermeneutiche, che impostavano la tematica delle scienze e della conoscenza in modo profondamente originale e diverso.

8.

Homo religiosus: la grande svolta antropologica

La grande importanza di R. Otto sta nel superamento delle prospettive puramente storicistiche, naturalistiche, positivistiche ed evoluzioniste della religione, per ricondurre lo studio del fenomeno religioso all'uomo e alla sua esperienza vissuta dell'incontro con il sacro. In questo modo lo studio del fenomeno religioso diveniva inseparabile da quello dell'esperienza e dell'homo religiosus. A questo passaggio avevano contribuito, in vari modi, importanti ricerche sociologiche ed etnologiche (di Durkheim, Mauss, Hubert, Makarius, Bastide, Caillois, Girard ecc.) che insistevano sull'importanza del sacro. Tuttavia Otto compì il decisivo passo avanti: "Prendendo le distanze dai sociologi, che avevano ridotto la religione a un fatto naturale, e dagli storici, che guardavano alla religione con occhi profani e secondo un'ottica unicamente storico-culturale, Otto pose al centro della scienza delle religioni il fenomeno religioso, il cui studio gli apparve inseparabile dallo studio dell'uomo religioso e del suo comportamento".22 Egli scoprì tre aspetti nel sacro: il sacro numinoso, il sacro come valore e il sacro come categoria a priori dello Spirito. Nel corso di quattro tappe denominate: Kreaturgefühl (sentimento di creatura), tremendum, mysterium, fascinans, vide l'uomo religioso sperimentare il sentimento di creatura e accostarsi con timore mistico all'affascinante maestà-mistero. Con questa scoperta del numinoso come valore, l'uomo religioso comprendeva il non-valore-numinoso del profano e l'anti-valore del peccato. Pertanto, benché immerso negli eventi storici, egli poteva percepire e scoprire il numinoso, che in essi si manifesta, grazie alla lettura dei loro segni. Quindi, accanto alla "rivelazione interiore" del sacro esisteva pure la sua "rivelazione storica". L'esperienza religiosa personale e le diverse tradizioni religiose venivano fondate su questa doppia rivelazione. Il Figlio era il testimone di questo sacro, mentre i profeti e i fondatori delle religioni ne erano i lettori.23

6

La ricerca fenomenologica e l'impegno ermeneutico di Eliade hanno modificato profondamente l'approccio al sacro, che si manifestava entrando nel mondo dei fenomeni mediante le ierofanie.24 A partire dall'opera di Otto, numerosi ricercatori, avvalendosi pure del pensiero di Husserl, costituirono la "fenomenologia della religione", scienza che denomina e classifica i fenomeni, inventaria le strutture e costruisce le tipologie, senza fermarsi ad esse. Essa si sforza di comprendere il senso dei fenomeni e ricuperarne il contenuto integrale, partendo dall'uomo. Quindi, nelle scienze delle religioni, essa si presenta con un metodo di analisi volto a scoprire l'intenzionalità e il senso profondo di ogni fenomeno. Il suo grande merito consiste nell'aver mostrato come si realizza l'inserimento dell'oggetto nell'esperienza del soggetto o, in altri termini, come l'uomo compie un'esperienza di fede e la esprime mediante un discorso che può divenire oggetto di scienza.25 Per le scienze della religione, il periodo compreso fra i primi decenni del secolo XIX e il secolo XX vide, dunque, l'utilizzazione di numerosi schemi interpretativi, anche se a volte discutibili, unilaterali o non facilmente armonizzabili, che contribuirono a dare una comprensione più profonda e più completa sia delle religioni dell'umanità che della religione in quanto tale.

9.

Le numerose tappe della scienza delle religioni

Questo periodo di accesi dibattiti consentì la chiarificazione e il consolidamento di notevoli acquisizioni. Innanzitutto divenne chiaro che l'approccio fondamentale della scienza delle religioni non può essere che storico e rivolto a collocare ogni documento nel suo contesto storico-culturale. La "storia", pertanto, deve fronteggiare la varietà ed eterogeneità iniziale dei documenti e vagliarne gli ambienti di provenienza e le strutture. Precisata così la loro morfologia, deve situarli nella diacronia, valorizzando anche gli apporti della "sociologia", che mette bene in risalto l'aspetto sociale di ogni fenomeno religioso e della sua collocazione storico-sociale. Tuttavia in questo itinerario, lo storico delle religioni deve pure ricorrere a numerose altre scienze: preistoria, archeologia, storia dell'arte, filologia, orientalistica, etnologia, psicologia, sociologia. Esse sono indispensabili per spiegare e comprendere l'immensa molteplicità delle esperienze, dei comportamenti e dell'universo mentale dell'uomo religioso, testimoniata dai documenti religiosi.26 Secondo Ries, il grande limite della storia delle religioni è di essersi soffermata troppo a lungo su idee, oggetti, testi, vestigia archeologiche e dati etnografici, anziché sottolinearne la "esperienza vissuta del sacro". Essa, per quanto parziale e limitata, presenta ogni volta una struttura analoga: l'homo religiosus che percepisce una ierofania mediante un'esperienza religiosa, che è identica sia per l'uomo arcaico che per il fedele delle grandi religioni.27 Questo momento, tuttavia, non rappresenta che la prima tappa. La seconda è data dal cammino fenomenologico per penetrare nel cuore dell'esperienza religiosa umana, decifrare il comportamento dell'uomo di fronte al sacro e attingerne la comprensione vissuta nell'esperienza ierofanica. Anche in questa tappa, per interpretare correttamente le ierofanie, la scienza delle religioni deve ricorrere a numerose altre discipline: filosofia della religione, psicologia, sociologia e psicologia del profondo. Tuttavia, ogni ierofania, contiene un suo specifico significato profondo, che ne costituisce il vero messaggio. Di qui la serie d'interrogativi sul contenuto di tale messaggio, sui suoi destinatari e sui suoi significati per l'uomo e la società. Ciò conduce, quindi, alla terza tappa, specificamente ermeneutica, che riguarda l'interpretazione più profonda dei significati religiosi.

7

Mircea Eliade ritiene che in essa si scopra ciò che l'esperienza religiosa vuole dire, non solo in se stessa, ma anche nel suo svolgimento storico. In definitiva, si tratta dell'ultrastorico che si rivela, mediante il fatto religioso, attraverso tutta la preistoria e la storia.28 La comunicazione del messaggio ierofanico conferisce all'uomo arcaico, oltre all'esperienza di vita in rapporto alla trascendenza, anche una nuova conoscenza riguardo alla struttura del mondo. Eliade ritiene pure che non basti limitarsi a un'ermeneutica esprimente soltanto il messaggio della ierofania all'uomo che ne è beneficiario. Vi è una seconda ermeneutica, molto più importanteche riguarda il messaggio che l'homo religiosus trasmette all'uomo di tutti i tempi e, in particolare, alla nostra cultura tecno-scientifica. Perciò la scoperta della psicologia del profondo eguaglia le grandi scoperte astronomiche e geografiche dell'era moderna perchè, proprio nel momento in cui i popoli arcaici si affacciavano all'orizzonte della storia, ha riportato alla luce le modalità arcaiche della vita psichica, quasi "fossili vivi nascosti nelle tenebre". Pertanto, questa seconda ermeneutica costituisce la sola risposta "intelligente" che l'uomo occidentale può dare alle sollecitazioni della storia contemporanea, visto che l'Occidente appare votato al confronto con i valori delle altre culture.29

10. Conclusioni: scienze della religione ed ermeneutica totale L'analisi delle ierofanie (soprattutto celesti) compiuta da Eliade, comprende e amplia le precedenti descrizioni delle scienze della religione, mostrando che il sacro si rivela all'uomo religioso come una potenza trascendente, che ha la sua fonte nella divinità. L'analisi della nozione di ierofania ha messo pure in luce il ruolo fondamentale del sacro, come mediatore tra la realtà trascendente e l'homo religiosus. Inoltre ha fatto comprendere come, a livello di tale mediazione, si collochi il mistero. Diviene evidente, a questo punto, il ruolo insostituibile del discorso teologico e della somma importanza della teologia, come "disciplina specifica del mistero divino". 30 Perciò, un'ermeneutica veramente totale, chiamata a decifrare ed esplicitare tutti gli incontri dell'uomo col sacro, dalla preistoria ai nostri giorni, diviene una sorgente viva per la cultura, si rivela creatrice di valori, fonda un'ulteriore dimensione per un nuovo umanesimo ed apre ai temi specificamente tologici. Questa ermeneutica assume un ruolo storico-religioso ma anche storico-culturale e storico-sociale, come pedagogia suscettibile di cambiare l'uomo e di fargli compiere i decisivi passaggi verso l'interpretazione e comprensione dei fatti religiosi fino alla riflessione creativa a partire da essi. In questo modo, colloca l'esperienza religiosa dell'uomo, dal paleolitico ai nostri giorni, al centro dell'educazione e formazione dell'umanità (umanizzazione), come filo conduttore, pieno di significati e orientamenti ben precisi, nel tumultuoso vortice delle innumerevoli e frammentarie manifestazioni particolari. 1

G. Gismondi, Fede e cultura scientifica, Bologna 1993.

2

G. Gismondi, Umanesimo scientifico e pensiero cristiano, Rovigo 1982, 227-256, 263280; Id., Critica ed etica nella ricerca scientifica, Torino 1978, 350-352. Di notevole rilievo pure E. Cantore, Scientific Man, the Humanistic Significance of Science, New York 1977, (tr. it. Bologna 1988). 3

Th. Luckmann, "Social Structure and Religion in Modern Industrial Society", in Science and Faith. International and Interdisciplinary Colloquium, Ljubljana 1984, 95-109. 4

Luckmann, "Social Structure", 14.

5

Luckmann, "Social Structure", 9-10.

8

6

Luckmann, "Social Structure", 15, 20.

7

Gismondi, Critica ed etica, 352-355; Id., Faith and Science Today, St. Louis 1986, 56-57; J.C. Eccles, D.N. Robinson, La meraviglia di essere uomo, Roma 1985, 35-43, 85, 113, 117118, 127-128. 8

Luckmann, "Social Structure", 22-23.

9

Th. Kuhn, Critica e crescita della conoscenza, Milano 1976.

10

Terzo mondo o mondo tre, nel linguaggio di Popper indica l'insieme degli scritti, rapporti, resoconti e relazioni redatti, diffusi e conservati dagli operatori e dalle istituzioni scientifiche. 11

K.O. Apel, Comunità e comunicazione, Torino 1977; P. Desinano, L'uomo religioso nella transizione informatica, Assisi 1987. 12

G. Filoramo, C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987, 27-28.

13

Desinano, L'uomo religioso, 81.

14

I. Mancini, "Esegesi e ermenutica", in Hermenutica, 7 (1987), 14-15

15

Mancini, "Esegesi e ermenutica", 22.

16

Mancini, "Esegesi e ermenutica", 32-33, 37.

17

Etnografia, parte descrittiva dell'etnologia, che documenta e descrive i caratteri etnici di un popolo. 18

P. Marquette, "L'Etnographie", in Encyclopédie de la Pleiade, 1435, 1547.

19

J. Ladriére, "Les sciences humaines et le problème de la scientificité", in Les Etudes philosophiques, Avril-Juin 1978, 2, 143. 20

V. Possenti (a cura di), Epistemologia e scienze umane, 49.

21

J. Ries, "L'uomo e il sacro. Trattato di antropologia religiosa", in E. Anati, R. Boyer (a cura di), Le origini e il problema dell'homo religiosus, Milano 1989, 21. 22

J. Ries, "Sacro", in Grande Dizionario delle Religioni, Assisi-Casale Monferrato 1989, II,

1854. 23

Ries, "Sacro", 1854.

24

Ierofania indica qualsiasi manifestazione e apparizione del divino e del sacro. Cf. Ries, "Sacro", 1855. 25

J. Ries, "Sciences humaines et science des religions", in Civiltà delle macchine, 27 (1979), 4-6, 40. 26

M. Eliade, Le sacré et le profane, Paris 1965, 137.

27

Ries, "Sciences humaines", 42.

28

M. Eliade, Le chamanisme, Paris 1968, 12.

29

M. Eliade, Méphistophéles et l'androgyne, Paris 1962, 10.

30

Ries, "Sacro", 1856.

9

3. SVILUPPI EPISTEMOLOGICI E SCIENZE DELLE RELIGIONI 1.

Cenni introduttivi

Nei precedenti capitoli abbiamo visto come l'esordio delle scienze delle religioni sia stato reso difficile e incerto dalla subordinazione ai criteri e ai metodi delle scienze naturali, elaborati per indagare "cose" puramente materiali. Abbiamo pure sottolineato gli sforzi e i tempi occorsi per sviluppare metodi più adatti alla profondità e complessità dei fenomeni religiosi. Dobbiamo ora esaminare come, con la fenomenologia, l'ermenutica e la "svolta antropologica", si sia prodotto un mutamento epistemologico, che ha consentito di sviluppare un approccio più adeguato alla specificità e complessità dei fenomeni religiosi. Vedremo pure la radicale esigenza di spostare sempre più l'attenzione, dalle cose alle persone e dagli oggetti ai soggetti, per sviluppare ulteriormente le potenzialità insite nel nuovo spirito scientifico.

2.

Scientificità specifica delle scienze della religione

Infatti, non va sottovalutato che il riconoscimento della centralità dell'uomo non può sviluppare tutto il suo potenziale, fino a che l'uomo continua a essere considerato come un oggetto o, peggio ancora, come una cosa dalle scienze che lo studiano. Occorre, perciò, che le scienze umano-sociali recuperino la loro piena identità, anche sotto questo fondamentale aspetto, rivendicando l'unicità dell'uomo e sviluppando una propria epistemologia affrancata da ogni imitazione delle scienze naturali. In questa luce, appare di estremo interesse rileggere la storia del pensiero scientifico e dell'evoluzione epistemologica, in concomitanza col progredire ed estendersi degli studi scientifici sulla religione. Essi condussero ad alcune acquisizioni molto importanti, quali: la religione costituisce un fenomeno storico, culturale e umano, che chiama in causa, come soggetto, l'uomo nella sua globalità e totalità; il concetto di "religione" è analogico, ossia unisce un nucleo comune ad aspetti di volta in volta affini e diversi; anche per la religione, come per ogni altro ambito di ricerca, investigato con metodo scientifico, la definizione dipende dalla prospettiva metodologica adottata. Questi principi indicano che neppure le scienze della religione, in quanto tali e da sole, possono offrire una conoscenza esaustiva e globale della realtà religiosa. Le loro acquisizioni rimangono parziali e provvisorie, bisognose di ulteriori punti di vista e incapaci di attingerne l'essenza o le ultime origini e ragioni. Queste, di fatto e per principio, superano l'ambito delle conoscenze scientifiche e richiedono l'apporto di altri ambiti disciplinari (filosofia e teologia).

3.

Basi culturali e sviluppi storici

Ciò chiarito, occorre precisare che la ricerca sulle origini della religione nacque da una duplice necessità. Innanzitutto essa sembrava l'unico modo per sfuggire alla difficoltà di definire la religione in base alle "etimologie" o alla "essenza". Le prime non consentivano "ricerche operative", la seconda esigeva che si considerassero nozioni (trascendenza, creazione, ecc.) non comuni a tutte le religioni. Il tentativo di far consistere l'essenza della religione in una base minima di elementi semplici, omogenei

e riscontrabili ovunque (minimo comun denominatore), trovò tali difficoltà da dover essere abbandonato. Poiché l'impostazione fenomenologica rivendicava il valore dell'esperienza religiosa, come elemento centrale del fenomeno religioso, le varie discipline si rivolsero ad essa cercando di costruirsi, ciascuna per proprio conto, la definizione operativa più consona ai propri presupposti, metodi e finalità. Questa impostazione evitava le "definizioni essenzialistiche" troppo ristrette, ma ne consentiva altre troppo ampie, vaghe e inutilizzabili. Si pensò, perciò, di stabilire dei "criteri" utili a delimitarle. Essi risultarono numerosi quanto gli autori che li proponevano, tuttavia orientarono progressivamente il pensiero scientifico verso problemi più profondi e significativi. Ad esempio, per alcuni indirizzi psicologici la religione diveniva: un atteggiamento intellettuale di superamento dei propri limiti; un'occasione di fiducia, confidenza e abbandono; un'elevazione della personalità al suo più alto grado.1 Per altri, invece, essa indicava: la risposta a ciò che viene sperimentato come realtà ultima; la risposta globale dell'essere totale; l'esperienza umana più intensa; l'impegno imperativo che coinvolge tutto l'uomo.2 La ricerca sociologica, che privilegiava le dimensioni funzionali o strutturali della religione, presentò anch'essa posizioni assai divergenti. Esse, tuttavia, segnarono un progressivo passaggio, dalle teorie più vecchie, che vedevano nelle religioni solo credenze erronee e pratiche illusorie, immature o infantili, a concezioni in cui la religione diviene parte fondamentale della creazione delle funzioni sociali e del mantenimento della socialità.3 I sociologi nordamericani, soprattutto, hanno sottolineato la religione come espressione del più alto livello della cultura,4 di cui hanno messo in luce il carattere specificamente simbolico. Pertanto la religione, come sistema di simboli, stabilirebbe disposizioni e motivazioni potenti, pervasive e durevoli, nelle persone e nelle comunità.5 Gli storici delle religioni spaziavano fra l'accettazione e il rifiuto delle definizioni. "Soggettivamente" vedevano nella religione l'idea e il sentimento di una dipendenza riguardo a una o più potenze personali sopraterrestri, con le quali l'uomo pretende di entrare in relazione. "Oggettivamente" consideravano la religione come l'insieme degli atti esteriori (preghiera, sacrificio, sacramento, ecc.), nei quali si esprime e si manifesta la religione soggettiva.6 Bianchi sosteneva che "finché la religione non è definita sostantivamente è impossibile delineare i confini", per cui occorre evitare ogni selezione e riduzione pregiudiziale.7 Come base della religione, alcuni assumono la credenza in una o più potenze, concepite come personali, superiori, indipendenti dalle forze umane, verso le quali l'uomo si pone in atteggiamento di dipendenza, persuaso di poter comunicare con loro. Tenuto conto che il fenomeno religioso non è univoco ma analogico, questa definizione non sarebbe né selettiva né esclusiva. Comunque, anche se i vari criteri non sono mai totalmente condivisi, offrono sempre utili orientamenti. Pertanto si può ritenere che il fenomeno religioso vada riferito a una realtà (sacro, trascendente, assoluto, supremo, misterioso, soprannaturale, divino, ecc.) che riveste caratteri decisivi di ultimità e definitività, di cui non si esclude la dimensione personale, alla quale l'uomo risponde con dedizione, fiducia e abbandono (o, all'opposto, con la fuga, l'opposizione e la ribellione). Inoltre il fenomeno religioso è in continuo rapporto dialettico con le dimensioni psicologiche, storiche, economiche, culturali e sociali, che coinvolgono tutta la vita concreta dell'uomo (singolo e comunità), concretizzandosi in espressioni strutturali e istituzionali (sistemi di simboli, di miti, comportamenti e riti).

2

3.1. Prime ricerche: le mitologie Tenuto conto di questi criteri, possiamo capire perché, nel secolo XIX, soprattutto in Germania, si fosse sviluppata una ricerca volta a interpretare le antiche mitologie con i metodi della critica testuale. Si intendeva, con esse, far luce sulla religione. Questa scuola, detta simbolica (F. Creuzer, K.O. Müller), focalizzò l'attenzione sui simboli e i miti. Tuttavia, nonostante la validità dell'idea, i tempi non erano ancora maturi. Mancavano ancora una riflessione approfondita al riguardo, materiali sufficienti e strumenti metodologici ed ermeneutici, necessari per tale interpretazione. Nonostante ciò, la critica testuale costituì una via valida per preparare le sintesi future e le successive conclusioni. Nello stesso periodo, un'altra scuola, della "mitologia della natura", studiava le religioni indoeuropee e indogermaniche, applicando il metodo filologico. Il caposcuola Max Müller, adottò il metodo della "etimologia comparata" che, per quanto inquinato da procedimenti arbitrari, non impedì utili risultati, quali l'identificazione fra lo Zeus greco, lo Jupiter italico, il Varuna indiano, l'Azura Mahda persiano e il Tyr norvegese, ecc. Queste scuole muovevano da tesi ancora troppo speculative e non potevano disporre di documentazioni vaste e sicure. Tuttavia il metodo filologico si mostrò valido, soprattutto se integrato con dati archeologici, etnologici e antropologici.

4.

Gli inizi deIl'approccio antropologico

Nella seconda metà del secolo XIX, nell'ambito culturale francese e inglese, si sviluppò un diverso approccio concettuale e metodologico, che intendeva scoprire l'essenza della religione, partendo dalle sue forme originarie o elementari, ritenute primitive, per seguirne l'evoluzione verso forme sempre più complesse ed evolute. Di qui la forte attenzione per i popoli "primitivi" designati, con termine assai eloquente: "barbari", "selvaggi", "razze inferiori". Ovviamente, la chiave di volta di ogni ricerca scientifica era, allora, l'evoluzionismo. Poiché nessuna delle ipotesi formulate risultava soddisfacente, se ne susseguirono molte, di cui indicheremo solo alcune. Per J. Lubbock, fasi o stadi successivi dell'evoluzione religiosa dovevano essere: l'ateismo o idea indistinta di Dio, il feticismo, il totemismo o adorazione della natura, lo sciamanesimo, l'idolatria o antropomorfismo e infine il teismo etico.

4.1. L'animismo Tylor lo confutò dimostrando che nessun popolo primitivo è ateo. Per lui la religione dei primitivi era una realtà animata e abitata da spiriti (animismo). Egli elencò un numero assai maggiore di tappe dell'evoluzione, che risultava più articolata e complessa: formazione dell'idea dell'anima; proiezione di essa sulle cose esterne; identificazione degli antenati in spiriti benefici o malefici; proiezione della nozione di "puro spirito" nella natura; politeismo; raggruppamento delle divinità buone in un unico dio buono e di quelle cattive in un dio cattivo; monoteismo. Questa teoria, rispondente al gusto del tempo, ebbe enorme successo. La sua capacità si semplificare un materiale enorme le dava una vernice di scientificità che affascinava. Tuttavia lo schema evoluzionista già debole in sé, rendeva ancora più debole questa sintesi così azzardata. Inoltre il presupposto dell'illusorietà dell'anima, trasformava la religione in una colossale illusione, riducendo le scienze delle religioni a scienze delle illusioni. Infine l'identificazione del "minimo" della religiosità con l'animismo non convinceva. Volendosi trovare qualcosa di ancor più semplice, si ipotizzò il "pre-animismo".

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4.2. Il Mana R. H. Codrington, studiando religioni e culture melanesiane, pensò di aver identificato la loro credenza in una potenza o influenza soprannaturale chiamata "mana". J. H. King scoprì che altri popoli usavano nomi diversi per designare la stessa realtà, che per alcuni era la base della magia (tentativo di dominare le forze impersonali). R.R. Marrett individuò l'origine della religione nel sentimento di timore di fronte alla "potenza" 4.3. La magia J. G. Frazer, attratto dalla magia, studiò i rapporti di questa con la scienza. Ne ricavò che la magia produce effetti con cerimonie che "dominano" le forze inconscie, senza "abbassarsi" davanti alla divinità. La scienza agisce allo stesso modo, ma scegliendo cause giuste, che ottengono veramente gli effetti voluti. Quanto alla religione la interpretò come credenza in potenze conscie, superiori all'uomo, che essa intende propiziarsi. La magia, quindi era la forma prima e originaria, anche se sbagliata, del pensiero umano. Come all'insoddisfacente animismo era stato anteposto il preanimismo, così all'insoddisfacente magia si antepose il pre-magismo. K. Beth ipotizzò che magia e religione provenissero dal suo stadio preliminare, indifferenziato e di durata sconosciuta. 4.4. Il totemismo Anche il totemismo ebbe una storia travagliata. Totem sarebbe un animale (o vegetale o fenomeno naturale) associato come antenato alla vita di gruppo, oggetto di timore, reverenza e culto. Totemismo era l'insieme delle teorie che intendevano trovare nel totem l'inizio della religione o il fondamento di istituzioni e comportamenti nelle società primitive. Le prime risalgono alla scuola antropologica inglese, le cui interpretazioni, però, rimasero incerte per la notevole complessità delle nozioni-base. Durkheim fece del sistema totemico una vera religione. Freud, privo di esperienza etnologica, in base a disparate letture, lo mescolò con l'ipotesi darwiniana della società primitiva, sottoposta alla dura autorità del padre e lo inserì nel rito di un pasto commemorativo dell'assassinio del padre. Fece, quindi, del pasto totemico, riproduzione di quell'atto criminale, l'origine universale della società, della cultura, della religione e della morale. In realtà, le prove che il totemismo fosse un regime universale e un passaggio obbligato di tutti i popoli, non furono mai trovate. Perciò Lévi-Strauss lo contestò e lo criticò come una "fantasia teorica" degli occidentali, desiderosi di mantenere la loro superiorità di "civilizzati" sui "primitivi". Inoltre ritenne che esso derivasse dall'eccessiva ansia di porre sotto un concetto sintetico, quei fatti di cui l'uomo moderno si rifiutava di trovare traccia nelle sue credenze e nei suoi comportamenti. Ciò rese gravemente sospette sia la teoria, che le sue finalità e il suo metodo. Tutte queste teorie erano accomunate da alcune gravi debolezze. Innanzitutto valutavano, senza prove e in modo puramente gratuito, l'uomo antico come primitivo, selvaggio, inferiore, ecc. In secondo luogo, alcune confondevano la religione, che è la tendenza "personificante" dell'uomo, con la magia che, all'opposto, è la tendenza "reificante" della persona. Tale equivoco risultò assai grave e fuorviante. In terzo luogo il loro continuo ricorso a costruzioni speculative avulse dai fatti, anziché a ricerche fenomenologiche, da verificare e intepretare correttamente, era metodologicamente scorretto e conduceva a conclusioni infondate.

5.

Dalle scienze umane alle scienze della religione

Tuttavia, questo gioco di errori e correzioni, di congetture e confutazioni, apriva faticosamente la strada a nuovi indirizzi e ulteriori discipline. La proliferazione disciplinare che fa parte dello sviluppo ordinario della scienza, riguardò non solo le 4

scienze naturali, ma anche quelle umano-sociali e della religione. Come abbiamo visto, le scienze umane erano sorte in una temperie culturale impregnata di idee illuministe, razionaliste, positiviste, storiciste, evoluzioniste, che condizionò pure le scienze della religione. La prima di esse a svilupparsi, la storia delle religioni, si proponeva lo studio storico delle tradizioni religiose, per ricostruire storicamente l'evoluzione religiosa dell'umanità. Successivamente le si aggiunsero la storia comparata, la fenomenologia della religione, la psicologia della religione, la sociologia della religione e l'antropologia religiosa, tanto che, nella seconda metà del secolo XIX, la religione veniva studiata ormai da un insieme di discipline, che spaziavano dalla storia delle religioni all'antropologia culturale, l'etnologia, la psicologia e la sociologia. Esse elaborarono un'ingente mole di dati, diversi ed eterogenei, che esigevano un riordinamento e uno sforzo di unificazione. Il primo tentativo fu fatto secondo gli schemi illuministi di una "scienza della religione" unica e capace di uniformare tale accumulo. Una rilettura attuale di quel tentativo evidenzia i molteplici presupposti che in esso confluirono: razionalisti, positivisti, evoluzionisti, teologici, apologetici, ecc. talora in notevole conflitto tra loro. Pertanto i criteri ispiratori spaziavano dalla dimostrazione dell'inessenzialità della religione e della sua irreversibile scomparsa, fino all'estremo opposto: la dimostrazione della superiorità del cristianesimo sulle altre religioni. Come abbiamo visto, in quell'epoca, il paradigma scientifico delle scienze naturali imponeva ad ogni disciplina la "metodologia esplicativa", che esigeva la ricerca delle unità elementari per spiegare la realtà indagata: "particelle", "forme elementari", "forme primitive" ecc. Pertanto anche le scienze della religione procedevano alla ricerca delle "forme elementari" da cui "doveva" iniziare il "progressivo sviluppo" religioso dell'umanità. Poiché tali forme elementari non furono mai trovate, il progetto fallì e dovette essere abbandonato. In realtà, mancava ancora la consapevolezza epistemologica su alcuni punti fondamentali, quali: i procedimenti seguiti nella meccanica classica (fisica) non sono esportabili nel campo dei fenomeni umani; occorre un pluralismo metodologico; le scienze umane devono perseguire sempre un rapporto equilibrato fra lo spiegare e il comprendere. Di tutto ciò, si è cominciato a parlare solo recentemente.

6.

Verso un'epistemologia delle scienze della religione

Tali acquisizioni epistemologiche si sono rivelate particolarmente importanti per le scienze della religione, il cui oggetto esige un'equilibrata integrazione tra la spiegazione, che prepara la comprensione e la comprensione, che completa la spiegazione. Esse mostrano l'urgenza di stabilire un adeguato statuto epistemologico per le diverse scienze della religione, appropriato all'unicità e peculiarità del loro ambito problematico. Tale statuto non è facile a trovarsi, dato il dissenso tuttora vigente sulla stessa denominazione e ampiezza dell'ambito disciplinare. Come abbiamo visto, quattro sono le possibili impostazioni: scienza della religione, scienze della religione, scienza delle religioni, scienze delle religioni. Non si tratta solo di terminologia ma della necessità di accettare o meno un pluralismo di oggetti oltre che di metodi.8 Infatti si va dalla scienza unica per un solo ambito (scienza della religione) a più scienze per molteplici ambiti (scienze delle religioni), passando per le soluzioni intermedie (scienze della religione e scienza delle religioni). L'orientamento attuale sembra favorire la molteplicità, che considera le scienze delle religioni un vasto ambito disciplinare avente più oggetti, costituiti dalle molteplici e

5

diversificate forme d'indagine cui può essere sottoposta la religione. Accettando questa impostazione, si deve affrontare il problema di come utilizzare, in modo costruttivo e fruttuoso, le diverse acquisizioni, per cui diviene molto importante la collaborazione inter- e trans-disciplinare.9

6.1. Le difficoltà degli approcci complementari Sono, tuttavia, ben note le obiezioni a tale collaborazione: mancano un accordo sui criteri e sulle norme per attuarla; non si sa come superare la diversità di metodi e di linguaggi; vi è il rischio che qualche metodo pretenda un ruolo preferenziale o prioritario sugli altri; non si vede come le diverse discipline possano comunicare e confrontare i rispettivi nodi problematici, ecc. Nessuna di esse è da sottovalutare, ma non deve neppure costituire un ostacolo insormontabile. Rimanendo mel campo storico, ad esempio, vediamo che nella stessa storia delle religioni si presentano (e oppongono) almeno tre differenti prospettive metodologiche. Una è data dallo studio storico-filologico delle varie tradizioni religiose ("Hautes Études" di Parigi). Un'altra è data dalla storia comparata delle religioni (alla Max Müller). La terza contrappone la "History of Religions" alla(e) "Science(s) of Religion(s)".10 Riguardo al confronto più vasto fra tutte le altre discipline, troviamo le contrapposizioni delle discipline "storiche" con le discipline "non-storiche", quali la fenomenologia della religione, l'antropologia, la psicologia, e la sociologia, o addirittura con quelle ritenute "antistoriche", come lo strutturalismo. Esse si dividono sul problema: a) di un corretto rapporto fra il momento diacronico e sincronico nello studio dei fenomeni religiosi, b) del giusto metodo per affrontare gl'interrogativi posti dai fenomeni della continuità e della permanenza, e dall'emergere di modelli e di strutture. In senso contrario a queste difficoltà vanno, invece, alcune tendenze più recenti, quali l'attenuarsi dell'interpretazione positivista e fisicista dei "dati" e dei "fatti", che consente di valorizzare i "fatti umani" in quanto "umani" e di rivalutare, quindi, la concretezza dei soggetti e delle persone. Va ricordata, poi, la maggior consapevolezza ermeneutica, che ha permesso di accertare la "non ingenuità" di ogni dato e la sua "qualifica" previa a ogni nostra qualificazione. Ciò richiede di valorizzare, ma anche di chiarire bene la natura degli approcci ermeneutici.11 Infine, la rivalutazione degli elementi esistenziali e personali sembra spostare la preferenza degli studiosi verso una considerazione sempre più "antropologica" (umana) e sempre meno "cosmologica" (naturalistica) del problema religioso.

7.

Scienze delle religioni: oggetto e pluralismo disciplinare

Come visto, uno dei plessi problematici delle scienze delle religioni risiede nel definire l'oggetto delle loro ricerche. Al riguardo vige il duplice timore di formulare definizioni arbitrarie, oppure di cadere in definizioni essenzialiste. Nel primo caso si avrebbe, come conseguenza, il riduzionismo. Nel secondo caso si avrebbero "scelte di valore" estranee alle indagini empiriche. Come abbiamo dimostrato in "Fede e cultura scientifica", tutte queste difficoltà derivano dalla vecchia mentalità scientista ora sempre in declino. D'altra parte, l'approccio esclusivamente storico, pur essenziale e insostituibile, da solo non consente di percepire ciò che le altre discipline (fenomenologia, psicologia, sociologia e antropologia) hanno potuto percepire e rendere familiare. Esse hanno evidenziato quegli aspetti permanenti che non possono essere risolti nel puro storico, quali: le note elementari ricorrenti, i rapporti, le logiche strutturali particolari, i tipi, i simboli, le strutture, i complessi, ecc.

6

Lo studio scientifico della religione è progredito proprio in seguito a queste nuove prospettive metodologiche, che lo hanno arricchito, consentendo di cogliere nuovi e ulteriori aspetti di quella realtà tipicamente umana, culturale e sociale, estremamente varia, vitale e inesauribile, che è la religione. Pertanto, la crescente documentazione specializzata ha reso urgente il problema di una sua rigorosa elaborazione sistematica, secondo criteri molteplici e differenti, al fine di evitare i pericoli di una "rilettura" unica o unidmensionale di essa. Infatti, il recente dibattito epistemologico ha messo in luce i modi in cui le scienze contribuiscono a creare cultura. Essi consistono non tanto nello scoprire "verità definitive", quanto nell'aprire nuove aree problematiche e sollevare interrogativi di fondo sulle realtà indagate. Tali interrogativi, nati dalla ricera scientifica, superano i suoi limiti problematici e metodologici, esigendo un discorso, meta-scientifico.12 Sono proprio le scienze, quindi a sollevare domande ricche di implicazioni filosofiche, metafisiche, religiose e teologiche, il cui numero e importanza crescono in proporzione geometrica allo sviluppo delle loro ricerche.13 Esse indicano che, mentre la pretesa unificazione verso il basso (metodologica) appare impossibile, quella verso l'alto (problematiche meta-scientifiche) risulta invece del tutto possibile e necessaria. Le varie discipline, perciò, trovano a loro disposizione numerosi referenti, utili ai loro fini. Ogni operatore scientifico dovrebbe, perciò, rendersi un interlocutore adeguato al dialogo con le altre discipline, scelte sulla base delle sue finalità specifiche o delle sue peculiari esigenze metodologiche. In questo modo, anche la teologia, per il suo sviluppo interno e per il dialogo interreligioso, disporrebbe di interlocutori particolarmente validi nella storia comparata, nella fenomenologia storica della religione, nell'antropologia religiosa e nelle varie sociologie e psicologie della religione. Nei prossimi capitoli cercheremo di descrivere i problemi salienti di tali rapporti.

8.

Nuovi approcci scientifici alla religione

Questo discorso oggi viene reso più attuale e interessante dall'ingresso, fra le varie scienze della religione, di una nuova disciplina: la "nuova antropologia della religione", sorta verso la metà del secolo XX in concomitanza alla grande svolta epistemologica del nostro secolo. Ultima in ordine di tempo, essa ha usufruito per prima del clima epistemologico-culturale, completamente rinnovato, di cui abbiamo trattato nel primo capitolo. Quindi essa ha apportato una novità e un di più, che possono essere meglio compresi, se confrontati con le acquisizioni delle precedenti ricerche scientifiche sulla religione.14 A tal fine riprendiamo alcuni degli elementi esaminati nel corso del capitolo, per considerarli in questa nuova luce.

8.1. Dalle scuole mitologiche ed evoluzioniste all'antropologia Essa ha perfezionato nei presupposti, nei contenuti e nei metodi le ricerche di mitologia comparata dei popoli, delle scuole "simbolica" e "mitologica della natura", depurandole dalle loro speculazioni eccessive e ancorandole ai riscontri fattuali successivamente emersi. Essa ha permesso di sgombrare il campo dalle numerose teorie-ideologie dell'approccio evoluzionista, nonostante l'eccezionale successo da esse riscosso.15 Tuttavia, ciò che più conta, è che essa ha focalizzato l'attenzione su alcune tematiche fondamentali e decisive per lo studio scientifico e non soltanto scientifico della religione. Si tratta dei temi delle ierofanie, dell'antropofania e dell'homo religiosus.

7

9.

Nuove aree tematiche: ierofanie e homo religiosus

Questa focalizzazione appare ancora più importante, se teniamo conto dell'estrema eterogeneità e vastità dei dati, delle impostazioni e dei problemi insoluti, accumulati, fin dagli inizi, dalla ricerca scientifica su religione e religioni che, nella rapida rassegna di questo capitolo abbiamo potuto mettere in luce solo in parte. Appare, quindi, necessario coordinarli attorno ad alcune aree tematiche principali, da analizzare in modo approfondito e con metodo interdisciplinare, per collegarli organicamente. A tal fine le aree tematiche e problematiche degne di maggior considerazione sono risultate quelle delle "ierofanie e teofanie",16 e dell'"homo religiosus"che ruotano attorno all'acquisizione della religione come "dato antropologico universale" e come "manifestazione dello specifico umano". La scelta di queste aree tematiche comporta importanti conseguenze. Innanzitutto consente di collegare il problema delle ierofanie con quello delle antropofanie.17 In passato il tentativo di "ridurre" ogni ierofania a una pura antropofania ha danneggiato e deformato notevolmente l'interpretazione del fatto religioso. Il maturare della riflessione e delle ricerche ha messo in luce che tale riduzione non centrava il problema, perché di fatto ogni vera teofania è anche e sempre un'autentica antropofania. Infatti, in seguito alla grande tradizione biblico-cristiana, il criterio fondamentale per distinguere se una teofania è vera, consiste proprio nella sua capacità di svelare e di valorizzazione anche l'autentico umano. Pertanto la formulazione corretta dell'interrogativo al riguardo deve essere: a quali condizioni un evento religioso può essere considerato, insieme, autentica teofania e genuina antropofania. I criteri del discernimento critico che ne conseguono trovano largo e significativo riscontro, ad esempio, nell'annuncio evangelico. Pertanto tale interrogativo, nella storia delle religioni, non è nuovo. E' nuovo, invece, il suo proporsi nell'orizzonte delle scienze della religione, che ne dimostrano l'attualità e, ancor più, la rinnovata continuità. La riformulazione dell'interrogativo, all'interno di questo nuovo contesto, consente di correggere pure l'impostazione apologetica classica. Pertanto è preferibile dimostrare più la "specificità" della "religione cristiana", che non la sua "priorità e unicità". Ciò non attenua il carattere dell'evento cristiano, che ne fa, non solo una religione nel senso comune del termine ma, primariamente ed essenzialmente, un dono divino e un rapporto salvifico di fede e grazia. Tuttavia, non evita neppure il confronto specifico sui suoi fondamentali aspetti "religiosi", che vanno evidenziati nel dialogo interreligioso. In questo modo, tale dialogo richiede la collaborazione delle scienze della religione che possono parteciparvi con un confronto transdisciplinare su tipi, simboli, strutture, concetti, atteggiamenti, comportamenti, miti, riti, ecc., offrendo un sussidio prezioso al suo corretto e proficuo svolgimento.

10.

Specificità dell'evento cristiano di fronte a religioni e scienze

Questa molteplice articolazione di dialogo e di confronto, nelle sue dimensioni interreligiosa, interculturale e trans-disciplinare, contribuisce a focalizzare lo "specifico" del cristianesimo, che lo rende unico a tutti gli effetti rispetto a ogni altra realtà. Questa unicità oggi va espressa in termini non soltantodi teologia, ma anche di scienze delle religioni. Nel primo caso come "annuncio", nel secondo come "pretesa" di proclamare a tutti la buona notizia dell'evento storico che il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e d'Israele, ha inviato il suo Figlio Unigenito nel suo servo Gesù di Nazareth che ha risuscitato, dopo che era stato respinto, condannato e crocifisso a Gerusalemme, costituendolo suo Cristo (Unto, Messia), Signore e Salvatore di tutti gli uomini. 8

Per il dialogo interreligioso, i punti evidenziati sottolineano un "evento storico, reale e vero" benché misterioso (teofania). Esso diviene "notizia, annuncio, messaggio e proclama" cui si chiede un risposta di accoglienza nella "fede" che suscita la "speranza" ed esige la trasformazione personale nella "carità". Diviene quindi impegno di vita rinnovata, da attuare in ogni settore dell'esistenza quotidiana e storica, della cultura e della società (antropofania), perché tutti credano e raggiungano la salvezza. Per questo motivo esso diviene anche "religione" (homo religiosus). Per il dialogo trans-disciplinare, questo evento, espresso nelle categorie appropriate alle scienze della religione, coinvolge i temi delle "ierofanie e teofanie", delle "antropofanie" e dell'"Homo religiosus". Pertanto, espresso in tali termini riguarda la "pretesa" che Gesù di Nazareth, Cristo, (Unto, Messia) Figlio del Dio vivente è la "teofania" definitiva, piena e perfetta, automanifestazione e autodonazione piena di Dio agli uomini. Di conseguenza, egli è pure la suprema "antropofania", ossia la piena manifestazione dell'uomo perfetto. Egli è pure il perfetto esemplare dell'"homo religiosus", come perfetto adoratore del Padre in Spirito e verità e come colui che ne attua fino in fondo la volontà salvifica nella libera obbedienza di amore. Si tratta quindi di un campo tematico vastissimo, sia per il dialogo interreligioso che per il confronto con le scienze della religione, di cui non è facile valutare i benefici possibili per i due campi: religioni e scienze.

11.

Riflessioni conclusive

Dall'evoluzione storico-concettuale delle scienze della religione traspare la possibilità di significativi approfondimenti da sviluppare negli specifici capitoli. Qui vorremmo sottolineare come essa prospetti un dialogo interreligioso sui temi e problemi specifici delle diverse tradizioni religiose riveduti alla luce del ricchissimo materiale elaborato dalla ricerca scientifica sulla religione e le religioni. Gli apporti della riflessione religiosa, spirituale e teologica e quelli delle elaborazioni scientifiche, non solo non appaiono ostacolarsi o contrapporsi ma fanno presagire anche possibilità di vicendevoli integrazioni e completamenti. In questo capitolo, infatti, abbiamo verificato quanto metodi, teorie e finalità delle scienze, per quanto importanti e insostituibili, siano pure parziali e bisognosi di ampie integrazioni e complementi. Tuttavia, la loro problematicità e criticità non cessano di sollevare interrogativi scomodi ma utili e tematiche difficili ma significative, che costituiscono sollecitazioni preziose per un'analisi più approfondita della religiosità e delle religioni. I benefici di un confronto "multilaterale" fra religioni e scienze, quindi, appaiono molteplici. Da un lato, i risultati della ricerca, vagliati e valutati criticamente, costituiscono un prezioso strumento di verifica storica e discernimento critico delle varie tradizioni religiose, dei loro contenuti e dei loro più diversi aspetti personalipsicologici, socio-sociologici, culturali-antropologici, ecc. D'altro lato, il patrimonio spirituale, mistico ed etico delle diverse esperienze religiose, tramandato dalle grandi tradizioni e istituzioni religiose, costituisce un prezioso strumento di verifica sapienziale e umana, di discernimento epistemologico e di valutazione critica ed etica delle acquisizioni scientifiche. Questo confronto inedito non appare facile. Spetta alla chiesa del terzo millennio prepararlo e prepararvisi, attingendo forza e ispirazione, in primo luogo, alla sua fede illuminata, e a speranza e amore convinti. In secondo luogo, attingendo al proprio patrimonio di esperienze religiose più profonde e autentiche. In terzo luogo aprendosi a un ascolto sincero e rispettoso di quanto, sotto la guida del Logos e dello Spirito, l'homo religiosus, symbolicus e sapiens, nella preistoria e storia umane, non ha mai smesso di creare e di affinare. 9

1

Cf. K. Girgensohn, Der seelische Aufbau der religiösen Erlebens, Gütersloh 1930.

2

Cf. J. Wach, Types of Religious Experience, Christian and Non-Christian, Chicago, 1951.

3

A.R. Radcliffe-Browne, Structure and Function in Primitive Society, Glencoe Ill. 1952.

4

T. Parsons, Christianity and Modern Society, New York 1964.

5

C. Skalicky, Alle prese con il sacro, Roma 1982, 24.

6

W. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, Brescia 1938, 2.

7

U. Bianchi, Saggi di metodologia della storia delle religioni, Roma 1979, 50-51.

8

G. Filoramo, C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987, 7-15.

9

A. Molinaro, "Considerazioni introduttive sullo studio della religione", in A. Molinaro (a cura di), Le metodologie della ricerca religiosa, Roma 1983, 7-16. 10

"Storia delle religioni" e "scienza delle religioni". Per la seconda la duplice indicazioni singolare-plurale (scienza-scienze, religione-religioni) indica divisioni e pareri discordi. 11

Filoramo, Prandi, Le scienze, 16-18.

12

G. Gismondi, "Fede e cultura: un'ermeneutica della religione", in C. Sersale (a cura di), Gli Istituti di Scienze Religiose nella Chiesa. Per uno statuto epistemologico, Bologna 1990, 4950. 13

G. Gismondi, Critica ed etica nella ricerca scientifica, Torino 1978, 318-324.

14

Ci riferiamo in particolare agli specifici rilievi critici espressi in: Skalicky, Alle prese con il sacro, e Filoramo, Prandi, Le scienze delle religioni. 15

Fra esse particolarmente: l'ateismo primitivo, l'animismo, il preanimismo magico, il premagismo e il totemismo. Oggi è difficile spiegare le cause di tale successo. Vi contribuirono la loro eleganza, la brillantezza e lucidità, il conformismo alle mode del tempo e, soprattutto la risposta al desiderio di "sintesi" esplicative dei dati accumulati. Le acquisizioni successive ne misero in luce i pregiudizi ideologici (evoluzionismo, progressismo); l'insufficiente documentazione; l'eccessiva generalizzazione di dati troppo limitati; l'arbitrario pregiudizio della quasi-bestialità, assenza di razionalità e incapacità di pensiero logico degli uomini primitivi. ecc. Cf. Skalicky, Alle prese con il sacro, 41, 47-49, 57, 60. 16

Ierofania (da sacro-apparire) indica una manifestazione del sacro o della divinità agli occhi di un mortale. Teofania designa una manifestazione del Dio personale in una religione monoteista. 17

Antropofania indica la manifestazione di aspetti profondi e sconosciuti della persona umana.

10

4.

STORIA E FENOMENOLOGIA DELLA RELIGIONE

1.

Cenni introduttivi

In questo capitolo esamineremo due discipline tra loro collegate, ma in forte competizione: la storia delle religioni e la fenomenologia della religione, entrambe molto significative e ricche di apporti. La fenomenologia si considera la normale continuazione e prolungamento della storia. La storia nega tale continuità e la stessa legittimità della fenomenologia. Il conflitto si colloca sul crinale della nuova concezione di scienza introdotta da Husserl, che ha detronizzato le precedenti posizioni scientiste e positiviste, dando un impulso vigoroso al nuovo spirito scientifico. Esporremo alcuni aspetti storici e teorici di questa vicenda, più vicini alla nostra ricerca. Chi trovasse alquanto tecniche o specializzate alcune parti dell'esposizione, potrà passare subito alla sintesi essenziale del capitolo, esposta nel paragrafo: "sguardo metodologico sintetico".

2.

La storia delle religioni

La storia delle religioni, sorta come disciplina autonoma, con oggetto e metodo propri, si assunse il compito culturale di liberare la dimensione religiosa e le sue dinamiche da ogni dipendenza teologica. Le sue radici affondavano nelle remote idee del razionalismo, illuminismo e deismo inglese, che trovarono poi nella Storia naturale della religione (1757) di Hume un referente fondamentale. In essa si negava che un eventuale "autore intelligente" del "complesso della natura" potesse implicare la presenza di una dimensione religiosa nell'uomo. Essa, pertanto, doveva essere emersa successivamente. Il saggio di Hume anticipava molti temi di fondo delle scienze delle religioni, che svolgeva nell'ambito delle idee illuministe della religione, considerata come un'impostura e una supersitizione, destinata a scomparire definitivamente. Suo contesto immediato e concreto, invece, furono lo storicismo soprattutto, i metodi positivistici, che pretendevano spiegare le realtà mediante quelle più semplici, escludevano ogni giudizio di valore, indiscriminati parallelismi, generalizzavano i metodi delle scienze interpretavano tutto in chiave strettamente evoluzionista.

tedesco e, complesse istituivano naturali e

Negli studi etnologici e storico-religiosi, la reazione a tale evoluzionismo forzato iniziò, verso la fine del XIX secolo, nelle scuole etnologiche nordamericane e in quella viennese. In Italia, una scuola storicistica, strettamente crociana, si sviluppò dal secondo decennio del secolo XX. Il suo fondatore, R. Petazzoni, solo nei suoi ultimi anni di vita, si rese conto della necessità di superare e integrare le posizioni unilaterali dello storicismo e della fenomenologia.1 Tuttavia, i suoi discepoli più famosi: E. De Martino, A. Brelich e V. Lanternari, nonostante i loro studi fondamentali e le ampie ricerche, evitarono sempre ogni problema epistemologico, compiendo, più o meno inconsciamente, una "rimozione dell'intuizione del Maestro".2 Perciò il problema epistemologico, rimasto irrisolto, si ripropone con accresciuta urgenza e complessità.

3.

Il metodo della storia delle religioni

U. Bianchi, al contrario, si è dedicato non solo alle ricerche che lo hanno imposto all'attenzione mondiale, ma anche ad alcune riflessioni epistemologiche e metodologiche fondamentali. Egli considera la religione un grande "universale storico",

che si può constatare, con metodo rigorosamente storico-positivo, in tutte le epoche e culture e che mette in luce la presenza di credenze e di prassi dotate di notevoli affinità. Pertanto, il frastagliato e problematico "universale storico" della religione, inteso come complesso di fatti accessibili al metodo induttivo e positivo, nella storia passata e presente, si fonderebbe su queste affinità o "comunanze", che presentano "aspetti" non sempre identici e contenuti non ancora completi o conclusi. Il concetto di religione, quindi, è analogico di analogia di partecipazione,3 che però non ha alcun "analogatum princeps" sul quale possano misurarsi, a pari diritto, gli altri elementi analoghi. Pertanto, per Bianchi, si può parlare al massimo, di elementi più periferici o più centrali. Periferici, significa che sono più problematici sul piano della tipologia storica, avendo meno legami di affinità con gli altri. Centrali, vuol dire che presentano un maggior numero di elementi analogici. Solo in questo modo verrebbe assicurata, in partenza, un'impostazione rigorosamente induttiva, che prende l'avvio da un problema storico di nessi, di continuità e discontinuità, fra elementi e gruppi di elementi. La storia scientifica delle religioni può essere determinata soltanto da questa metodologia, puramente induttiva, positiva e storico-comparativa.4 Pertanto, il suo oggetto è solo la religione e le religioni e il suo metodo quello storico-comparativo. Entrambi, per la dialettica che li unisce, si generano a vicenda e, in qualche modo sarebbero la stessa cosa. Quindi, si può parlare di religione, in sede di storia delle religioni, perché il metodo storico-comparativo mette sulle tracce di aspetti comuni, che permettono di estendere il termine religione. In questo modo l'oggetto non viene scoperto ma costruito, non su presupposti idealistici ma sulla base positiva e induttiva della storia comparata, evitando le definizioni sia filosofiche o teologiche di religione, che i modelli e le preimposizioni. Per Bianchi, questo è l'unico modo per garantire l'assenza di pre-supposti, di preoccupazioni, di pre-comprensioni, di tipi e di tutto ciò che potrebbe, in qualche modo, condizionare o imporre elementi di conoscenza, al di fuori di quelli che emergono dall'indagine filologica, storico-idiografica e storico-comparativa. Egli riconosce, tuttavia, le difficoltà che derivano: a) dal non poter partire da una definizione, perché ciò sarebbe contrario al procedimento storico positivo-induttivo e b) dalla necessità di una definizione o di un concetto iniziale di religione, che consenta di discernere le cose da indagare.

3.1. Storia delle religioni e concetto analogico di religione Tuttavia, tali difficoltà esisterebbero solo nel caso che il concetto di religione fosse univoco e talmente esteso, da renderne la comprensione quasi nulla o insignificante. Al contrario, un concetto analogico, senza "analogatum princeps",5 fondato su elementi comuni, constatati ogni volta che si confronta una religione con un'altra e poi con un'altra ancora e così via, consente di stabilire un "enorme reticolo di comunanze", da cui ricavare il complesso mondo della religione.6 All'obiezione di come sia possibile realizzare un'analogia senza "analogatum princeps", egli risponde rifacendosi al concetto degli elementi comuni del "giuoco" di Wittgenstein. Senza concetto univoco e senza definizione, si ha solo un complesso di elementi che, diversamente combinati, tengono insieme il vario mondo della religione, che non può avere confini precisi, perché tutti o alcuni degli elementi che li compongono possono sistemarsi pure su altri reticoli (filosofie, sapienze ecc.). La questione dell'appartenenza o meno di un certo fenomeno al mondo della religione ha senso, perché il concetto analogico in questione, nonostante tutto, implica limiti che la ricerca storico-comparativa rende valutabili. Ciò evita ogni nominalismo e relativismo gnoseologico nella valutazione del contenuto religioso (o meno) di certi fenomeni. 2

Il fatto che si possano considerare religiose sia le esperienze relative a oggetti supremi sotto ogni aspetto, o aventi un primato assoluto, o le manifestazioni relative agli spiriti o ai culti di fecondità o alle pratiche per la pioggia, ecc., non implica alcun relativismo né riduzionismo, ma indica soltanto la necessità di elaborare una tipologia storica della religione, costruita sull'osservazione dei dati e dei nessi che li concernono. In questo modo, la specificità metodologica della storia delle religioni ingloberebbe pure la tematica fenomenologica. Perciò, l'unica fenomenologia, nella ricerca positiva dei fatti religiosi, sarebbe quella implicita nella ricerca storico-comparativa della storia delle religioni. Bianchi, pertanto, accetta una fenomenologia storica della religione, che si risolva senza residui nella storia delle religioni, ma preferisce denominarla "tipologia storica della religione e delle religioni". Contesta, invece, la legittimità e il diritto di esistere di una fenomenologia della religione, che volesse riservarsi qualche altra cosa, che andasse nella direzione dell'archetipo, o che si basasse sulla definizione di un universale univoco, sulla definizione elettiva della sostanza, dell'essenza della religione, o che ragionasse per categorie o suddividesse per genus et differentiam. Perciò nega pure l'esistenza di "sensi" e di "significati" ulteriori, esclusi quelli che spettano legittimamente alla filosofia e alla teologia. Pertanto ritiene che non ve ne siano altri da preimporre all'oggetto formale della ricerca storico-religiosa, nell'esercizio della sua funzione specifica e che pure l'indagine sul senso dei dati sia un compito essenziale della scienza storica.7

4.

Riserve e obiezioni della fenomenologia della religione

A questa impostazione la fenomenologia della religione contrappone le seguenti osservazioni: 1) La storia delle religioni non può esseree neutrale e deve spogliarsi dei suoi concetti troppo ingenui e positivistici di "scienza" e di "conoscenza". 2) Per non affidarsi a criteri arbitrari deve rendersi conto della serietà dell'oggetto della sua ricerca: la religione e le religioni, e della inevitabile connessione fra precomprensione, campo di ricerca e ipotesi. 3) A tal fine le occorre rifarsi a una "precomprensione religiosa minima" volta a cogliere una certa coerenza all'interno di ogni possibile trasformazione di una simbologia religiosa in un'altra simbologia. Se si vuole assegnare questo compito alla storia delle religioni, occorre accertare, allora, il compito della fenomenologia della religione. In tal caso: 1) la fenomenologia della religione partirebbe da una precomprensione religiosa più ampia, in cui il rapporto con la realtà religiosa significa interrogare la propria esperienza religiosa come fenomeno dotato di intenzionalità, di significatività e di auto-legittimazione, in chiave trascendentale. 2) A partire da questa pre-comprensione o "autocomprensione consolidata", è possibile formare una tipologia dei fenomeni storico-religiosi, progressivamente recuperabili a livello di "intenzionalità religiose" e come "modalità del darsi della coscienza religiosa". 3) Tali ipotesi teleologico-intenzionali, proprie della fenomenologia della religione, saranno considerate interne e capaci di consolidare il valore dell'esperienza religiosa stessa, mentre il movimento verso una comprensione dei lati oscuri della storia dell'esperienza religiosa procederà dall'interno verso l'esterno. L'eventuale carattere pseudo-religioso dell'esperienza sarà lasciato all'ambito specifico delle scienze ausiliarie, senza con ciò "falsificare" l'esperienza religiosa autentica, che vive nella coscienza religiosa dei credenti.8

5.

La fenomenologia della religione. Aspetti generali

Queste differenze fra storia e fenomenologia delle religioni, e le ragioni del conflitto sopra accennato, richiedono ora una maggior descrizione di questa seconda disciplina. 3

In realtà, la fenomenologia si propone di andare al di là dello specifico studio storico-comparativo dei fenomeni religiosi, per indagare il significato di un fenomeno, in quanto religioso e non unicamente storico o socio-culturale. Perciò si avvale dello studio comparativo dei dati, che offre una visione più accurata rispetto al loro esame separato. Tuttavia, la comparazione le serve come dato iniziale, per poter distinguere i parallelismi e scoprire le differenze di cui vuole capire il significato. Inoltre la fenomenologia considera i fenomeni religiosi inseparabili dall'homo religiosus e dal suo comportamento. Pertanto il suo ambito, fin dagli inizi, è l'indagine sui fenomeni religiosi, come esperienze vissute dall'homo religiosus, nella loro struttura globale: intenzionale, linguistica, sociologica e culturale. Essa non parte dalle cose ma dalle persone. Questa sua impostazione metodologica le consente diverse applicazioni, che inducono a distinguere modalità diverse di fenomenologia della religione. Alcuni la vedono come classifica e descrizione dei fenomeni religiosi. Altri come procedura tipologica, volta a descrivere i diversi tipi di religioni ed evidenziarne il significato religioso. Altri ancora come sforzo di penetrare l'essenza e la struttura del fenomeno religioso.9 Scendendo a maggiori dettagli, alcuni indicano la fenomenologia come un "taglio per sezioni" che divide le religioni storicamente e geografiamente. Oppure come una "sezione a croce" che elabora i diversi tipi di religione. O, infine, come analisi del materiale religioso, condotta per "cerchi concentrici".10 Queste modalità farebbero della storia delle religioni e della fenomenologia della religione non più due scienze distinte, ma parti complementari dell'unica scienza e modi distinti per giungere alla comprensione del fenomeno religioso. Quindi, le tipologie risulterebbero particolarmente importanti per entrambe.

6.

La fenomenologia filosofica

Dal 1920, circa, la fenomenologia si è unita alla storia delle religioni come metodo di studio dell'esperienza religiosa presente nelle religioni. Gli storici non l'hanno accettata e il loro rifiuto non appare molto comprensibile, se si tien conto che con il metodo comparato e tipologico, un'inizio di fenomenologia è comunque presente nella storia delle religioni. Inoltre, la fenomenologia intendeva contenere l'eccessivo allargamento dell'area delle religioni all'antropologia, la sociologia, la psicanalisi, ecc. Per capire le novità apportate dalla fenomenologia, rispetto alla storia, dobbiamo collegarci al dibattito filosofico ed epistemologico del XX secolo. Di esso va considerato il notevole ruolo svolto dal concetto di "mondo della vita" (Lebenswelt) che alimentò una vasta riflessione epistemologica da Dilthey a Heidegger fino a Gadamer. Con esso Husserl intendeva superare la dicotomia soggetto-oggetto, su cui si basavano le pretese dell'oggettività scientifica. Il "mondo della vita" costituisce, prima di ogni scienza, il terreno costante di validità cui ogni uomo, scienziato o meno, deve sempre riferirsi.11 Pertanto Husserl sottolineò la necessità di un'epistemologica radicale, capace di evidenziare le basi di ogni processo conoscitivo e rimproverò alla scienza di averle dimenticate. Infine, evidenziò l'esigenza di un concetto di scienza, capace di esplorare sistematicamente le intenzionalità che operano nella compagine inscindibile di "senso" e di "validità", che coinvolgono tutte le operazioni spirituali. Il "mondo della vita" è il campo delle intuizioni non arbitrarie o irrazionali, ma sempre presenti nella vita, che costituiscono la fondazione ultima delle conoscenze e, in chiave trascendentale, sono le "condizioni di possibilità e di validità del comprendere". Pertanto esso costituisce il substrato pre-categoriale che permette di indagare, in modo radicale, la validità delle conoscenze e dei vissuti intenzionali, dove il mondo delle ovvietà e del quotidiano mostra l'ineliminabile connessione di dato e significato. Di

4

conseguenza, le intenzionalità religiose non vanno messe fra parentesi, ma esplicitate, come elementi correlati del fenomeno religioso.12 Ciò consente di superare la contraddizione della mentalità "riduttiva" che, da un lato, non si assume alcuna responsabilità nei confronti della religione, ma la rinvia ad altre discipline, dall'altro, però considera i loro giudizi di valore come precostituiti, parziali e non pertinenti, perché valicherebbero i limiti della scientificità. Tale "scientificità", tuttavia, tratta l'uomo come una cosa da cui "tenere le distanze", anziché come un soggetto che, in base ai significati, unifica i diversi ambiti in cui opera.

7.

Il passaggio dall'oggetto al soggetto

Perciò, la fenomenologia sostiene con vigore, che nessuna disciplina può precludere il passaggio a tipologie riguardanti i fenomeni religiosi (convergenze, uniformità, regolarità, analogie, ecc.). Tanto meno può impedire che esse vengano assunte per comprendere le dimensioni essenziali dell'esperienza religiosa, attuantesi nelle più diverse modalità. In base a ciò il lavoro degli storici deve conciliarsi con quello dei fenomenologi, in modo che la storia delle religioni diventi la base e il punto di partenza di ogni riflessione fenomenologica e filosofica sulle religioni.13 La "epoché"14 fenomenologica della religione mette fra parentesi l'idea di verità oggettiva delle scienze, che contrasta l'idea di verità, propria della vita pre-scientifica ed extra-scientifica. Infatti il metodo fenomenologico non permette un'esistenza separata di soggetto e oggetto, quindi propone la "precomprensione religiosa" come unico approccio valido per lo studio del vissuto religioso. Di fatto, l'esperienza religiosa non è separabile dai significati religiosi, che si iscrivono nella coscienza stessa e che costituiscono le modalità in cui appare il mondo della vita religiosa. Ciò premesso, la diversità di fondo fra la fenomenologia e le altre scienze della religione appare chiara. La fenomenologia si sforza di porre fra parentesi l'oggettività e i rivestimenti concettuali costruiti dalle scienze, per "liberare i significati che si rivelano nel fenomeno". Le altre scienze si sforzano di isolare l'esperienza religiosa dai suoi significati intenzionali e mettono tra parentesi la verità dell'esperienza religiosa, per poterla "verificare scientificamente". Il carattere principale della fenomenologia della religione è l'esigenza di studiare la ricchezza e la varietà dell'esperienza umana, secondo metodi non riduttivi, ma atti a restituir loro quella profonda complessità, espressa dalla fenomenologia filosofica di Husserl. Essa consentì di superare lo schema esplicativo di tutta la realtà, mediante leggi meccaniche e deterministe e concentrò l'attenzione sui fenomeni storico-culturali creati dall'uomo, per i quali occorre una comprensione profonda e partecipata e la rivendicazione dell'autonomia, libertà e spiritualità della persona. Infatti, occorreva superare ogni riduzionismo, perché la vita non è un aggregato di elementi semplici, ma una struttura originaria, globale e dinamica. Pertanto, la fenomenologia della religione non poteva accontentarsi di descrivere semplicemente, ma doveva pure comprendere e interpretare, lasciare parlare il fenomeno e, soprattutto, rivendicare il valore di "tutto" il fenomeno.

8.

La fenomenologia storica della religione

La "fenomenologia della religione" o più esattamente la "fenomenologia storicocomparata della religione" non ha mai inteso essere una filosofia, ma una scienza empirica della religione, secondo il nuovo spirito epistemologico e scientifico e non secondo i vecchi stereotipi scientisti e positivisti.15 5

Oggi, però, il termine "scienze della religione" designa un ambito assai vasto in cui convergono, sempre più, le discipline ermeneutiche che studiano le religioni e la loro storia, con metodi empirici ispirati alla metodologia fenomenologica.16 Tuttavia il metodo fenomenologico appare assai ampio. I punti maggiormente condivisi, al momento, appaiono i seguenti: a) assumere, come punto di partenza delle ricerche, una base empirica, escludendo le metodologie puramente deduttive e aprioristiche; b) rilevare l'intenzionalità della coscienza e il significato oggettivo dei fenomeni, considerati come un tutto dotato di senso; c) tener presenti i limiti di ogni metodo volto ad accertare aspetti parziali (psicologici, sociologici,antropologici) di realtà complesse; d) ricordare che per ogni scienza e disciplina esistono notevoli diversità di metodi e approcci.17

9.

Fenomenologia storica, filosofia e teologia

L'epistemologia degli ultimi decenni ha richiamato l'attenzione sui rischi e gli equivoci del riduzionismo scientifico. Ha riconosciuto legittima la delimitazione accurata della propria area di ricerca unita alla consapevolezza della parzialità e incompletezza di tale approccio. Tuttavia, ha pure sottolineato l'illegittimità e l'errore di pretendere che la realtà si limiti soltanto al campo dei fenomeni studiati dalla propria disciplina e di ritenere che la scienza sia l'unica forma di conoscenza. Infine ha messo in guardia dal continuo pericolo d'ignorare i limiti metodologici della propria ricerca, assolutizzandone indebitamente i risultati. Si tratta, quindi, di errori e di pregiudizi illegittimi che, tuttavia, non sono i soli, perché, nelle ricerche vaste e complesse come quelle sulla religione, non è facile liberarsi da pregiudizi di ogni tipo: filosofici, epistemologici, ideologici, teologici, ecc. Per queste ragioni fondamentali, la fenomenologia della religione propone un metodo che metta in luce tutti questi pregiudizi inevitabili, per poterli neutralizzare nei processi di rilevamento, descrizione e comprensione dei fenomeni religiosi. Essa chiede, anche, alle filosofie, lo spazio e il riconoscimento dell'autonomia e legittimità di una sua ricerca empirica su religioni e religione. Perciò rivendica la propria indipendenza e la libertà di determinare il proprio oggetto, i suoi progetti di ricerca e i suoi metodi. Propone pure di non limitare la riflessione sistematica al cristianesimo o al monoteismo, ma di estenderla a tutte le acquisizioni delle ricerche della storia comparata e della fenomenologia delle religioni. Alla teologia chiede di rispettare i dati sui quali pronuncia i propri giudizi di verità e di valore, attenendosi a fondamenti, principi e metodi in sintonia col nuovo clima di dialogo interreligioso instaurato dal Concilio Vaticano II. A tale dialogo la fenomenologia della religione può contribuire in modo significativo, secondo le esigenze del dialogo transdiciplinare, indicando le analogie che rendono possibile il confronto e sulla cui base ogni tradizione religiosa specifica può scoprire nuovi e più profondi significati.

10. Aspetto storico della fenomenologia Agli inizi la fenomenologia intendeva trattare i fatti della coscienza umana e spiegare le forme esterne in base ai processi interni e relazioni interiori. In seguito restrinse i contenuti alla "classificazione" del materiale etnografico e storico, connesso alla religione, lasciando l'analisi del fenomeno e della coscienza religiosa alla filosofia.18 In tale classificazione dava la massima importanza al culto, la dottrina e i sentimenti religiosi, presenti nei corrispondenti "atti" che divenivano il suo "materiale". Come ipotesi di lavoro iniziale attribuiva alla religione un solo oggetto: il Dio vivente che si manifesta in tutte le nazioni come il solo Dio reale. Tuttavia riconobbe 6

pure la necessità del pluralismo degli oggetti e non giunse né a una definizione analogica né a una chiara esplicitazione del metodo. Alcuni considerano R. Otto (18691937) come suo precursore, a motivo della sua idea del sacro. Altri invece ritengono che tale idea e relativo metodo rimangano filosofici, provenendo da un a-priori filosofico e non da ricerche empiriche.19 Studi più approfonditi sulle implicazioni epistemologiche e metodologiche, dei principi fenomenologici, vennero effettuati verso il 1970.20

11. Presupposti, metodologia, scopi La fenomenologia storica della religione non si ferma a "constatare o spiegare" l'universalità del fenomeno religioso, ma intende "intepretarla al fine di una sua comprensione". Tiene conto, perciò, del legittimo uso linguistico, che chiama "religioso" un determinato aspetto dell'attività umana e denomina "religione" l'insieme unitario delle attività che ad esso si riferiscono, in una cultura e in un popolo determinati. Essa applica il criterio metodologico delle scienze sociali, di partire, non dai casi dubbi, ma da quelli in cui l'uso linguistico, e la percezione comparativointuitiva, appaiono stabili e certi. Da questi, poi, passa a chiarire, per analogia, i casi dubbi e incerti. Perciò muove dalle maggiori tradizioni religiose mondiali, antiche e attuali, considerate, senza alcun dubbio, religioni, anziché dai casi più discussi e controversi quali il buddismo iniziale, le religioni elementari, ecc. Nonostante le diversità e le contraddittorietà, apparenti o reali, la storia comparata e la fenomenologia riescono a percepire le somiglianze su cui fondano i loro concetti analogici (miti, riti, preghiere, sacrifici ecc.), avvalendosi di tre presupposti: l'uso dei concetti analogici; il criterio dell'originalità e originarietà del fenomeno religioso; la focalizzazione dell'esperienza religiosa come proprio specifico. L'analogia è di proporzionalità, ossia fondata sulla somiglianza tra i rapporti. L'originalità e l'originarietà derivano dal carattere globale dell'esperienza religiosa che coinvolge tutto: intelligenza, sentimenti, emozioni, volontà, libertà, intepersonalità, socialità, cultura ecc. La specificità consente di guardare correttamente alla globalità del fenomeno, per cercarvi l'unità di senso, proposta in modo scientifico e metodologico, come "ipotesi falsificabile".

12. L'oggetto della fenomenologia L'"oggetto materiale remoto" della fenomenologia sono gli atti umani, coscienti e liberi posti dall'uomo religioso. Suo "oggetto materiale prossimo" è l'esperienza religiosa, intesa come rapporto che un "soggetto" religioso istituisce, mediante i suoi atti, con un "oggetto" religioso. Il soggetto religioso è studiato mediante l'introspezione riflessiva sui suoi atti interiori e la rilevazione dell'intenzionalità espressiva dei suoi atti esteriori. L'oggetto religioso è desunto dai risultati della storia comparata delle religioni. Ciò mette in luce lo stretto rapporto esistente fra la storia comparata e la fenomenologia storica, la quale aggiunge alla precedente una "metodologia sistematica della comprensione, dell'intenzionalità della coscienza e dell'epoché", troppo pesanti per una ricerca semplicemente storica, che non si prefigge di fare da ponte con la filosofia.21 La fenomenologia della religione non può prescindere dai risultati della storia comparata, sui quali instaura un più alto livello di comparazione, al fine di scoprire "forme", "tipi" e "strutture" più generali. Pertanto deve indagare sugli "elementi analoghi" della comparazione, al più alto livello di generalizzazione, in riferimento a "concetti analoghi generali unitari". Cerca di metterne in luce soprattutto gli elementi

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comuni e durevoli e gli aspetti sistematico-strutturali più che quelli epigenetici (riguardanti il loro sviluppo), per cui può apparire più statica. Tuttavia, fissando gli aspetti permanenti del fenomeno, può farne emergere quelli dinamici, completando e aiutando le finalità dello storico. Inoltre l'attenzione alle strutture ne fa risaltare le tensioni interne e la possibilità di rotture. Quindi, sullo sfondo delle variazioni e dello sviluppo, la storia comparata può individuare similitudini, aspetti relativamente permanenti e strutture della religione, di cui la fenomenologia cerca una comprensione più universale.22

13. Caratteristiche della fenomenologia della religione Da quanto detto, la fenomenologia appare "scientifico-empirica", poichè si basa sull'esperienza e l'induzione etnologica storico-comparata, e "introspettiva" perché fa emergere le analogie reali fra le religioni storiche. Inoltre è "storico-ermeneutica", perché coglie l'atto religioso in quella duplice dimensione esterna e interna, da cui traspare la sua natura simbolica, allusiva al trascendente e la sua capacità di dare e cogliere senso e comunicazione. Essa è pure "globale-olistica", perché s'interessa alla totalità dell'esperienza religiosa e cerca il senso del "tutto religioso" come insieme. Infine, nel conferire il senso globale "intenzionale unificante", riconosce il primato del conscio sull'inconscio e l'emozionale. Pertanto, l'identità specifica della fenomenologia della religione è di "scienza empirica ermeneutica" o scienza umana che unisce strutturalmente la dimensione storico-empirica e quella globale ermeneutica. Essa armonizza la spiegazione, rivolta a una analisi delle parti che compongono il tutto e sono comprensibili solo in riferimento ad esso, con la interpretazione rivolta a comprendere il senso del "tutto".23 In questo modo, attuando un sano realismo critico, supera i limiti dell'empirismo, che voleva prescindere dal "tutto" e quelli dell'idealismo, che voleva attingere il significato del tutto astraendo dalle sue "parti".

14. Rapporto fra comprensione e spiegazione In ciò concorda con la critica gnoseologica ed epistemologica, che hanno messo in luce l'illusione di considerare le strutture intellegibili e le motivazioni che danno il senso globale, al di fuori (o al di sopra) dei fenomeni cui esse si riferiscono (idealismo e costruttivismo aprioristico). Esse hanno pure dimostrato che le pretese di negare o accantonare ogni intenzionalità e comprensibilità (astrazione formalistica e riduzionismo materialistico) sono altrettanto illusorie. Infatti, se si vuole spiegare e capire (ossia procedere a una "intuizione astrattiva" come percezione totale o globale), occorre pure com-prendere ciò che si in-tende. Tale "intuizione astrattiva" consiste nel cogliere la struttura intellegibile come data al soggetto. Questi, perciò, in atteggiamento recettivo-accogliente, deve andare alla cosa per "farla parlare". L'intuizione astrattiva totale risulta perfetta, e dà luogo a concetti univoci, solo se è ben conscia di quanto essa tralasci. Se non si rende conto di ciò, produce concetti analogici, che esprimono la similitudine reale, ma indicano implicitamente la diversità. In genere, ma non esclusivamente, i concetti analogici sono più adatti per la comprensione, mentre quelli univoci lo sono per la spiegazione. Pertanto, si può accettare il famoso "a priori religioso" come apertura essenziale dell'homo religiosus verso il valore oggettivo del Sacro, del Divino, dell'Ultimo. Tuttavia, perché questo valore si manifesti veramente come Dio personale e trascendente, si richiede pure una mediazione logico-esistenziale sul piano riflesso, ossia una discussione metafisica sull'esistenza e sull'essenza di Dio, che chiarifichi e approfondisca l'esperienza immediata. D'altra parte, questa sistemazione concettuale, 8

per non diventare razionalistica (Spinoza, Hegel) o naturalistica (Spencer) deve rimanere ancorata e verificata nel vissuto religioso. Pertanto approccio fenomenologico e metafisico rimangono ben distinti, ma risultano pure uniti e complementari.24 Le scienze umane, intermedie fra quelle "dello spirito" e quelle "naturali", indicano chiaramente che, nel processo interpretativo, non può darsi un'opposizione o alternativa brutale, ma occorrono complementarietà e dialettica fra il comprendere e lo spiegare. Da un punto di vista epistemologico si esige, perciò, complementarietà di metodi, mentre da quello ontologico si chiede il superamento della vechia opposizione fra mente e corpo, dopo che le vecchie concezioni causali humiane, meccanicistiche e deterministiche si sono rivelate inadeguate. Occorrono modelli che consentano una comprensione dei segni (teoria dei testi), delle intenzioni e motivi (teoria dell'azione) e della competenza a seguire un racconto (teoria della storia). Per questi motivi, il complicato processo della comprensione non si esaurisce nel momento puramente intuitivo-astrattivo del fenomeno (intuizione-visione dell'essenza), ma richiede la mediazione dello sviluppo analitico delle parti. Ricoeur sottolinea che, nelle scienze ermeneutiche, il momento non metodico dell'interpretazione deve comporsi col momento metodico della spiegazione. Esso precede, accompagna, recinge e avvolge la spiegazione, mentre la spiegazione sviluppa analiticamente la comprensione. La comprensione non si esaurisce nel livello epistemologico, ma raggiunge quello ontologico propriamente veritativo.

15. Il fenomeno religioso nella fenomenologia storica Nella fenomenologia storica il termine fenomeno significa ciò che si manifesta o si fa presente a una mente intenzionalmente aperta sull'esperienza. Ciò esclude le interpretazioni puramente soggettive e l'occultamento e la deformazione della realtà. Inoltre la natura del fenomeno è sempre intenzionale: il manifestarsi di qualcosa a un soggetto conscio. Soggetto conscio e oggetto, perciò, sono correlativi. Essi, nell'atto di coscienza intenzionale, pur rimanendo distinti, sono inseparabili e orientati l'uno all'altro. Pertanto, l'intenzionalità coinvolge il soggetto e l'oggetto, coincide nell'atto coscienziale, ma viene distinta nel giudizio. Nell'ambito religioso, l'indagine empirica fenomenologica mostra l'oggetto, colto come "Realtà ultima", che conferisce il "senso ultimo incondizionato". Tuttavia essa non costituisce l'oggetto globale della fenomenologia, che consiste, invece, nell'intera esperienza religiosa, come insieme di soggetto che pone atti in ordine all'oggetto.25 Perciò, tutta l'esperienza religiosa va considerata intenzionale nei suoi elementi costituenti. L'essenza, che la fenomenologia storica vuole raggiungere al termine della sua indagine, è intesa in senso empirico. Perciò, parte dal fenomeno che si presenta, per "controllarlo" dall'interno. A tal fine le bastano l'uso linguistico e l'esistenza delle religioni. Tali realtà, a livello comune e storico-scientifico, non si possono negare. "Globalità" (totalità) del fenomeno religioso significa che il religioso conferisce senso unificante al "tutto in cui si trova" (ne fa un tutto religioso). Inoltre implica e coinvolge "tutto l'uomo" (intelletto, ragione, sentimento, volontà, azione ecc.). A livello socio-culturale coinvolge e unifica tutte le attività umane, quindi, non quelle solo religiose. Infine, polarizza tutte le energie umane verso il divino, attuando il massimo grado d'integrazione.

9

16. Sguardo metodologico sintetico Riassumendo, la fenomenologia-storica della religione studia i fenomeni religiosi in modo critico, sistematico e metodico, per raggiungerne la "comprensione profonda". Perciò applica la "epochè" (sospensione del pre-giudizio) per giungere, attraverso l'esame dei livelli tipologici comuni a varie religioni, a interpretare gli elementi analoghi della religione e delle sue manifestazioni.26 Essa, muovendo dalla percezione puramente sensibile, intellettiva, immediata e spontanea dei dati, passa a considerare la progressiva profondità delle forme, dei tipi e delle strutture che emergono, per attingere, infine, il "fondamentale nucleo intellegibile, dell'esperienza religiosa globale". La epoché è strumento specifico e garanzia di un giudizio il più possibile rigoroso ed obiettivo. Tuttavia, quanto essa "mette in parentesi" in sede fenomenologica, viene poi ripreso, valutato e giudicato in sede filosofica e teologica. A sua volta la ricerca e classificazione dei "tipi" è finalizzata alla comprensione profonda dei fenomeni. "Tipo", infatti, significa una configurazione relativamente stabile, di tratti "caratterizzanti e distintivi" del fenomeno, colto in profondità. Eliade ha dedicato gran parte della sua produzione comparatista a rilevare tipologie caratteristiche con sicura base empirica.27 A livelli ancor più profondi di comprensione corrispondono stratificazioni, non più solo tipologiche, ma "simboliche", che rivelano un senso più profondo.28 La fenomenologia rileva anche "strutture" e "complessi". Il concetto di struttura si è rivelato di grande importanza per le scienze umane. Per Piaget è un "insieme di trasformazioni" che comporta leggi "in opposizione alle proprietà dei singoli elementi" e si sviluppa e conserva grazie al gioco delle trasformazioni, senza condurre fuori delle sue frontiere o fare appello ad elementi esterni.29 I tre caratteri delle strutture sono: totalità di insieme; variazione interna dei loro elementi che non ne infrange l'unità; capacità di autoregolazione. Più o meno elastiche o rigide, esse non sono mai rilevabili immediatamente, perché possono venir colte solo mediante una "intuizione comprensiva totalizzante". Le strutture religiose, esaminate in senso sincronico (contemporaneità) e diacronico (evoluzione) evidenziano le connessioni più profonde e unitarie dei fenomeni religiosi, sia come esperienze delle persone che delle religioni stesse. Il concetto di "complesso religioso" è ancor più vasto, poiché designa gli insiemi relativamente stabili di forme, tipi e strutture parziali analoghi nelle religioni.30

17. Valutazione della fenomenologia della religione Una valutazione della fenomenologia della religione non può prescindere dalle condizioni storiche che abbiamo accennato agli inizi del capitolo. Essa si caratterizza per il suo rifiuto totale di ogni riduzionismo e la sua esigenza di non limitarsi a descrivere, ma cercare di interpretare e comprendere. Inoltre sostiene l'autonomia assoluta della religione, il suo carattere esistenziale e la sua natura di esperienza consustanziale alla natura umana. In seguito a ciò ha potuto far emergere la grande complessità dei problemi coinvolti dalle scienze della religione. Le critiche che le vengono rivolte vanno valutate, perciò, nel contesto del dibattito epistemologico, tuttora aperto, cui abbiamo accennato nei vari capitoli. Certamente un "nodo problematico", non soltanto suo ma comune a tutte le scienze umano-sociali e delle religioni (presto, probabilmente, di tutte le scienze), è il cosiddetto "pendolo intepretativo", cioè l'oscillazione tra la pura sistemazione dei dati e loro interpretazione (o ricerca dei significati). 10

Tale oscillazione, tuttavia, non è arbitraria, ma risponde a una situazione storicoculturale ben precisa. La fenomenologia della religione, infatti, intese dare rigorosa sistemazione epistemologico-scientifica, al vasto mondo dei fenomeni religiosi, nel periodo della crisi totale delle ideologie scientiste. Fino ad allora aveva dominato il riduzionismo positivista. Le scienze della religione reagirono, accentuando la dimensione ermeneutica, che introduceva nella "scienza integrale della religione" le problematiche del significato, della specificità e dell'autonomia della religione, come emerge chiaramente dagli studi di J. Wach, Mircea Eliade e J. Kitagawa. A questa tendenza si oppongono tuttora quanti vorrebbero limitare la fenomenologia a un compito puramente empirico, descrittivo e sistematico. Nessuno, tuttavia, è riuscito a negare l'esistenza di un ampio spazio di considerazione dei fenomeni religiosi e dei loro significati, a partire da una base puramente storica. Perciò il dibattito rimane aperto.31

18. Dalla fenomenologia all'antropologia della religione In questo fecondo pluralismo di posizioni, l'immensa opera di Mircea Eliade, con il suo dichiarato intento interpretativo, assume un valore specifico che si rivela decisivo. Le sue acquisizioni e posizioni costituiscono una specie di ponte o cerniera nei confronti di una recente disciplina, la nuova antropologia della religione. Essa valuta favorevolmente il metodo originale di Eliade, che consente di dialogare con la religiosità intima e profonda dell'uomo, fin dalle culture e società più arcaiche, per ricavarne tutto il loro messaggio. Tale progetto è divenuto la base sistematica e metodologica della nuova antropologia religiosa. Perciò il compito attuale della scienza della religione vien visto come una decifrazione e spiegazione dei vari tipi d'incontro dell'uomo con il sacro, dalla preistoria ai tempi nostri. A ciò si presta l'enorme materiale riguardante l'homo religiosus, accumulato, selezionato e organizzato, per consentire un'accurata e approfondita conoscenza della religiosità, a partire dalle società e culture arcaiche fino ai tempi nostri. Le scienze della religione sono "condannate" a lavorare su documenti che, pur datati e inseriti nella preistoria o nella storia, dicono assai più di quanto sembrano riferire a una prima lettura. Essi, infatti, rivelano importanti verità sull'uomo e la sua relazione con il sacro. Pertanto, lo scopo ultimo di queste scienze non può limitarsi alla pura rilevazione di fatti, fenomeni, tipi, schemi di comportemento religioso, simbologie, miti, riti ecc. Ciò che occorre veramente è la comprensione profonda ed estesa dei loro significati. Tanto più che non sono significati fossili, cristallizzati negli schemi religiosi che li riguardano, ma significati vivi e aperti, che mutano, crescono e si arricchiscono creativamente in tutto il corso della storia.

19. Riflessioni conclusive Quanto finora considerato sulla storia e sulla fenomenologia della religione consente alcun riflessioni particolarmente utili per il dialogo interreligioso. Infatti evidenzia chiaramente come ogni esperienza religiosa personale possa e debba essere arricchita dall'esperienza proveniente da tutte le altre tradizioni e culture religiose. La conoscenza delle esperienze e dei vissuti religiosi diversi dai nostri, può completare e ravvivare profondamente la nostra religiosità. Per questo il dialogo non può fare a meno del confronto e dell'ermeneutica che ne deriva. Comunque, il grande progetto di scienza della religione proposto da Eliade non si ferma qui, inoltrandosi verso dimensioni ancor più vaste e profonde. Ci limitiamo a ricordarne solo alcune, espresse nelle sue frasi più emblematiche in questo senso: 11

"Se per la fede di Abramo, per Dio tutto è possibile, la fede del cristianesimo implica che tutto è possibile anche per l'uomo". "La fede significa la più alta libertà che l'uomo possa immaginare: quella di poter intervenire sullo stesso stato ontologico dell'universo". "L'uomo, solo presupponendo l'esistenza di Dio, può conquistare la libertà e la certezza che le tragedie storiche hanno un significato trans-storico, anche se questo non è sempre evidente nell'attuale condizione umana". "Il cristianesimo è la 'religione' dell'uomo contemporaneo e dell'uomo storico, di chi ha scoperto simultaneamente la libertà personale e il tempo continuo (anziché ciclico)". Queste frasi confermano come il dialogo con l'homo religiosus, attraverso tutte le culture dai tempi più arcaici ad oggi, possa aiutare l'uomo contemporaneo, occidentale e secolarizzato, a superare il mortificante "provincialismo" della cultura angusta in cui ha voluto rinchiudersi, per ritrovare il coraggio e la libertà della grande avventura verso il Trascendente. 1

Esso è considerato il "nodo epistemologico centrale" della ricerca storico-religiosa contemporanea. Cf. G. Filoramo, C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987, 65-78; R. Pettazzoni, Religione e società, Bologna 1966, 110. 2

Filoramo, Prandi, Le scienze delle religioni, 79.

3

Concetto analogico è quello che, senza perdere l'unità del proprio contenuto, subisce un mutamento di significato nell'applicazione che ne vien fatta a diversi enti. Nel suo contenuto sono quindi compresi, in unità logica non più separabile, l'aspetto comune e quello differente, l'aspetto simile e quello dissimile. Analogia di partecipazione si ha quando vi è una somiglianza di relazioni fra i due termini in questione. 4

U. Bianchi, "Il metodo della storia delle religioni", in A. Molinaro (a cura di), Le metodologie della ricerca religiosa, Roma 1983, 17-18. 5

Analogatum princeps (analogato principale) indica il termine principale e fondamentale su cui si basa l'analogia. 6

Bianchi, "Il metodo", 19, 21-22.

7

Bianchi, "Il metodo", 23-27. Per uno sviluppo più dettagliato cf. U. Bianchi, Saggi di metodologia della storia delle religioni, Roma 1979. Per una puntualizzazione più recente cf. U. Bianchi, "Storia delle religioni", in Le scienze della religione oggi. Atti del convegno di Trento 20-21 maggio 1981, Bologna 1983, 145-175. 8

A.N. Terrin, "Per uno statuto epistemologico delle scienze della religione. Approfondimento critico in ordine soprattutto alla 'storia delle religioni' e alla 'fenomenologia della religione'", in Le scienze della religione oggi, 130-131. 9

C.J. Bleeker, "The Phenomenological Method", in Numen, 6 (1959); Id., Problèmes et méthodes d'histoire des religions, Paris 1969; Id., "The Conception of Man in the Phenomenolgy of Religion", in Studia Missionalia, 19 (1970), 155 ss. 10

H. Heiler, Erscheinungsformen und Wesen der Religion, Stuttgart 1961, 18 ss.

11

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1972, 151. 12

A.N. Terrin, "Per uno statuto epistemologico delle scienze della religione", in Terrin, Bianchi, Le scienze della religione, 77-79. 13

Terrin, "Per uno statuto", 106-107.

14

Epoché o sospensione del giudizio, nella filosofia fenomenologica, in senso stretto, è l'operazione mentale con cui si prende coscienza dei "pre-giudizi" (giudizi-previ) propri o altrui, al dine di neutralizzarli.

12

15

Per questi aspetti cfr. J. Waardenburg, Classical Approaches to the Study of Religion, 2 vv., The Hague-Paris 1973; J. Wach, The Comparative Study of Religions, New York 1958. 16

Cf. G. Magnani, "Il metodo della fenomenologia storica-comparata della religione", in A. Molinaro, Le metodologie della ricerca religiosa, Roma 1983, 32. 17

Per la sociologia cf. H. Desroche, Sociologies Religieuses, Paris 1968. Per la psicologia cf. E. Fizzotti, Verso una psicologia della religione, Torino 1992. 18

Precursori-iniziatori della fenomenologia della religione sono P. Chantepie de la Saussaye (1848-1929) Lehrbuch der Religionswissenschaft, (1887-1889) e C.P. Tiele (1830-1902). La scienza della religione "come un tutto" esigeva il riconoscimento della religione come fenomeno unico e come oggetto di una filosofia della religione e della storia, capaci di riconoscere la vita dell'umanità "come un tutto". Oggetto della nuova scienza era lo studio dell'essenza (filosofia) e delle manifestazioni della religione (storia ed etnografia). Si collocava la fra storia e la filosofia, per la rilettura comparata del materiale accumulato dalle scienze moderne. A causa dell'egemonia positivista questo programma non fu pubblicato ma sostituito, nella versione francese (1904), con un altro programma positivista. Cf. Magnani, "Il metodo", 41-42. 19

Magnani, "Il metodo", 43-44.

20

Cf. G. Magnani, Introduzione storico-fenomenologica allo studio della religione. Preistoria e storia, metodo, teorie e realtà, Roma 1977; M. Dhavamony, Phenomenology of Religion, Roma 1973; J. Séguy, Introduction aux sciences humaines des religions, Paris 1970. 21

La storia delle religioni costituisce un campo specifico, altamente multidisciplinare: lingue, filologia, metodologie archeologiche, etnologiche, ecc. La fenomenologia esige competenza specifica in almeno una religione, unita alla conoscenza globale delle altre principali. La storia comparata comporta ricerche comparative sincroniche e diacroniche. 22

Uno dei maggiori nodi problematici riguarda il metodo. Il fenomenologo rivendica la legittimità delle scienze che universalizzano il fenomeno religioso. Lo storico insiste sulla cautela verso generalizzazioni o universalizzazioni, che trattino religioni e fenomeni religiosi come "univoci", livellandone le differenze reali. Concordano, tuttavia, sull'analogia, che tenga conto di somiglianze e differenze. Inoltre trovano importanti i rapporti fra vissuto religioso e dimensioni dell'esistenza umana. Cf. A.N. Terrin, U. Bianchi, Le scienze della religione oggi, Bologna 1983; G. Filoramo, C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987. 23

Magnani, "Il metodo", 58.

24

P. Valori, "Il metodo della fenomenologia filosofica della religione", in Molinaro, Le metodologie, 83-84. 25

Magnani, "Il metodo", 63.

26

Magnani, "Il metodo", 70-72.

27

Magnani, "Il metodo", 73-75.

28

Magnani, "Il metodo", 71-72.

29

Definizione di Piaget patrocinata dall'UNESCO; cf. J. Piaget, Le structuralisme, Paris 1968, 5, 7-17. 30

Magnani, "Il metodo", 76-77.

31

Filoramo, Prandi, Le scienze delle religioni, 63.

13

5.

PSICOLOGIA DELLA CONDOTTA RELIGIOSA

1.

Cenni introduttivi

In questo capitolo esporremo una breve panoramica storico-culturale e concettuale della psicologia della religione, collegandola allo sviluppo della "scienza madre" da cui essa si è sviluppata: la psicologia. Cercheremo di mettere in luce i grandi problemi epistemologici e metodologici di entrambe, per comprenderne gli sforzi volti a darsi un'impostazione e una soluzione, di volta in volta più, soddisfacente. Non mancheremo di constatarne luci e ombre.

2.

Le origini della psicologia scientifica

Come altre scienze della religione, la psicologia della religione ha avuto origine da una disciplina scientifica più generale, da cui ha ereditato presupposti, finalità, metodi e criteri, di cui ha subito le alterne vicende e alla quale rimane collegata per molteplici aspetti. Pertanto la conoscenza del travaglio storico-genetico della psicologia generale si rivela indispensabile per illuminare le vicende della psicologia della religione. Senza indugiare su tutti gli aspetti di una tematica quanto mai difficile e complessa, ne sottolineeremo i punti più significativi per i nostri fini. Partendo dal grande dibattito filosofico e dal nuovo impegno scientifico sviluppatisi nel Sei-Settecento, solo nella prima metà dell'Ottocento si verificarono le condizioni per ricondurre o "ridurre" le manifestazioni psichiche al livello "fisico". Pertanto le controversie filosofiche si concentrarono sulla possibilità che l'anima, lo spirito e la psiche, finora ritenuti strutturalmente diversi dalla materia, e i fenomeni loro attribuiti, venissero ridotti al piano fisico, il solo capace di una spiegazione scientifica fondata sui dati sperimentali.1 Tenuto conto delle modalità del vecchio approccio "riduzionistico" scientista, si può immaginare come la riduzione del psichico al fisico abbia condotto a porre le "strutture fondamentali di un edificio concettuale, che costituì uno dei prodotti più complessi della riflessione filosofica e della ricerca scientifica dell'Ottocento".2 I diversi orientamenti del dibattito confluirono nel progetto di Wilhelm Wundt (1830-1920) di: "analizzare il processo conscio nei suoi elementi, di determinarne le modalità di connessione e di valutare se esse presentino caratteri di regolarità tali da giustificare la formulazione di leggi".3 Tale progetto, impostato nel suo Beiträge zur Theorie des Sinneswahrnehmung (1862), fu completato, poi, in Grundzüge der physiologischen Psychologie (1873-1874). Tale tentativo rimase precario, lasciando molti punti insoluti. Tuttavia, nell'ultimo trentennio dell'800, si divenne più consapevoli dei complessi problemi relativi alla ragione, alla labilità delle strutture della realtà empirica e al confine sfumato e mutevole fra livelli consci e inconsci su cui si svolge l'intero processo del conoscere. Su questa situazione irruppero, poi, nel 1900, le problematiche dell'inconscio, unite a quelle del nuovo dibattito epistemologico e filosofico che complicarono, e in parte sconvolsero, le precedenti impostazioni.

3.

Le basi della psicologia della religione

Questi brevi cenni storico-culturali sono indispensabili per comprendere il valore e il significato dell'approccio psicologico alla religione, sviluppatosi nelle stesse

circostanze. Wundt viene considerato l'iniziatore della psicologia come scienza autonoma, per il suo tentativo di studiare sistematicamente i problemi psicologici, che non potevano essere indagati in laboratorio su base sperimentale. Pur non studiando direttamente l'esperienza religiosa, pose anche le basi per lo studio psicologico della religione, nel contesto della sua monumentale opera in dieci volumi Völkerpsychologie (1890-1920) (Psicologia dei popoli), sulle leggi che regolano lo sviluppo psichico dei popoli. Egli estese la sua indagine psicologica a tutta la società e storia umana, su basi puramente speculative e prescindendo da dati sperimentali e storici. Naturalmente seguì lo schema evoluzionistico, allora obbligatorio, considerando le grandi religioni dell'umanità come "rappresentazioni fantastiche proiettive, collegate a reazioni psicologiche di fronte all'ambiente esterno".4 In questo modo, apriva la strada alle ricerche di "psicologia religiosa sull'esperienza religiosa" di stampo evoluzionista, volte a "studiare l'uomo come esempio compiuto dell'evoluzione animale anche nella sua dimensione psichica". Questo indirizzo ebbe un seguito enorme nella cultura europea.5 Non ci soffermiamo oltre su queste premesse, già sufficienti a spiegare perché la psicologia sia rimasta un campo eterogeneo di ricerche e di teorie, aperte alle interpretazioni più diverse e fondate su assunti-base ricavati dalle più differenti matrici culturali.6 Riguardo alle letture psicologiche della condotta religiosa possiamo elencare solo alcuni dei "modelli" principali. Quello psicodinamico affonda le radici nel pensiero di Freud e si estende alle fondamentali variazioni di Adler, Jung, Erikson e altri. Quello comportamentista (Watson, Skinner, Bandura ecc.) studia il comportamento delle persone in base ai processi di condizionamento e prescinde completamente dai processi inconsci. Quello sociale-cognitivo (Milgram, Asch ecc.) pone l'accento sulla socialità dell'uomo e sulla sua reatttività all'esperienza del mondo, più che al mondo stesso. Quello umanistico esistenziale (Rogers, Maslow, Frankl), pur con notevoli differenze, considera le persone nella loro potenziale maturazione umana e nella loro apertura all'autotrascendenza.7 Come appare evidente, ciascun modello presenta elementi che, già in partenza, condizionano profondamente la lettura degli atteggiamenti e delle realtà religiose, rendendo il discorso ancor più delicato e complesso. Essi influiscono pure sull'atteggiamento di "distacco" o di "partecipazione" del ricercatore. Di conseguenza, la psicologia religiosa dovrà escludere la possibilità di affermare o negare la verità e il valore della realtà religiosa e di spiegare il fenomeno religioso, in termini puramente scientifico-psicologici. Ci si chiede, perciò che cosa le resti. La risposta è che le resta la possibilità di contribuire alla comprensione del fenomeno religioso, nella prospettiva che le compete, ossia quella dei "processi motivazionali", secondo le "coordinate evolutive e contestuali". Il tutto unito alla continua consapevolezza dei limiti e della provvisorietà di tali ricerche. A ben riflettervi, non si tratta di poco.

4. Dalla "psicologia della religione" alla "psicologia della condotta religiosa" Nella disputa sulla "psicologia della religione" e la "psicologia della condotta religiosa", è insita a una significativa problematica antropologica ed epistemologica, poiché taluni ritengono più corretto parlare di "psicologia della condotta religiosa" (genitivo oggettivo), di cui approfondire motivazioni, intenzioni, emozioni, processi, fattori operanti. A tal fine si dovrebbe procedere a una lettura comprensiva, fenomenologica ed esistenziale di tutti questi elementi, volta a illuminare il carattere intenzionale attribuito loro dalla persona, nel contesto della sua intera esistenza.8 2

Quanto abbiamo esposto nei precedenti capitoli, riguardo al nuovo spirito scientifico e alla fenomenologia, consente di valutare l'importanza di questo passaggio. Infatti, i tre aggettivi: "comprensivo", "fenomenologico" ed "esistenziale" illustrano bene la novità e la radicale diversità di questo progetto di psicologia della religione, da quello della psicologia generale formulato da Wundt nella sua opera. Va notato che essa apparve a vent'anni esatti dalla pubblicazione de L'origine della specie (1859) di Darwin, quindi al culmine della temperie positivista, evoluzionista e scientista. Per di più, a quell'epoca, la religione godeva pessima fama ed era ritenuta nella fase di declino finale o di scomparsa irreversibile, che gli uomini di scienza e di cultura ritenevano di dover affrettare con ogni mezzo. Tuttavia, lo studio scientifico-psicologico della religione non fu facile anche per altre ragioni, intrinseche alla disciplina stessa, che ne ritardarono lo sviluppo. In primo luogo, operatori scientifici e teologi, non credenti e credenti, sebbene per motivi esattamente opposti, erano contrari allo studio scientifico della religione. Per i primi esso era privo di significato e di oggetto, per i secondi era una profanazione. Inoltre, la sua impostazione, eccessivamente positivista e comportamentista, lasciava spazio soltanto a una prospettiva strettamente empirica. Infine, negli ambienti teologici, l'interesse si era spostato su prospettive maggiormente pastorali. Insieme a queste difficoltà, l'ostacolo maggiore fu la mancanza di una definizione di religione, accettata e condivisa, che consentisse un minimo di unità nelle premesse e nei metodi. In mancanza di questa, ci si trovò di fronte a notevoli differenze d'impostazione, derivanti dall'attenzione posta a differenti aspetti: le forme istituzionali della religione, l'esperienza religiosa personale, le dimensioni personali e le dimensioni formali. Ognuno di questi aspetti porta a letture parziali e riduttive, che mal si accordano con la convinzione, sempre più condivisa nelle altre scienze della religione, che la religione focalizza la totalità e la globalità, come dimensioni fondamentali della persona e come correttivi della frammentazione inflitta alla personalità, dalle tensioni culturali, sociali e ambientali. Perciò, l'analisi delle singole parti appare insufficiente o fuorviante per la conoscenza del tutto. Tuttavia, va ricordato ancora una volta, questo approccio fondamentale non nasceva dalla psicologia della religione, ma dalla psicologia generale. Quindi, anche per la psicologia, occorreva una decisa svolta antropologica e l'accettazione del nuovo spirito scientifico, che le consentissero di "riscoprire la persona come totalità, sottolineare la sua originale individualità ed evidenziare la radicale novità di ogni essere umano." Questi tre elementi "rappresentano le coordinate di un pensiero che la psicologia sta cercando di approfondire ed enucleare in vista di una lettura più adeguata dei processi decisionali e degli orientamenti della persona umana, anche nella prospettiva della condotta religiosa".9 A tal fine V.E. Frankl, ha proposto una visione dell'uomo, radicalmente orientata al "significato", da realizzare nella libertà e nella responsabilità.10 Ciò appare molto importante, poiché coincide pienamente con le risultanze dell'antropologia della religione, che sottolinea come questo sia, da sempre, il messaggio dell'homo religiosus. Pertanto, tema centrale della psicologia della religione appare, sempre più, l'esperienza religiosa di singoli e gruppi, volti a conferire alla loro vita coerenza e significato.11

5.

Psicologia della religione: problemi e crisi

La psicologia della religione, oltre a questi problemi generali e di fondo ne presenta altri specifici, quali: che cosa si intende per studio psicologico della religione; come questo studio scientifico si rapporti alla religione; quali problemi emergano dall'applicazione delle metodologie psico-scientifiche alla religione.12

3

Inoltre vi sono le difficoltà derivanti dalle alterne vicende storiche e culturali che, di volta in volta, acuiscono o attenuano l'interesse per una determinata disciplina. Pertanto alcuni specialisti ritengono che il "declino" storico della psicologia della religione sia stato causato, alla metà del secolo, da: la sua separazione dalla teologia e dalla filosofia e dai compiti delle istituzioni religiose; il suo uso unilaterale e inadeguato dei metodi di raccolta e di spiegazione dei dati; le sue visioni scientiste, comportamentiste e positiviste; l'aver assegnato la priorità ai dati empirici e oggettivi anziché ai fenomeni soggettivi.13 Altri invece hanno proposto come cause: le tendenze speculative e apologetiche derivate da interessi prevalentemente teologici; l'accettazione di teorie deterministe, riduzioniste, psicopatologiche e psicanalitiche; l'attenuata attenzione ai problemi globali della persona (comportamentismo).14 Non mancano le critiche per i suoi prestiti acritici dalla psicoanalisi che, con l'approccio speculativo-ipotetico di Freud, impedì una seria ricerca sistematica.15 Infine, viene ricordato il pregiudizio diffuso fra gli operatori scientifici, che la scienza avrebbe realizzato il sogno scientista-positivita di "neutralizzare" (sconfiggere) definitivamente la religione.16 Tuttavia, tale presunto declino può essere pure interpretato come una delle tante "pause di riflessione" che accompagnano il cammio di ogni scienza. Infatti, anche per questa scienza, il nuovo spirito epistemologico e scientifico della metà del '900 sta dando i suoi frutti. Alla fine degli anni '70 si notava già una crescente ripresa di studi e ricerche, concentrati su nuovi temi quali le radici storiche del fenomeno religioso e le motivazioni dell'adesione a nuovi movimenti religiosi.17 L'analisi di questo indirizzo, che comportava forti connotazioni particolari e locali, richiederebbe lo studio dei diversi ambienti nazionali, impossibile in questa sede.

6.

Psicologia della religione e contesto socio-culturale

Per capire meglio le posizioni assunte dalla psicologia della religione, dobbiamo collocarle nei contesti socio-culturali in cui esse si svilupparono, restandone condizionate. Questi condizionamenti dimostrano quanto l'atteggiamento scientifico e gli stessi contenuti della scienza siano influenzabili dall'esterno. Confrontiamo, perciò, due tradizioni emblematiche, che si collocano esattamente agli antipodi: quella americana-statunitense e quella europea-francese. La prima si svolse, nella seconda metà dell'Ottocento, nella società e cultura nordamericane, altamente industrializzate e tecnologizzate, che presentavano una religiosità vitale, una notevole fioritura di movimenti religiosi e la diffusione di spiritualità orientali. Tutto ciò avveniva esattamente nel periodo in cui i paesi europei erano sconvolti da crescenti espressioni laiciste, secolariste, anticlericali, antireligiose ed atee. La società statunitense, benché laica e secolare, costituiva "un crogiolo di fedi e religioni, che non aveva eguali in Europa" e che i psicologi americani, interessati ai fenomeni religiosi, potevano analizzare come "materiale umano di straordinaro interesse e di prorompente vitalità".18 Di qui la quantità e qualità notevole delle loro ricerche. Più o meno nello stesso tempo, in Francia, l'orizzonte della psicologia era dominato dall'orientamento "psicopatologico", volto allo studio dei disturbi mentali. Vi eccelleva Charcot, alla cui scuola si sarebbe specializzato anche Freud. In seguito all'influsso francese, la psichiatria assunse un'enorme importanza, nella cultura e società dell'Europea ottocentesca, afflitte dalla crescente diffusione di nuove forme di follia, di nevrosi e di schizofrenia. Alquanto più tardi, le ricerche di Jung, Allport e Frank dimostrarono che esse derivavano dalle crescenti contraddizioni socio-culturali della

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moderna società borghese, dal suo agnosticismo e irreligiosità, dai suoi sogni (o deliri) di grandezza e di inarrestabile progresso. Era, pertanto naturale, per gli uomini di scienza del tempo, interpretare anche le manifestazioni religiose mediante i criteri e principi delle malattie mentali. Pertanto, i nuovi detentori del potere medico (psichiatri e psicologi), a base delle loro ricerche e teorie, assunsero il paradigma della "religione come malattia mentale", e i maestripsichiatri, Epinal, Esquirol, Charcot, ecc. si auto-investirono della missione di liberarne l'umanità. Lo spirito del tempo, e l'assenza di ogni preparazione epistemologica, indussero questi medici a estrapolare le loro esperienze, dall'anormale verso il normale, interpretando il secondo alla luce del primo, confondendo le "analogie" con le "identità" e gli "effetti" con le loro "cause". Deviati da questi indebiti passaggi finirono con l'interpretare, come patologici, fenomeni che, a livello genetico e fenomenologico, erano totalmente diversi, come il misticismo e lo spiritismo. Al posto dei "fondamenti scientifici" posero i surrogati dei preconcetti ideologici. Gli stessi titoli di alcune loro opere sono emblematici. Murisier scriveva "Les maladies du sentiment religieux"19 libro ispirato a un puro "materialismo medico" sul presupposto che "la malattia decompone i sentimenti superiori" dell'uomo e che tale "decomposizione" provoca la religione. Pertanto le fasi "progressive" di tale malattia erano: l'estasi o sentimento religioso-individuale, il fanatismo o suo sintomo sociale, infine, il contagio epidemico, ossia la diffusione (o infezione) endemica, vera e propria, della religione.20

7.

Freud, psicanalisi e scienze della religione

Collocato in questo contesto e collegato alle sue premesse, il caso di Freud e della psicanalisi divengono molto normali e privi di scandalo. Interpretazioni e critiche freudiane della religione, giudicate un "Giano bifronte", appaiono comprensibili, nella temperie storica e culturale dell'epoca che riassumeva i più triti dogmatismi ideologicoilluministi. Alcuni derivavano dal programma illuministico dell'interpretazione naturalistica della religione, per contribuire alla sua scomparsa definitiva. Altri provenivano dal riduzionismo scientista che spiegava tutta la realtà in termini di: "non è altro che...". Un terzo gruppo derivava dalle insufficienti conoscenze epistemologiche e storicoscientifiche dell'epoca.21 Il caso Freud, perciò, si presta a interessanti osservazioni epistemologiche e storico-culturali. Innanzitutto vi fu l'equivoco di identificare il suo nome e la sua dottrina, con l'analisi del profondo e le osservazioni sulla religione che ne derivano. Infatti, le analisi del profondo furono diverse e numerose, come dimostrano le concezioni del tutto opposte sviluppate, più o meno contemporaneamente da Jung, nello stesso campo analitico e sullo stesso argomento. Esse poggiavano su basi molto più solide e documentate, che hanno offerto prezioso materiale per gli studi antropologici sulla religione, tanto che la nuova antropologia religiosa, che rappresenta oggi, uno dei punti più avanzati e significativi delle scienze della religione, se ne avvale ampiamente. Inoltre, fin dagli inizi, il pensiero freudiano sulla religione rappresentava la parte meno fondata o rilevante del suo indirizzo psicanalitico, mentre l'applicazione del suo metodo psicanalitico conteneva plessi ermeneutico-interpretativi molto originali e fecondi per le indagini psico-religiose. Pertanto, il grande ed equivoco favore, riservato ai contenuti meno fondati della dottrina freudiana, va addebitato maggiormente allo spirito dell'epoca e alle scarse capacità critiche ed epistemologiche dei suoi seguaci.22 Freud rispondeva alle 5

aspettative della società borghese del tempo, che se ne sentiva gratificata. Utilizzava l'ideologia scientista, egemone nelle classi dirigenti, intellettuali e imprenditoriali, "profetando" che la scienza avrebbe spiegato e risolto tutti i problemi. Soprattutto avrebbe cancellato i vincoli dell'etica e della religione. Altrettanto scientista era la ricerca del "principio unico", in base al quale spiegare tutta la realtà. L'idea che nevrosi e malattie mentali fossero il "principio" fondamentale per "smascherare" origini e natura della religione non era sua. Freud l'aveva appresa nel tirocinio alla clinica Salpêtrière di Parigi, sotto il famoso Charcot, studiando il lato psicologico delle neuro-patologia e la psicologia delle nevrosi.23 Charcot, capo riconosciuto della neurologia moderna, era convinto del rapporto fra religione e disordine mentale, e il suo massimo contributo alla scienza delle religioni risiede nelle sue teorie sulla natura psicopatologica della religione.24 Fondato su tale autorità, Freud si sentiva nelle condizioni ideali per studiare le forme nevrotiche a carattere religioso e le forme religiose a carattere nevrotico.

7.1. Limiti ed equivoci epistemologici Da un limitato punto di vista scientifico, tale studio poteva essere utile a fini terapeutici. Purtroppo l'ideologia scientista e le carenze epistemologiche trasformarono in legge assoluta e universale delle semplici congetture limitate, parziali e provvisorie dimostratesi, poi, false. Ciò che costituisce uno dei maggiori limiti delle teorie freudiane, riguardo alle scienze della religione, è l'assoluta inadeguatezza di documentazione. Le sue informazioni erano lacunose, incerte, di seconda mano. Le ricostruzioni di personaggi come Amenofi, Mosé, e Gesù, sotto i profili storici ed esegetici, sono del tutto fantasiose. Sotto il profilo metodologico, lascia estremamente perplessi la pretesa di riservare all'analista ogni interpretazione esclusiva e inappellabile delle testimonianze personali e comunitarie sulla religione. Tali interpretazioni invariabilmente negative sono dogmatiche e immotivate. Il verdetto è negativo già ancora prima che gli interessati possano esprimersi. Esso va solo "creduto" e accettato. Nulla e nessuno possono rimuoverne la presunzione a sfavore. Ogni critica o argomento contrario vengono tacciati di autodifesa aprioristica e autogiustificazione. Pertanto ogni reciprocità è rigorosamente negata senza giustificazione. Questo "infallibile marchingegno scientista" rende "inconfutabile" il dogmatismo in base al quale ogni discorso larvatamente religioso e anche il semplice interrogarsi sul senso e il valore della vita è già visto come malattia mentale. Inoltre, chissà perché, la scienza non può essere sospettata di illusione e i suoi risultati sono presupposti utili. Per questi motivi, il discorso freudiano viene ormai ritenuto l'estrema retroguardia del positivismo e sopravvivenza del secolo XIX. Tuttavia, degenerazioni ideologiche e dogmatismi, non vanno addebitate al solo Freud, ma anche alla legione dei suoi pedissequi e acritici ripetitori. In questo campo l'epistemologia contemporanea avrà da condurre una profonda e vasta bonifica.

7.2. Apporti positivi Ciò premesso, dobbiamo pure ricordare le tematiche psicanalitiche generali, che offrono contributi importanti alle scienze della religione. Alcuni ritengono che l'impostazione freudiana, come metodo psicoanalitico, dinamico-genetico, volto a evidenziare la natura conflittuale e inconscia dei processi psichici, abbia contribuito a chiarire l'aspetto motivazionale dell'esperienza religiosa. Essa ha portato a considerare credenze e pratiche del singolo, in un'ottica di realizzazioni dei desideri, di controllo degli stimoli, di duplicità dei processi di pensiero, di relazioni oggettuali, di genesi della coscienza e dell'ideale dell'io, di economia degli aspetti libidinali e aggressivi. Tutti questi aspetti sono come i volti di una realtà umana variegata e complessa della 6

religione, che è una qualità dinamica e una parte essenziale del conflitto o lotta per la vita, cui intende portare una risposta definitiva. Altri contributi positivi riguardano pure l'ambito dei simboli. Eliade ha approvato il riconoscimento dell'efficacia dei simboli, anche a livello inavvertito e inconscio, da parte dei membri di una comunità.25 Meslin ha apprezzato, soprattutto, i temi dello svelamento dell'"immaginario profondo" nella psicologia dell'uomo religioso, che la fede riveste concretamente e deve far passare dall'ordine dell'immaginario a quello del simbolo.26 Milanesi e Aletti hanno ritenuto importanti, nel campo specifico della psicologia delle religione, la scoperta delle problematiche infantili, riguardanti l'insorgenza della religiosità umana e volte a precisare il carattere globale dello sviluppo religioso, nonché la concezione della religiosità come funzione, non secondaria né separata, di tutti i processi che toccano l'uomo in crescita.27 W. James, pur criticando severamente il materialismo medico dell'approccio freudiano, ne ha pure sottolineato gli aspetti positivi riguardanti la ricerca dei casi eccezionali, l'importanza attribuita al fattore dinamico e l'attenzione agli elementi inconsci e alle loro interazioni con il conscio. Tutti questi riconoscimenti indicano la varietà, il numero e l'importanza delle problematiche sollevate dal pensiero freudiano per le scienze della religione. Perciò occorre rivisitarli alla luce delle nuove acquisizioni epistemologiche e dell'atmosfera del nuovo spirito scientifico. Tuttavia, tenuto conto del pesante clima egemone, secolarista e scientista, gravante sul mondo scientifico di allora, appaiono maggiormente apprezzabili i tentativi originali e coraggiosi di alcuni psicologi della religione, volti a superare i presunti conflitti o incompatibilità fra religione e scienza. Al riguardo J.H. Leuba (1868-1946) dimostrò, ad esempio, che non vi era differenza fra coscienza religiosa e non religiosa, per cui la verità religiosa era, come ogni altra, ricavabile dall'esperienza e soggetta ad errore.

8.

La psicologia religiosa di W. James

W. James è forse l'autore che seppe criticare più lucidamente e fondatamente i dogmatismi scientifici ed epistemologici del suo tempo quali: il razionalismo tradizionale, il determinismo spenceriano, il materialismo medico e il meccanicismo psicologico. Egli, vivendo in una società aperta e pluralista, dimostrò che quelle idee erano insostenibili e incompatibili in una cultura aperta e pluralistica. Criticò pure, in modo rigoroso e serrato, i metodi positivisti, proponendo di integrarli con quelli descrittivi e fenomenologici. Il suo "The Varieties of Religious Experience (1902) è ritenuto il capolavoro della psicologia religiosa statunitense. Per lui, la religione, in quanto realtà psichica, è un'esperienza genuina, squisitamente individuale ma interrelata alla comunità, che va indagata e interpretata in chiave di psicologia empirica. Le religioni storiche devono corrispondere alle esigenze autentiche espresse da ogni epoca, cultura e comunità. Oggetto della psicologia religiosa sono i fatti di coscienza e gli atteggiamenti personali emergenti dalle fonti autobiografiche. Il metodo deve riscostruire fatti completi, posti in cerchi concentrici di significato, fino a raggiungere il cuore del problema. Suo scopo è scoprire ciò che è unico nell'esperienza del singolo.28 Queste idee ebbero notevole risonanza anche in Europa, in particolare in Girgenshon, per il quale la religione rappresenta una produzione spirituale sintetica, molto ampia, che abbraccia tutte le forze fondamentali dell'anima e crea un'unità a partire da molteplici contenuti e collegamenti esperienziali. Dell'esperienza religiosa vanno messi in luce, soprattutto, i pensieri intuitivi del divino, riconosciuti e accettati come propri e la convinzione che l'oggetto di tali pensieri è una realtà indiscutibile.

7

9.

Tesi junghiane e scienze della religione

Le tesi junghiane, tuttavia, non sembrano aver perso la loro attualità, consentendo di focalizzare ulteriormente le precedenti osservazioni. Per ciò, la nuova antropologia della religione se ne avvale molto. Qui, necessariamente, dovremo soffermarci soltanto su alcuni aspetti. Jung, partito da grande ammirazione e simpatia per le posizioni freudiane, percorse poi un itinerario scientifico ed epistemologico diverso ed opposto. A differenza di Freud, non pretese mai dare statuto ontologico alle sue affermazioni, rispettando rigorosamente i limiti della scientificà e non trasgredendone i confini. Fondandosi su una lunga e vasta pratica clinica, riscontrò la capacità della psiche umana di intuire l'Assoluto. Pertanto sottolineò la naturale religiosità dell'uomo e la presenza dell'istinto religioso, come parte integrante della sua struttura psichica. Quanto al problema delle malattie psichiche, in totale opposizione a Freud, dimostrò che le persone si ammalano perché hanno perduto ciò che le religioni di tutti i tempi sanno dare ai loro fedeli, e che non possono guarire se non maturano un atteggiamento veramente religioso.29 Un confronto fra i due può chiarire meglio questo punto. Per Freud lo sviluppo della vita psichica è intimamente legato alla complessa maturazione dell'istinto sessuale e la religione è la "suprema illusione e nevrosi universale". Per Jung la vita psichica scaturisce dal mutuo gioco di differenti istinti ed impulsi, che si dividono in due grandi correnti: gli istinti di conservazione e gli istinti o impulsi "spirituali". Tra questi ultimi emergono l'etica, l'arte e la religione. Il dominio unilaterale di una sola corrente rompe l'equilibrio, conducendo alla decomposizione della personalità.30 Questa impostazione, più aperta e comprensiva, spiega le crescenti critiche alle dottrine freudiane e la più ampia applicazione delle concezioni junghiane che, per la loro valorizzazione dei simboli e dell'immaginario, hanno consentito numerosi impieghi in campo antropologico e socio-culturale.31

9.1. Jung, psicologia e antropologia della religione Meslin ha riconosciuto il grande valore epistemologico, concettuale e metodologico delle analisi junghiane.32 Il suo giudizio positivo sull'opera di Jung riguarda molti punti. In particolare: le concezioni e il metodo analitico di Jung si dimostrano utili per elaborare un'antropologia religiosa cosciente delle proprie possibilità e dei propri limiti.33 L'interpretazione junghiana della religione consente di testimoniare, in chiave psicologica al passo coi tempi, il senso profondo dei valori contenuti nel patrimonio religioso dell'umanità.34 Soprattutto egli ha messo in luce il primato dell'intuizione e del pensiero fantastico e sopraverbale, che spaziano nell'ambito dei sentimenti e delle immagini ineffabili e il pensiero soggettivo e il linguaggio del mito e dei simboli. Essi si contrappongono al linguaggio arido e duro della pura ragione rivolta all'esterno e a ogni razionalismo chiuso e, in questo modo, restituiscono alla psiche junghiana la "realtà dell'anima".35 Pertanto il contributo di Jung alla psicologia religiosa appare molteplice. La religione vi appare, innanzitutto, come religiosità individuale, esperienza immediata del rapporto con la potenza numinosa, dell'inconscio collettivo e dei suoi archetipi. Jung si arresta al livello della verifica empirica del dato di coscienza, senza pretendere di pronunciarsi sulla verità del dato ontologico e metafisco eventualmente soggiacente. Egli riconosce la religione come "psicologicamante vera" e avverte che la sua essenza non si può cogliere per via psicologica. Ciò che si può cogliere è il processo di maturazione psichica e umana provocato da ogni attività religiosa, per cui le religioni sono autentiche psicoterapie, che guariscono le sofferenze dell'anima e quelle psichiche del corpo.36 Per una più approfondita analisi dei dettagli positivi dell'opera di Jung rimandiamo alle interessanti osservazioni di G. Durand.37

8

10. Psicologie della religione: tematiche contemporanee Come abbiamo accennato, alla metà del secolo XX, la psicologia della religione si riprese dalla profonda crisi che, fra l'altro, contrapponeva due diverse interpretazioni della disciplina. Una la riteneva un ramo della scienza delle religioni, l'altra un ramo della psicologia scientifica. La prima assumeva a fondamento l'homo religiosus e si orientava in senso ermeneutico, l'altra assumeva a fondamento l'homo psychologicus, che intendeva indagare in modo empirico. Tale conflitto opponeva, al vecchio paradigma della scienza illuminista, quello romantico dell'assoluta autonomia della religione. Gli sviluppi più recenti del dibattito hanno assegnato uno spazio crescente all'impostazione ermeneutica e tendono a un'armonica integrazione delle due prospettive.38 Attualmente, oggetto della psicologia religiosa è soprattutto la religione contemporanea, che per i suoi caratteri vaghi e indeterminati trova troppo restrittive le definizione riguardanti le religioni tradizionali e troppo estese le altre. Di qui la duplice difficoltà di cogliere ciò che è veramente importante per il soggetto, oppure di dover introdurre dei giudizi di valore.39 Riguardo alla posizione personale degli operatori scientifici, Vergote ha distinto fra posizione a-tea e anti-teistica,40 e ha messo in luce, sopratutto, la necessità di superare l'atteggiamento scientista divulgato dalla psicoanalisi. Alcuni autori sottolineano la complementarietà fra religione e psicologia religiosa per cui: 1) le spiegazioni dell'una non escluderebbero affatto quelle dell'altra, ma al contrario si completerebbero; 2) in molti casi esse pervengono a conclusioni parallele; 3) nella pratica risultano complementari.41 Riguardo al metodo, psicologia generale e psicologia della religione condividono una comune difficoltà: nella loro ricerca, la psiche umana appare contemporaneamente strumento e oggetto, costituendo un circolo chiuso. Finora il ricorso alle tecniche più disparate non ha risolto, ma complicato ulteriormente il problema.42 In seguito allo sviluppo epistemologico, negli ultimi tempi la psicologia religiosa è divenuta più consapevole del problema dell'interpretazione e della valutazione critica delle sue tecniche, dei suoi controlli e della loro garanzia. Si è resa pure conto che le leggi scientifiche non sono "dati" ma soltanto indicazioni per osservarli e analizzarli, e quindi sono solo interpretazioni. Quanto all'oggettività come "ideale" scientifico, essa ammette che si tratti di una "vigilanza" sui comportamenti scientifici, per evitare manipolazioni coscienti o inavvertite dei dati. Come tale deve variare da una disciplina all'altra, rimanendo un ideale più illusorio che reale. Perciò è essenziale controllare rigorosamente ogni pretesa di trarre conclusioni corrette e libere da valori.43

11. Riflessioni conclusive Vergote sottolinea che, nonostante i loro progetti iniziali, psicologia, sociologia e antropologia culturale dovettero rinunciare al sogno di una "teoria esplicativa della religione" capace di spiegarne l'essenza profonda, perché essa supera i limiti delle scienze umane. Ripiegando su di una definizione operativa dovevano, comunque, scegliere se riferirisi a un "sistema simbolico" a una "istituzione sociale" o a una "vita soggettivo-personale". Le scienze della religione avrebbero evitato molte difficoltà e contraddizioni se avessero curato maggiormente un serio dialogo transdisciplinare e un e rigoroso confronto espistemologico. Ormai, la crescente evidenza che le origini della religione

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affondano nella preistoria e si ritrovano in ogni cultura fa superare molte spiegazioni, spacciate come scientifiche, ma rivelatesi pseudo-filosofiche e ideologiche. La religione è nata con l'uomo, ma non si è potuto dimostrare che sia stata fatta dall'uomo. Ogni volta che la scienza considera l'uomo come "creatore" della religione scade nello scientismo: la psicologia scade in "psicologismo", la sociologia in sociologismo, l'antropologia in antropologismo e così via. La psicologia comincia e rendersi conto che nulla di ciò che è umano è puramente psicologico, sebbene tutto lo sia in qualche modo. In realtà la "psicologia della religione" si riferisce all'uomo religioso, interpellato dai segni religiosi provenienti da una storia immemorabile e posto di fronte a concezioni rivali dell'esistenza. Il credente si apre verso le sponde divine, perché percepisce, nel messaggio religioso, una luce che illumina la sua esperienza. La sua apertura non è arbitraria ma ragionata, tuttavia non elimina mai tutte le inquietudini derivanti da una realtà divina che non si lascia mai conquistare. Perciò, l'uomo religioso deve sempre ritornare al fondo delle ragioni della sua fede e rinnovarle, ogni volta che incontra una nuova voce discordante. Questo processo non avviene nella limpidezza assoluta, ma nell'oscurità delle radici affettive, nella pesantezza delle strutture e nelle incertezze della vita, che coinvolgono le stesse motivazioni di fondo. Pertanto, la scelta di fede, che è il cuore del rapporto religioso, appare come un cammino coraggioso, ma travagliato da contraddizioni e contestazioni, che costringono a un'incessante e sempre sofferta delucidazione, perchè la religione non è teoria del mondo, ma vita ed esperienza, di cui la psicologia può costituire soltanto una "prefazione".44 1

S. Poggi, Le origini della psicologia scientifica, Torino 1980, 10.

2

Poggi, Le origini della psicologia, 10-11.

3

Poggi, Le origini della psicologia, 16.

4

G. Filoramo C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987, 159-160.

5

Filoramo, Prandi, Le scienze, 161.

6

E. Fizzotti, Verso una psicologia della religione, Torino-Leumann 1992, 18-19.

7

Fizzotti, Verso una psicologia, 19-22.

8

Fizzotti, Verso una psicologia, 24-25.

9

Fizzotti, Verso una psicologia, 47.

10

V.E. Frankl, Der Wille zum Sinn. Ausgewählte Vorträge über Logotherapie, Bern 1982, 108-118. 11

J.M. Yinger, The Scientific Study of Religion, New York 1970, 11.

12

Fizzotti, Verso una psicologia, 71.

13

Cf. W. Douglas, "Religion", in N. Farberow (Ed.), Taboo Topics, New York 1963, 80-95.

14

O. Strunk, "The Present Status of the Psychology of Religion", in The Journal of the Bible and Religion, 25 (1957), 287-292. 15

Fizzotti, Verso una psicologia, 83.

16

T. W. Adorno, La personalità autoritaria, Milano 1973, 2 voll.

17

Cf. D.M. Wulff, Psychology of Religion. Classic and Contemporary Views, New York

1991. 18

Per le due citazioni cf. Filoramo, Prandi, Le scienze, 164.

10

19

E. Murisier, Les maladies du sentiment religieux, Paris 1901.

20

Filoramo, Prandi, Le scienze, 162-163.

21

Cf. G. Gismondi, Fede e cultura scientifica, Bologna 1993.

22

Il giudizio del Ferrarotti è particolarmente severo: "I neofreudiani a orecchio che saccheggiano irresponsabilmente senza capirlo, si sono buttati sull'eros per cavarne spiegazioni improvvisate, scientificamente insostenibili e moralmente truffaldine, ma in primo luogo per procurarsi, con la facilità di chi accarezzi miti popolareggianti, fama e quattrini"; F. Ferrarotti, Una teologia per atei, Bari 1984, 134. 23

Fizzotti, Verso una psicologia, 118.

24

Fizzotti, Verso una psicologia, 94.

25

M. Eliade, La nostalgia delle origini, Brescia 1980, 34.

26

M. Meslin, Per una scienza delle religioni, Assisi 1975, 123-131.

27

G. Milanesi, M. Aletti, Psicologia della religione, Torino-Leumann 1977, 47-52.

28

Filoramo, Prandi, Le scienze, 170-174.

29

C.G. Jung, "I rapporti della psicoterapia con la cura d'anime" (1932), in Opere, XI, Torino 1981, 317. 30

Fizzotti, Verso una psicologia, 150.

31

D. Wyss, Storia della psicologia del profondo, Roma 1979, 246.

32

Meslin, Per una scienza, 139.

33

C. Skalicky, Alle prese col sacro, Roma 1982, 124.

34

Filoramo, Prandi, Le scienze, 188.

35

Filoramo, Prandi, Le scienze, 185.

36

C. G. Jung, Ricordi, sogni riflessioni di C,G. Jung, Milano 1965, 106.

37

G. Durand, "L'uomo religioso e i suoi simboli", in Anati-Boyer, Le origini, 94-104.

38

Filoramo, Prandi, Le scienze, 191-192.

39

Filoramo, Prandi, Le scienze, 199-200.

40

A. Vergote, Psicologia religiosa, Torino 1967, 26-27.

41

R.F. Paloutzian, Invitation to the Psychology of Religion, Glenview Ill. 1983, 115-116.

42

Se ne contano una ventina: questionari, interviste, biografie, content analysis, metodo ricreativo, diari, documenti di storia delle religioni, metodo psico-storico, osservazione partecipante, ordine di merito, scale, tests, statistiche, survey, documenti personali, tecniche proiettive, esami attraverso il tempo. Cf. D.A. Flakoll, " A History of Method in Psychology of Religion (1900-1960)", in H.N. Maloni (Ed.), Current Perspectives in the Psychology of Religion, Gran Rapids 1979, 82ss. 43

Fizzotti, Verso una psicologia, 63-64.

44

A. Vergote, Religione, fede, incredulità. Studio psicologico, Milano 1985, 5, 11, 14-16, 373-375.

11

6.

LE SO CIOLOGIE DELLA RELIGIONE

1.

Ce nni introduttivi

La sociologia viene considerata un tentativo di rispondere alle crisi provocate nella società occidentale moderna, dall'espandersi dei processi tecno-industriali. Le basi della sociologia della religiose risalgono ad essa, in seguito al notevole interesse nutrito dai sociologi "classici" per l'influsso delle religioni sulle strutture sociali. Pertanto, in seguito a queste origini, l'approccio sociologico alle religioni faticò assai per trovare un collegamento all'esperienza religiosa radicata nella vicenda umana globale. Pertanto le sociologie della religione hanno conquistato uno spazio crescente nell'ambito delle scienze della religione a caro prezzo. Per di più, l'estrema varietà di teorie e indirizzi emersi nel tempo, rende la lettura dei loro dati tutt'altro che facile. Perciò cercheremo di metterne in luce solo alcuni temi più importanti per il nostro argomento. Premettiamo che le sociologie della religione oggi non pongono più al centro dei loro interessi la religione in quanto tale, ma le sue "funzioni sociali". Di qui la molteplicità di prospettive, quali: la determinazione dei contenuti sociali impliciti in un sistema religioso; la funzione "connettiva" della religione in una data struttura sociale, le modalità sociologiche delle strutture di un sistema religioso, ecc.1 Si tratta di temi molto interessanti, ma altrettanto problematici e non facile interpretabili ai nostri fini. 2.

Sociologia e universo sociologico

Per la sociologia in generale, un primo problema è dato dalle numerose realtà che intende indagare. Esse vengono studiate, ormai, da diverse e molteplici discipline, che costituiscono un vero "universo sociologico". Un secondo problema deriva dal prolungato condizionamento subito dai modelli delle scienze naturali, che la indussero a definirsi, agli inizi, come "fisica" sociale o filosofia "naturale".2 Un terzo problema, connesso ai due precedenti, riguarda la sua storia assai complessa che comprende, come per ogni altra scienza, aspetti e realtà molto diverse. Una è la "storia delle dottrine" sociologiche, emerse nelle varie epoche e nei vari paesi, che non va confusa con la "storia dei risultati", conseguiti dalle teorie sociologiche del passato. Vi è inoltre una "storia del processo conoscitivo", che riguarda la storia dei problemi sociologici che, a sua volta, non va confusa con la "storia delle scuole", ossia dei grandi insiemi o sistemi di teorie sociologiche.3

2.1. Sociologia: filosofia e scienza Riguardo ai contenuti, la distinzione che ci riguarda maggiormente è quella tra la sociologia "filosofica" e quella "scientifica". Gli stessi specialisti appaiono in difficoltà nello stabilire criteri pratici, per orientarsi nell'immensa letteratura al riguardo. La proposta di considerare scritti filosofici quelli anteriori al secolo XIX e scientifici quelli successivi, per quanto chiara dal punto di vista cronologico, appare molto oscura se intesa in senso epistemologico. In questo caso l'ambiguità coinvolgerebbe lo stesso Comte e il suo intento di liberare la conoscenza sociologica dalle speculazioni della filosofia sociale. Di fatto, il suo punto di vista, vincolato a una concezione "metafisica" del "fatto sociale", subì una forte involuzione speculativopositivista, superata a fatica dopo molti decenni e tale da condizionare lo stesso Durkheim. Per lui, infatti, i fenomeni sociali erano cose da trattarsi come cose.4 Pertanto la moderna sociologia scientifica, iniziata nella seconda metà dell'Ottocento, raggiunse uno sviluppo soddisfacente solo verso la metà del secolo XX ed è tuttora alla

ricerca di una sua formulazione più concreta, oggettiva e completa.5 Pertanto, la distinzione tra sociologia filosofica e scientifica rimane tuttora assai difficile.

2.2. Razionalità scientifica, scienze umane e sociologia L'epistemologia recente, tuttavia, critica e contesta proprio la vantata "razionalità scientifica" (scientificità) che, a suo dire, avrebbe impoverito drasticamente la sociologia, rendendola tecnicamente perfetta, ma priva di significato umano, per la sua pretesa "di dispensare leggi a validità universale, necessarie e necessitanti, secondo uno schema causale rigoroso, e quindi capaci di spiegare esaurientemente i fenomeni indagati".6 Ferrarotti va oltre, estendendo tale critica pure alle "motivazioni" di molte ricerche, "sviluppate non in base a un nucleo problematico profondo" ma in ossequio alle mode culturali del momento, sensibili "più alle esigenze commerciali del mercato che a quelle di un preciso quadro teorico".7 A tale esempio, egli cita proprio le ricerche di sociologia della religione sulla "crisi del sacro" e la "secolarizzazione" nelle società industriali avanzate, definendole "reazioni difensive ed extrascientifiche". 2.3. L'deologia scientista e le sue conseguenze sociologiche Dagli anni '80, Ferrarotti svolge una serrata critica all'ideologia "scientista" della sociologia, intesa come "processo di divinizzazione della scienza", sviluppatosi nella società europea, che aveva rifiutato i precedenti fondamenti tradizionali. Egli accusa la sociologia di essersi prestata a fornire le basi di legittimazione dei sistemi e dei poteri socio-politici,8 divenendo uno "strumento a servizio del potere" e condizionando il consenso interindividuale.9 Ritiene, perciò, che questa deviazione permanga tuttora, anche se la sociologia, oggi, non si presenta più come dispensatrice di leggi universalmente valide, necessarie e necessitanti e neppure di uniformità e generalizzazioni provvisorie e probabilistiche, ma solo come una spiegazione pluricausale, condizionale e operativa, volta a controllare la realtà.10 Al riguardo egli propone come "antidoto" dal vigoroso potere catartico, una "sociologia della religione" che "al di fuori e al di là di ogni tentazione dogmatica, imponga il ritorno alla scienza, come capacità dell'uomo di porsi in relazione problematica con se stesso, con gli altri uomini e l'universo".11 Un simile capovolgimento che porrebbe la sociologia della religione a modello della sociologia generale, dimostra la possibilità di estendere pure all'ambito sociologico il nuovo spirito scientifico ed epistemologico di cui abbiamo trattato nei precedenti capitoli.

2.4. Sociologia e suo "ambito problematico" I mutamenti epistemologici intervenuti, che fanno consistere la scientificità nell'ottica specifica e autonoma delle ricerche di ogni scienza, giustificano pure il pluralismo metodologico. Esso appare sempre più urgente per la ricerca scientifica odierna, che è sempre più multidisciplinare. Pertanto, anche per la sociologia appare più appropriato sostituire il termine e il concetto di "oggetti delle scienze" con quello di "ambiti problematici". Ciò le consentirebbe di passare, da una presunta ma indimostrata "materialità del dato", a una motivata "concettualizzazione della realtà", condivisibile da più discipline. In questo caso, l'ambito problematico della sociologia sarebbe la società definita dai concetti sociologici (predicati) di storicità, evolutività, dialetticità, globalità, comparatività, ecc.12 3.

Sociologia e recupero dell'autono mia problematica

Ferrarotti ritiene che ciò permetterebbe pure di correggere due altri effetti negativi dello "scientismo sociologico": quello di riconoscere al dato una legittimità finale che non gli compete e quello di lasciare al "mercato" la scelta dei problemi da studiare. Entrambi privano la sociologia della sua autonomia e della sua dignità scientifica e le 55

sottraggono la sua coscienza problematica e la sua criticità. In seguito a queste deprivazioni, i suoi problemi diventano quelli dei suoi committenti abbagliati da un ingenuo quantitativismo, contrabbandato come scientificità. Tutto ciò induceun desiderio di semplificazione, che forza la mano ai sociologi.13 Analoghe preoccupazioni esprime pure S. Acquaviva, nell'ambito di una concezione umanistica della sociologia. Egli ritiene che lo studio dei cicli storici, che precedettero l'attuale fase di sviluppo della società, abbia provocato due diverse posizioni. La prima consiste nel ricorrere a un'ampia integrazione interdisciplinare con la storia e la cultura d'insieme. La seconda consiste nel limitare le scienze sociali alle sole analisi sui gruppi umani ristretti, evitando le teorizzazioni d'insieme. La ragione per la seconda posizione è che il valore scientifico di vaste elaborazioni e generalizzazioni è dubbio, data l'imprecisione e inadeguatezza degli strumenti delle scienze sociali, che impedisce la formulazione di teorie scientifiche affidabili e la sistemazione coerente delle acquisizioni. La seconda impostazione, perciò, privilegia lo sviluppo di numerose sociologie particolari, da far confluire in sintesi volte a rivalutare la persona umana, attraverso una forma nuova e originale di umanesimo scientifico.14 Anche questa proposta appare interessante per un dialogo transdisciplinare, non solo tra le discipline sociologiche, ma anche con quelle degli altri ambiti (scientifico, filosofico, teologico). 4.

Sociologia della religione

Esaminati i problemi più generali della sociologia come disciplina globale, passiamo ora a quelli specifici della "sociologia della religione" (o delle religioni). Al riguardo tornano utili alcune premesse. La prima è che lo studio scientifico e sistematico della religione è nato durante la crisi religiosa di massa che ha aggravato ulteriormente il riduttivismo già insito negli approcci scientifici. Perciò, la crisi religiosa, parallela all'estendersi della rivoluzione industriale, fece ritenere che il problema religioso fosse di pertinenza sociologica, come funzione sociale della religione.15 La seconda è che, in campo antropologico esociale, non è corretto occuparsi di origini o di essenze ma solo di "relazioni" (Evans-Pritchard). La terza è che le scienze idiografiche sono fortemente soggette ai condizionamenti ideologici dei vari autori (M. Godelier).16 Tali avvertenze non dovrebbero essere mai dimenticate, soprattutto nel rileggere i "classici" della sociologia.

4.1. L'approccio dei "classici" Ferrarotti sottolinea l'importanza dei classici e delle tematiche "religiose" per il pensiero sociologico. Un classico si riconosce perché usa un buon stile espressivoespositivo, solleva problemi fondamentali, capaci di suscitare interrogativi radicali, di fondo e validi in ogni tempo, non è facilmente etichettabile o incasellabile.17 Perciò ne esclude decisamente Marx e Freud, perché, fra l'altro, le loro teorizzazioni sul fenomeno religioso come residuo, proiezione, alienazione, regressione, ecc. sono inadeguate, sterili e per nulla originali.18 Vi include, invece, Durkheim che, nonostante limiti ed errori, sviluppò un pensiero aperto e problematico, in base all'intuizione che la religione è qualcosa di eterno, destinato a sopravvivere.19 Ciò precisato, al fine di rivalutare debitamente l'ottica religiosa nell'ambito della ricerca sociologica, propone di raccogliere sistematicamente "l'analisi dei vissuti, mediante le storie di vita e nello stesso tempo l'esame dei contesti storici specifici, all'interno dei quali la religione è presente, sia come struttura istituzionale sia come insieme di destini individuali".20 4.2. L'approccio funzionalista Cipriani ritiene che la concezione funzionalista della religione sia giustificata dalla domanda-chiave sulla religione, che accompagna e attraversa tutta la tradizione sociologica.21 Considera invece assai problematica la valutazione globale della "funzionalità" della religione e delle istituzioni in essa coinvolte. L'interrogativo sulla 56

validità dell'analisi della religione gli appare tutt'altro che retorico, poiché coinvolge gli aspetti epistemologici più profondi della ricerca scientifica. Ritiene, invece, fuorviante parlare di funzione della religione in generale, come se i suoi dettagli, isolati o nell'insieme, contribuissero al mantenimento della società. Ritiene che l'apporto positivo del funzionalismo risieda nell'aver consentito la rilevazione di bisogni esistenti, ma non soddisfatti, nel più largo contesto sociale, nell'aver posto l'accento sui dati della vita quotidiana e i problemi dell'identità e nell'aver aperto valide prospettive di ricerca e di metodologia. Tuttavia, questi risultati non escludono il ricorso ad altre ipotesi e approcci paradigmatici. Anzi, quanto più numerosi saranno questi, tanto più saranno superabili i limiti inevitabili di ogni singolo approccio.22

4.3. Gli approcci della sociologia religiosa Burgalassi distingue il ruolo della "sociologia religiosa" entro l'ambito della sociologia della religione e sottolinea l'importanza di focalizzare le ricerche su argomenti quali: le nuove forme d'identità religiosa e il nuovo valore religioso dato a fenomeni finora ritenuti "secolari". Tra questi elenca: il venir meno di strumenti euristici, che per decenni ebbero il sopravvento; la caduta di molti elementi della pratica religiosa tradizionale; la ricerca di nuove opzioni e dei momenti di sacralità emergenti nelle opzioni giudicate profane; i gruppuscoli di ogni tipo, i "revivals", il ricorso a modelli previsionali come gli oroscopi, ecc. Questi fenomeni consentono di rilevare le numerose espressioni di "nuova religiosità", che emergono sempre più, integrando molti elementi della religiosità tradizionale o sostituendosi ad essi. Il fenomeno generale e globale, interpretato a livello teoretico, consente di capire come la realtà religiosa risalga alle posizioni da cui era caduta, rivelandosi un settore particolarmente significativo del più ampio quadro culturale. Ciò spiegherebbe anche la ragione per cui la "sociologia religiosa", agl'inizi impiegata quasi esclusivamente in senso pastorale, sia divenuta un elemento determinante nella "sociologia delle religioni". In base a questi riscontri, Burgalassi ritiene necessario "fare un altro passo ancora: riportare il fenomeno religioso, espressivo di una "totalità" significante, al centro della vita sociale e della sociologia generale, quale "fenomeno-spia" delle effervescenze che maturano nuovi sbocchi del sociale e del quotidiano". Sottolinea pure come il "rito" generi un fenomeno sociale molto importante: la "partecipazione", ingiustamente ridotta, nel pensiero attuale, a meccanismo del "consenso" partitico e politico. La sociologia deve recuperarne il senso pieno, che è vitale per la sussistenza di ogni gruppo e società. Infatti, espressa con i termini di amore (carità), solidarietà, coscienza, resta sempre al centro della vita reale e al cuore dei problemi sociali. Aver trascurato questi aspetti: "è veramente imperdonabile per dei sociologi che non possono lasciar cadere le grandi lezioni dei classici della sociologia. Il fenomeno religioso è spia e motore di qualsiasi altro fenomeno, nelle sue pur diverse espressioni; come tale va studiato, analizzato, vissuto. Allora non vi sarà il pericolo di perdere l'ultimo treno per l'ultima spiaggia, quella dell'uomo strumento di altri, idolo per altri, merce di se stesso".23 5.

Religione e teorie della secolarizza zio ne

I sociologi citati concordano, in modi diversi, sull'importanza della sociologia della religione per la sociologia, sulle difficoltà del suo approccio e sulla cautela necessaria per valutarne le teorie e le acquisizioni. La loro posizione è "corroborata" dalla vicenda della teoria della secolarizzazione che, equivocando fra crisi della pratica religiosa e crisi della religione, sostenne l'irreversibile eclissi del sacro nella civiltà industriale.

57

Essa, accolta subito con un favore eccezionale, alquanto sospetto, venne poi rifiutata e infine tacciata di ideologia.24 Eppure, fin dall'inizio, quache sociologo lucidamente critico e non conformista, ne aveva messo in luce le contraddizioni teoriche e di metodo.25 I suoi fondati argomenti rimasero inascoltati. Solo assai più tardi si riconobbero i gravi pregiudizi ideologici e indimostrati, che minavano le basi della teoria, quali la presunta idea, di matrice evoluzionista, della "irriversibilità" dei processi sociali e quella di matrice illuminista, che il "religioso" sia una "forma di organizzazione irrazionale del senso", cui contrapporre la "ferrea razionalità delle moderne società industriali".26 Guizzardi ritiene che da quel dibattito venga una lezione molto importante: la consapevolezza che è un grave errore legare un'elaborazione teorica alle situazioni concrete dei diversi attori sociali, di modo che l'effettiva evoluzione dei rapporti sociali conduca a variazioni crescenti del concetto usato. Altri ritengono che la lezione più importante consista, invece, nel riconoscere di non aver capito che le presunte teorie sulla secolarizzazione, in realtà erano "teorie sul cambiamento sociale". Questo equivoco impedì di capire che la secolarizzazione, ammesso che esista, è superabile con una ristrutturazione complessiva, in cui le religioni, anziché scomparire, trasformano la "crisi della religione" in "religione della crisi".27 In questo modo, una teoria della secolarizzazione correttamente formulata conferma che le religioni, sotto la pressione delle difficoltà, non solo non scompaiono, ma si rinnovano profondamente, trasformando le cause della crisi in fattori di vitalità positiva (aggiornamento). Di conseguenza, diviene errato parlare di "risvegli" o di "ritorni", poiché le crisi, per la religione, rappresentano solo processi profondi di trasformazione e potenti dinamismi di continuità. Le crisi, erroneamente localizzate nella religione sono, invece, indice di rinnovamenti culturali e di adeguamenti sociali che le religioni anticipano, in se stesse, rispetto ai veri soggetti in crisi: le società e le culture secolari. Il giudizio, pertanto, viene ribaltato. Le crisi culturali e sociali rivelano la forza rinnovatrice esercitata dalle religioni, non solo a loro vantaggio ma, ancor più, a vantaggio delle società e culture in cui operano. Esse consentono di eliminare gli elementi obsoleti, ristabilendo una continuità con i valori fondamentali e autentici del passato, con le reali esigenze del presente e le attese e speranze del futuro. Ecco perché: "la crisi reale che fa da supporto al meccanismo qui accennato non è della religione ma del mondo occidentale, del suo sistema di norme e dei suoi obiettivi. È la cultura occidentale che ha bisogno di verificare se la sua egemonia culturale e politica esista ancora".28

5.1. La prospettiva fenomenologica Nesti propone una "sociologia fenomenologica" della religione, rivolta principalmente non alle funzioni o agli aspetti legati all'istituzione, ma alla "esperienza radicale del proprio vissuto dell'essere-al-mondo-in-un-tempo-spazio, connesso al mondo dei bisogni, alla trama dei desideri e al complesso hic et nunc " (qui e ora).29 Questo approccio è ritenuto utile per il confronto con alcune tesi della teologia trascendentale o dell'antropologia ermeneutica, riguardanti credenze, etiche, simboli, norme, trame radicali di significato, ecc, a partire dal vissuto dell'uomo e mettendo in risalto le tensioni proprie della vita.30 6.

Società complesse e religione

Poiché la tematica religione-cultura-società s'inserisce nel problema nuovo ed attuale della "complessità", Luhmann cerca d'identificare il ruolo attuale della religione, nel contesto della "complessità sociale". Egli muove dalla constatazione che la società 58

moderna è priva di mete e di scopi collettivi, è un sistema senza soggetto, un mero insieme di macrosistemi, corporazioni e apparati. In essa, gli individui svolgono un ruolo residuale, quali elementi fungibili di un sistema che ubbidisce ad altre leggi. Perciò, pur sentendo che tutto potrebbe essere diverso, soffrono per non poter modificare nulla.31 La complessità è la relazione fra un ambiente che produce impulsi, possibilità e aspettative e un sistema, come soggetto impersonale, incapace di rispondervi, se non differenziandosi, articolandosi in sottosistemi e trasformando la complessità da esterna in interna.32 Il sistema sociale è antifinalistico, antiorganicista e indeterminista.33 La sua base è la comunicazione delle informazioni o dell'insieme delle conoscenze, che permettono di compiere scelte, agire in modo conseguente e reagire adeguatamente. Essa presuppone una relazione fra attori sociali e istituzioni (mezzi di comunicazione sociale), che spingono gli attori sociali ad accogliere le varie scelte, come criterio del proprio agire sociale. I mezzi di comunicazione sono il potere e il denaro, ma anche l'amore, la verità, la religione, ecc. Ciascuno di essi è fondato su un particolare complesso d'interazioni, per cui, all'interno di un globale sistema, la religione costituisce un sub-sistema particolare e un mezzo di comunicazione sociale. Posto così il problema, Luhmann si chiede se la religione sia un sub-sistema fra gli altri o assolva ad una funzione intrasistemica più vasta, e quale sia il dato funzionale generale della religione. Egli contesta le tesi di Parsons, Durkheim e Weber34 perché ritiene che, nelle società complesse, la religione non assolva a una funzione "integrativa" ma "interpretativa". Essa, cioè, interpreterebbe il mondo circostante e indefinito producendo un sapere volto a offrire un senso unitario per la società e per i suoi sistemi. Consentirebbe, perciò, nei sistemi altamente differenziati, di orientare il senso comune. In questo modo si formerebbe un orientamento di senso intersoggettivo che consentirebbe selezioni assunte, reciprocamente, nella comunità sistemicoreligiosa. In secondo luogo la religione, con la sua "riserva simbolica", appare una possibile fonte di orientamento per tutti gli altri sistemi sociali. Luhmann definisce quest'aspetto: "diaconia della religione". Nel sistema (struttura senza soggetto), essa rimpiazza il soggetto e dà spazio a tutte le eccedenze soggettive e ai bisogni troppo complessi e perciò "intollerabili" per il sistema. Infine, essa consente la comunicazione intersoggettiva fondata sui bisogni della trascendentalità.35 Pertanto, solo la Chiesa, come struttura che controlla la comunicazione religiosa e spirituale, producendo sapere e potere, può realizzare questa funzione. Non appare chiaro, tuttavia se, in una chiesa così intesa, il "fedele" possa sfuggire alla sua sorte di elemento fungibile e irrilevante.36 Comunque si veda questo approccio, non si può negare la grande ricchezza, varietà e attualità delle problematiche che esso solleva. 7.

Importanza dei "classici" nel pensiero sociologico e socio-religioso

Abbiamo già sottolineato come, fin dagli inizi, il preconcetto illuministico dell'irreversibile declino storico della religione abbia condizionato le scienze della religione. Tuttavia, i "classici" della sociologia fissarono alcuni capisaldi suscettibili di sviluppi assai positivi. Ne indichiamo solo alcuni, più significativi ai nostri fini. A. Comte (1789-1857) considerò la religione fortemente collegata alle esigenze dell'ethos e dell'emotività e alla funzione di "integratore sociale" importante per la stabilità dei sistemi sociali.37 É. Durkheim (1853-1917), pur costretto a pensare e operare entro il paradigma positivistico delle "particelle elementari" o "elementi germinali", da cui doveva nascere la religione, intuì e sostenne la reciprocità intercorrente fra religione e società, la distinzione fra sacro e profano e il valore perenne della religione nella storia dell'umanità.38 59

M. Weber (1864-1920) aiutò a superare la lettura mono-causale dei fatti storici e mise in luce la specificità della dimensione religiosa e l'autonomia relativa del fatto religioso. Di fronte ai dogmatismi marxisti, che pretendevano di ridurre la religione a un epifenomeno sovrastrutturale, sottolineò l'autonomia della religione e il sostegno etico-morale dato dalle grandi religioni mondiali alle dinamiche storiche globali.39 E. Troeltsch (1865-1923) propose, come problema centrale, il rapporto fra il cristianesimo e la società globale, soprattutto per quanto riguarda l'evoluzione dello Stato moderno e delle sue istituzioni. 8.

Orienta menti contemporanei

Passando ai contamporanei G. Le Bras (1891-1970) privilegiò le ricerche socioreligiose dell'area cristiana occidentale e della storia religiosa contemporanea. J. Séguy si dedicò allo sudio delle dinamiche interne e delle fasi di sviluppo delle sette, gruppi dissidenti, carismatici, tensioni apocalittiche, prospettive ascetiche, ecc. Egli colse, a lungo raggio, il loro passaggio dalla fase carismatica alla pratica quotidiana, sottolineando l'attenuazione dei caratteri che le distinguevano alle origini e mettendo in luce come la setta non rifiuti a priori il concetto di sviluppo, ma lo subordini ai suoi ideali religiosi, consentendo così, di fronteggiare le esigenze del mondo.40 T. Luckmann ha studiato gli "universi simbolici", come sistemi di significato che attuano un collegamento tra vita quotidiana e trascendenza. Pertanto il passaggio dalla natura alla cultura è un processo essenzialmente religioso in cui la religione si manifesta come un dato antropologico ed ontologico, totalmente autonomo e universale. Ha analizzato pure l'indebolimento dell'appartenenza religiosa ecclesiale, la trasmigrazione della religiosità verso espressioni di tipo "privato" e il fenomeno religioso come trascendimento della pura sfera biologica dell'uomo.41 B. Wilson ha ipotizzato che la migrazione del religioso verso il privato o verso le "sette" sia parte di un "processo ricorrente di destrutturazione e ristrutturazione del religioso" e non costituisca né un sintomo di secolarizzazione né un processo irreversibile, poiché le religioni esprimono, continuamente, processi di morte e trasfigurazione. T. O'Dea attribuisce alla religione l'importante compito di rispondere ai problemi ultimi di significato, ricorrendo a mezzi "sovra-empirici". Egli considera pure la religione come un meccanismo di adattamento alle situazioni frustranti e cariche di rischio, nelle quali essa svolge un ruolo stabilizzante, fornendo risposte ai fondamentali problemi del significato.42 Per P.L. Berger, il sacro si oppone al caos più che al profano, per cui la religione tende a conferire senso, non solo alle istituzioni sociali, ma anche alla "suprema marginalità" o "estrema sporgenza" della morte. Poiché la sofferenza costituisce un problema supremo, solo il cristianesimo realizza la "figura fondamentale", che riassume in sé la sofferenza umana e la sua "plausibilità". Il pensiero di Berger è in continuo sviluppo, per cui non è facile sintetizzarlo né, tanto meno, fissarlo. Comunque fin dagl'inizi, la sua teoria sociologica della religione fu giudicata interessante, per la sua capacità di valorizzare le diverse acquisizioni scientifiche e comporle in un quadro sintetico e coerente.43 In occasione della traduzione italiana di "The Heretical Imperative" (L'imperativo eretico), egli sottolineò acutamente la "doppia cittadinanza" del sociologo che, fuori del settore di sua competenza, "deve" collocarsi di fronte al fatto religioso in termini di verità o meno di essa. Inoltre ha sottolineato la necessità che la scienza, senza rinnegare i propri diritti e doveri, riconosca pure la possibilità di ciò che è legittimanente "altro" e "di più" rispetto alla coscienza religiosa. Solo rispettando le reali costanti antropologiche, infatti, sociologia e religione possono instaurare un rapporto rispettoso e fecondo, che costituisce il substrato e il presupposto della ricerca sociologica.44

60

Geertz, essenzialmente, considera la religione come un sistema simbolico-culturale, strutturante riti e istituzioni. La cultura agirebbe come un sistema di significati, tramandati storicamente sotto forma di simboli, di cui gli uomini si servirebbero per comunicare, sviluppare e tramandare le loro conoscenze e atteggiamenti verso la vita. Egli vede la funzione simbolica della religione come crinale fra mondo umano e mondo religioso. In questo modo, il suo sistema di simboli costituisce un nesso di fondamentale coerenza tra stile di vita particolare e metafisica, sintonizzando azione, esperienza umana e ordine cosmico.45 Bellah pone particolare attenzione ai problemi dell'evoluzione religiosa e ai mutamenti simbolici dell'Islam contemporaneo, sottolineando che fino a quando esso rimarrà chiuso nel suo integralismo, non potrà affrontare i gravi problemi sociali, che coinvolgono le società musulmane, tutte prese dalla difesa del'ortodossia, esasperando le contraddizioni interne e senza risolvere i problemi del rapporto con la realtà e le ideologie del progresso tecnologico.46 Yinger ha intepretato l'esperienza religiosa come risposta a esigenze che sorgono nell'individuo, quando il suo rapporto con la natura e la società gli fa vivere determinati problemi come insolubili o come assoluti, ma relativizzabili dalla religione. Ha pure analizzato lo schema della polarità quadrangolare: società-cultura-personalità-religione e il suo funzionamento nel definire il ruolo della religione come fatto sociale.47 Come si vede, il panorama, nella sua complessità, è quanto mai articolato, diversificato e stimolante. 9.

Ce nni conclusivi

Questo capitolo ci ha illustrato i modi in cui la sociologia della religione è pervenuta a dimostrare alcune intuizioni dei "classici" del metodo sociologico. Vale a dire che le credenze, gli atteggiamenti, gli ideali e i valori religiosi, costituiscono le basi dei meccanismi fondamentali della vita sociale. Inoltre ha messo in evidenza i molteplici e delicati ruoli svolti dall'esperienza religiosa, a livello sociale, psico-sociale e socioculturale. Ne sono emerse conseguenze assai importanti per le scienze delle religioni. La prima è l'esigenza di studiare le religioni nel contesto delle culture e delle società di cui condividono le vicende storiche. La seconda è la necessità di elaborare strumenti di analisi che permettano di collocare la religione al livello delle altre altre dimensione dell'esperienza storica globale. Ciò non sminuisce lo specifico studio storico-religioso delle religioni, ma lo inserisce nel contesto globale della vita sociale e culturale, per analizzarlo in un modo più articolato, profondo e aperto a ulteriori prospettive. Infine, la sociologia della religione ha dimostrato pure la necessità di un approccio sempre più multidisciplinare alla religione, sottolineando l'impossibilità, per qualsiasi disciplina, di sviluppare un approccio sufficiente ad analizzare, spiegare e comprendere tutti i ruoli e i significati della religione. Alle acquisizioni delle altre scienze, la sociologia aggiunge la manifestazione dell'esperienza religiosa come fattore propulsivo dell'agire umano sulle strutture e le dinamiche del sistema sociale. In più, dimostra che la religione, e in particolare il cristianesimo, con i suoi caratteri specifici, la propria dialettica e forza di sviluppo, costituisce un insostituibile fattore di dinamiche sociali. In senso più generale la sociologia, nel suo cammino difficile e tormentato, ha dimostrato la capacità di confutare i numerosi ideologismi e dogmatismi ascientifici, che facevano della religione un "epifenomeno", una "sovrastruttura" o un "residuo avviato all'estinzione". Di qui la possibilità di scoprire il valore autonomo e l'insostituibile apporto dei dinamismi religiosi per lo sviluppo delle società, delle culture, della storia e dell'umanità. 61

1

G. Filoramo, C. Prandi, Le scienze delle religioni, Brescia 1987,101.

2

A.L.J. Quételet, Physique sociale ou Essai sur le développement des facultés de l'homme, Bruxelles 1869, 2 voll. 3

Ad esempio: P.A. Sorokin, H.E. Barnes, F.B. Becker, ecc. Cf. F. Barbano, "Sociologia", in Enciclopedia filosofica (EF), 7, 837. L. Sturzo, "Sociologia", in EF, 7, 848; L. Sturzo, La società, sua natura e leggi, Bergamo 1949. 4

E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Milano 1979, 44-45.

5

Barbano, "Sociologia", 838.

6

F. Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Bari 1983, 43-44.

7

Ferrarotti, Il paradosso, 46-47; Id., La sociologia alla riscoperta della qualità, Bari 1989.

8

Ferrarotti, Il paradosso, 56-57: "Solo una società che avesse perduto il suo senso di orientamento, i suoi parametri esterni e superiori, ossia la sua costellazione di valori trascendenti...e che fosse tanto orgogliosa da pensare di poter esprimere da sé i propri valori fondamentali, per via immanente e sulla base di un'assoluta autosufficienza, poteva scorgere nella scienza e nella tecnica, intesa come scienza applicata, la forma nuova e insieme la base fondamentale della sua giustificazione e del suo orientamento". 9

Ferrarotti, Il paradosso, 60: "La scienza ... non tardò a porsi come scopo a se stessa, in base a una sua logica di sviluppo strettamente endogena. Caduti i criteri di giudizio esterni, la scienza divenne scientismo: procedura pubblica, in quanto base del consenso sociale, ma eticamente neutra, disponibile, non aliena dal vendersi al miglior offerente, ossia a chi fornisse i mezzi materiali per la prosecuzione delle ricerche indipendentemente dai fini, paga di vagliare e controllare la correttezza interna delle proprie operazioni". 10

Ferrarotti, Il paradosso, 67.

11

Ferrarotti, Il paradosso, 68-70.

12

Ferrarotti, La sociologia, 79-82.

13

Ferrarotti, La sociologia, 83-88.

14

S. Acquaviva, "Sociologia", in EF, 7, 848-849. Sono sociologie particolari quella: politica, giuridica, economica, industriale, della conoscenza, delle religioni, ecc. 15

C. Prandi, "Scienze sociali e religione: prospettive socio-antropologiche nello studio delle religioni", in A.N. Terrin, U. Bianchi, Le scienze della religione, Bologna 1983, 208, 213. 16

E.E. Evans-Pritchard, Teorie sulla religione primitiva, Firenze 1979, 185. C. Prandi, "La prospettiva antropologica", in D. Pizzuti (a cura di), Sociologia della religione (SDR), Roma 1985, 104. 17

F. Ferrarotti, "Il contributo dei classici", in SDR, 13-15.

18

Ne denuncia i seguenti come caratteri negativi: essere troppo legati al loro tempo, essere troppo condizionati da fede cieca nei miti scientisti, aver formulato concezioni fragili, datate, poco fondate. 19

Ferrarotti, "Il contributo", 22, 29, 32; Prandi, "La prospettiva", 117; V. Turner, Il processo rituale, Brescia 1972, 66. 20

Ferrarotti, "Il contributo", 34.

21

R. Cipriani, "L'approccio funzionalista", in SDR, 37.

22

Cipriani, "L'approccio", 58-59, 72; Cf. G.M. Vernon, "How Functional is a Functional Analysis of Religion?", in Actes de la X Conférence Internationale de Sociologie Religieuse, Roma 1969, 367; R. Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, Bologna 1970. 23

S. Burgalassi, "La sociologia religiosa: proposte definitorie e problemi attuali", in SDR ,170-171. 24

S. Acquaviva, R. Stella, Fine di un'ideologia: la secolarizzazione, Roma 1989, 7.

62

25

Il problema fu ampiamente dibattuto da A.M. Greeley, L'uomo non secolare. La persistenza della religione, Brescia 1975. 26

G. Guizzardi, R. Stella, "Teorie della secolarizzazione", in SDR, 184.

27

Guizzardi, Stella, "Teorie", 204-205.

28

Guizzardi, Stella, "Teorie", 211-212.

29

A. Nesti, "La prospettiva fenomenologica", in SDR, 213-254, 253.

30

A. Ortiz Osés, Antropologia hermenéutica, Madrid 1973; G. Marcel, L'homme problématique, Paris 1955; R. Lauth, Die Frage nach dem Sinn des Daseins, München 1966. Nesti in "La prospettiva", 254, sottolinea: "a partire dal mondo della vita dell'uomo concreto, la dimensione tipologica o strutturale del religioso è destinata ad assumere i contorni solo ed esclusivamente sulla base delle spinte delle correnti, che attraversano la vita "dentro e fuori" i sacri recinti". 31

E. Pace, "Società complesse e religione", in SDR, 255-257.

32

Per Gehlen la complessità è collegata alla condizione strutturale dell'uomo non più in grado di controllare le innumerevoli alternative offertegli dalla società, dall'informatica e dai mezzi di comunicazione. Cf. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983. 33

Pace, "Società complesse", 257-259.

34

Egli ritiene che la religione sia caratterizzata dalla questione del senso e sia un indicatore universale della complessità e della differenziazione del sistema e un elemento di riduzione della complessità. Anche nella concezione del senso, Luhmann si differenzia dagli altri sociologi, ad esemio da Weber, che considera il senso come una "struttura motivazionale dell'azione", conferita da singoli o gruppi. 35

Compirebbe, perciò, quanto è impossibile ai vari sistemi parziali, imprigionati nella logica dell'immanenza. 36

Pace, "Società complesse", 269-274.

37

Filoramo, Prandi, Le scienze, 107-108.

38

F. Ferrarotti, "Il contributo dei classici", in SDR, 22, 29.

39

Filoramo, Prandi, Le scienze, 118-120; Prandi, "Scienze sociali e religione", 218-221.

40

J. Séguy, Les sectes protestantes dans la France contemporaine, Paris 1956; Id., Les conflits du dialogue, Paris 1973; Id., Les Assemblées Anabatttistes-Mennonites de France, ParisLa Haye 1977. 41

T. Luckmann, La religione invisibile, Bologna 1975; Prandi, "Scienze sociali e religione",

251. 42

T. O'Dea, Sociologia della religione, Bologna 1968, 17-18.

43

C. Skalicky, Alle prese con il sacro, Roma 1982, 313-314.

44

G. De Nicolò, "Introduzione", in P.L. Berger, L'imperativo eretico. Possibilità contemporanee di affermazione religiosa, Leumann-Torino 1987, 33. 45

C. Geertz, "La religione come sistema culturale", in Cutler D.R. (a cura di), La religione oggi, Milano 1972, 11-13; Prandi, "Scienze sociali e religione", 249. 46

R. Bellah, Al di là delle fedi, Brescia 1975, 69, 82, 179.

47

J.M. Yinger, Sociologia della religione, Torino 1961, 18.

63

7. NUOVA ANTROPOLOGIA DELLA RELIGIONE: SINTESI E PROSPETTIVE 1.

Cenni introduttivi

La fenomenologia delle religioni diede occasione a un dibattito, approfondito e tuttora aperto, che ha condotto a ripensare, in chiave epistemologica, i suoi presupposti, metodi, precomprensioni, campi di ricerca e ipotesi. Da esso è emersa l'esigenza di un ulteriore approccio allo studio della religione, quello antropologico, visto da alcuni come "il futuro della fenomenologia della religione".1 Pertanto, nell'ambito delle scienze umane, si ritiene che l'antropologia possegga i requisiti per svolgere un ruolo specifico e assumere un posto di crescente rilievo nell'insieme delle altre discipline.2 In questo capitolo cercheremo di verificare e approfondire questi problemi e le loro conseguenze.

2.

I diversi contenuti del termine "antropologia"

Innanzitutto ricordiamo che pure l'antropologia proviene da una vicenda storica ed epistemologica molto complessa, la cui conoscenza aiuta a inquadrarne meglio i caratteri e i problemi. Tale vicenda inizia con una disciplina affine: l'etnologia. Alla fine del secolo XVIII, il termine "etnologia" apparve per indicare la classificazione scientifica delle razze. Tuttavia, agli inizi del XX secolo esso passò a designare il complesso delle scienze sociali, che studiavano le società "primitive" e i fossili umani. Attualmente indica gli studi sintetici e teorici sulle osservazioni, condotte sul campo, da numerose discipline, quali l'etno-demografia, l'etno-economia, l'etnolinguistica, l'etno-sociologia e altre.3 Dato che questi studi, nell'ambito europeo, coprivano tutto il campo socio-culturale, non restava spazio che per sviluppare lo studio degli "aspetti fisici" dell'uomo. L'antropologia, come "antropologia fisica" cercò di dedicarvisi. Tuttavia, apparve pure l'esigenza di uno studio sistematico dei "comportamenti umani e sociali" dell'uomo, nelle società e culture, che divenne sempre più oggetto di una "antropologia sociale e culturale", inserita nel vasto universo etnologico. Il successo di questi studi provocò la fortuna del termine "antropologia", che venne sempre più esteso a designare realtà e adempiere funzioni molto diverse fra loro. In certi casi esprimeva una qualifica teorica, ad esempio: antropologia funzionalista, antropologia marxista, antropologia strutturale ecc. In altri casi designava differenti ambiti disciplinari, ad esempio: antropologia storica, antropologia economica, ecc. Altre volte designava livelli differenti di rifessione: antropologia filosofica, antropologia teologica, ecc. Così inflazionato, il termine, divenne ambiguo e impreciso. Tutto ciò è importante per capire il ruolo e la collocazione dell'antropologia della religione, detta impropriamente "antropologia religiosa". Essa viene ritenuta, da alcuni, parte della grande famiglia delle discipline antropologico-scientifiche, mentre altri la considerano fra le scienze della religione. Più che addentrarci in queste dispute, preferiamo considerarne i caratteri scientifici, metodologici ed epistemologici propri, che la distinguono dalle une e dalle altre, conferendole la sua specifica fisionomia.

3.

Antropologia religiosa

Come avevamo accennato nel primo capitolo, la sua collocazione alle frontiere delle scienze antropologiche e delle scienze della religione, unita alla sua nascita recente, le hanno consentito di valorizzare le acquisizioni e i risultati del dibattito epistemologico attuale. Ciò traspare già dal fatto che essa rivendica non tanto un suo "oggetto", quanto un suo "ambito disciplinare". Inoltre sottolinea di non riferirsi a oggetti o cose religiose, ma all'uomo. Pertanto, dal punto di vista epistemologico e metodologico, essa centra le sue ricerche, immediatamente e direttamente, sull'uomo creatore e fruitore dell'insieme simbolico del sacro e portatore delle credenze religiose che guidano la vita e i comportamenti umani (homo religiosus). Ciò la distingue dalle altre scienze della religione.4 Date queste premesse ha adottato un metodo interdisciplinare orientato a: a) far luce sull'uomo inserito nel suo ambiente culturale; b) seguirne l'emergere in senso biologico e storico; c) evidenziarne i molteplici e differenti dinamismi; d) interpretarne i messaggi. La nuova antropologia religiosa si ricollega a molti importanti autori dai quali, grazie all'affermarsi del nuovo spirito scientifico, ha potuto sviluppare ulterioremente e amplificare notevolmente, metodi e acquisizioni. Seguendo l'esempio di R. Otto, attinse da storia comparata, filosofia e psicologia, gli elementi necessari alla comprensione dell'uomo religioso e della sua esperienza del sacro. Valorizzando egualmente l'interdisciplinarietà e il nuovo spirito scientifico di Mircea Eliade (1907-1986) poté utilizzare le sue vaste conoscenze multidisciplinari di storico delle religioni, indianista, umanista ed ermeneuta. A sua volta, di Georges Dumézil (1898-1986) utilizza i suoi apporti di sociologo, orientalista, indianista, mitografo e storico del pensiero. Da Henry Corbin (1903-1978) assunse i suoi studi di islamista, iranista, fenomenologo ed esploratore dell'immaginario. Di C.G. Jung assume le conoscenze realtive dell'esplorazione dell'inconscio collettivo e della psicologia del profondo. Il valore di questa vasta gamma di conoscenze, adeguatamente armonizzate ed integrate, viene bene espressa da questo riconoscimento: "la finezza e la penetrazione del loro pensiero, la specificità e varietà del loro campo di ricerca e il valore scientifico delle loro analisi, sono giunti a una convergenza notevole nel campo dell'antropologia religiosa, preparando una ricca messe e suscitando una nuova generazione di ricercatori".5 In quest'ottica, il "Trattato di storia delle religioni" (1949) di Eliade rappresentò una svolta decisiva, consolidando definitivamente l'uomo al centro delle scienze della religione. Ciò consentì di penetrare profondamente nella coscienza e nel comportamento dell'homo religiosus, che vive l'esperienza esistenziale del sacro. La religione veniva colta, non più come semplice "momento della storia della coscienza", ma come "elemento decisivo della sua struttura". La storia delle religioni non era più vista sotto l'aspetto del "mana" ma del "logos". Letta in questa luce, la stessa terminologia creata dall'homo religiosus manifesta e comunica la sua viva esperienza di una realtà diversa da tutte le altre realtà ambientali, perché egli "ha preso coscienza del sacro partendo dalla sua stessa manifestazione".6 L'analisi del linguaggio e del comportamento dell'homo religiosus mostra che egli, nel percepire una ierofania, sperimenta la presenza di una potenza viva, invisibile ed efficiente, che gli si manifesta mediante un essere o un oggetto rivestito di una qualità nuova (sacralità). La sua esistenza, in seguito a questa scoperta, assume nuove modalità specifiche. Poiché la comunicazione della sua esperienza del sacro, costituisce per lui un'esigenza fondamentale, l'uomo religioso ha elaborato, fin dall'estrema preistoria, un

2

sistema di simboli, utilizzando gli elementi più comuni e significativi: luce, vento, acqua, terra, fuoco, fulmini, cielo, astri, luna, sole, ecc. Inoltre, per rendere efficace il sacro nella propria vita, ha sviluppato un universo simbolico di miti e riti. L'esperienza del sacro, documentabile dal Paleolitico ad oggi, è un dato di immensa importanza antropologica, perché consente di elaborare un'antropologia dell'homo religiosus e dell'homo sapiens. Il senso del sacro, proprio delle grandi religioni antiche e collegato alle "ierofanie", è stato successivamente completato attraverso le "teofanie" specifiche dei monoteismi.7 Esse segnano il passaggio, dal generico manifestarsi del sacro, allo specifico manifestarsi del Dio unico e personale, autore di alleanza e di rivelazione, che interviene direttamente nella vita degli uomini e nella storia. Ciò appare chiaramente nell'Ebraismo, nel Cristianesimo e, in certa misura, anche nell'Islam. Questa prospettiva, volta ad afferrare la profonda e indivisibile unità dello spirito umano, ha consentito di comprendere il valore simbolico delle ierofanie e il significato dei messaggi, che l'uomo religioso esprime da millenni, fissandoli dappertutto e su tutto ciò che trova a sua disposizione: pietre, legno, argilla, metalli, papiri, pergamene, carta, ecc.8 Essi testimoniano le sue esperienze e credenze religiose. Dimostrano pure che, affinando i suoi poteri d'immaginazione, di volontà, di razionalità, di sensibilità e d'intelligenza di homo symbolicus, sapiens e faber, ha saputo superare tutte le difficoltà derivanti dalla sua inesauribile ricerca dell'Assoluto. In conseguenza di ciò, possiamo percepire l'esperienza del sacro come "mediazione significativa della relazione dell'uomo col trascendente, col divino, con Dio".9 M. Eliade, già nel suo Traité d'histoire des religions del 1949,10 aveva sottolineato la fondamentale unità e l'inesauribile novità dei fenomeni religiosi, riscontrabili in tutta la storia delle religioni. Tra il 1976 e il 1983, pubblicò i tre volumi della Histoire des croyances et des idées religieuses, in cui pose le ierofanie in prospettiva storica, evidenziando la profonda unità dello spirito umano, che emerge dalle più diverse situazioni esistenziali e culturali. Mediante la comprensione dell'uomo religioso e del suo messaggio, egli poté interpreta le ierofanie e il loro significato simbolico.11 Negli anni 1980, apparvero pure due altre opere, molto importanti per la scienza delle religioni, che costituirono una significativa maturazione dell'antropologia religiosa. Les expériences du divin et les idées de Dieu, di H. Clavier,12 e L'expérience humaine du divin. Fondements d'une anthropologie religieuse, di M. Meslin.13 Clavier elaborava una vasta sintesi di scienza delle religioni, orientata a una teologia delle religioni. Meslin, riflettendo sui concetti di religione, sacro, puro, impuro ed esperienza religiosa, metteva in luce i contesti culturali, simbolici e rituali di tale esperienza, precisando i rapporti fra persona e divinità, nell'ambito della psicologia umana. Entrambi confermavano la prospettiva fondamentale di Eliade, che il sacro può essere colto solo nell'esistenza dell'uomo, che lo definisce e lo delimita. A sua volta J. Ries, nella trilogia L'expression du sacré dans le grands religions,14 interrogava a fondo l'uomo religioso, analizzandone le credenze, le esperienze e il patrimonio di vocaboli e di pensiero. L'impostazione di Eliade, consentendo di studiare l'uomo religioso nella sua totalità e nelle sue più genuine espressioni culturali, metteva in risalto l'origine religiosa della cultura e confermava la convinzione che, dopo la breve parentesi delle culture secolarizzate, sia possibile un nuovo umanesimo, fondato su un rinnovato incontro fra religioni e culture. Pertanto l'uomo simbolico-religioso che, fin dalle origini e attraverso i millenni, ha creato società e culture, vivendo un'intensa esperienza religiosa, mediante la sua esperienza religiosa, saprà creare la nuova cultura mondiale e un nuovo umanesimo. 3

Infatti, è mediante la religione che ha sviluppato le molteplici capacità del suo spirito, ha evoluto la sua operosità e abilità manuale, ha espresso la sua capacità di creare strumenti ed usarli per ordinare e umanizzare l'universo. Perciò, l'antropologia religiosa intende interpretare il significato attuale di quel messaggio e di quell'esperienza religiosa che, in modi, tempi e spazi immensamente diversi, hanno "creato" le culture della storia.

4.

Antropologia religiosa e coerenza tematica

Quanto abbiamo esposto mette in luce la compattezza e coerenza della tematica antropologico-religiosa, nonostante la molteplictà dgli argomenti affrontati. In essa la religione appare costantemente come "l'esperienza intima del mistero assoluto", mediante la quale la persona, cogliendo l'eterno, l'infinito e il divino, si trova di fronte al mistero e ne giunge a conoscenza. È quanto si trovava, in parte, già in R. Otto, le cui tappe ne hanno fatto un precursore dell'antropologia religiosa. Tali tappe furono: l'insistenza sull'esperienza religiosa, sull'intuizione e sulla relazione mistica col divino, la dimostrazione che il sacro si manifesta come realtà totalmente diversa dall'ordine naturale e, infine, l'accentuazione del simbolo come linguaggio normale per l'apprendimento del sacro.15 Al postulato di Durkheim, che poneva l'origine della religione nella coscienza collettiva, Otto contrappose una doppia origine del sacro: la rivelazione "interiore" e quella "storica", mediante segni esterni percepibili. Appaiono importanti, soprattutto, il riconoscimento del "mistero assoluto" (l'eterno, l'infinito, il divino) come origine dell'esperienza religiosa e i due volti del sacro come "numinoso" e come "valore" per l'uomo.16 Tuttavia, anche se come punto di partenza appariva interessante, rimaneva insufficiente, richiedendo ulteriori passi. Uno fu compiuto da Dumézil, che sviluppò il metodo di "comparazione genetica integrale", volto a trovare un "sistema religioso coerente", a partire dal grande materiale a disposizione: concetti, miti, riti, organizzazione sociale, distribuzione del lavoro, corpo sociale e amministrazione del sacro. Tale metodo, oltre a consentirgli la fondamentale acquisizione, che la storia delle religioni si fa sotto il segno non del "mana"17 ma del "logos",18 evidenziò le religioni antiche, non come pulviscolo di miti e riti, ma come "sistemi coerenti", che dimostrano la creatività dello spirito umano. L'uomo religioso, attraverso le sue esperienze ed espressioni religiose, si è rivelato un "appassionato osservatore dell'universo", un "ermeneuta del cosmo" e un grande "creatore di cultura".19 Il metodo di Dumézil servì da modello a Eliade, per studiare le "ierofanie" e sviluppare le sue vaste ricerche sul comportamento, il pensiero, la logica simbolica e l'universo mentale dell'homo religiosus. Eliade giudicò un graver errore l'aver trascurato le manifestazioni dello spirito umano dei millenni preistorici. Perciò, cercò di scoprire l'intenzionalità religiosa emergente fin dagli inizi del Paleolitico e lungo il Mesolitico e il Neolitico (ossa delle sepolture, addomesticamento del fuoco, iscrizioni rupestri, dipinti delle caverne). Quindi, integrò la documentazione della preistoria in un sistema di significati simbolici, centrando le sue ricerche sugli elementi fondamentali: sacro, simbolo, mito e rito. La religione neolitica emerse come una religione cosmica, centrata sul rinnovamento periodico del mondo: albero cosmico, tempo circolare, simbolismo del centro, luoghi e spazi sacri. Il simbolismo occupava il posto centrale di questo grande edificio spirituale. Le prime testimonianze offrono la visione dell'uomo arcaico che, di fronte a un universo pieno di significati, crede nell'esistenza di una realtà assoluta, che trascende il mondo ma vi si manifesta, rendendolo reale e santo.20 Quest'uomo religioso vive un'esistenza concreta, segnata dalla storia e dalla cultura. Pertanto, per conoscerlo, 4

non basta una ricerca generica, ma ne occorrono diverse, specifiche e appropriate. Esse dovranno distinguere i molteplici aspetti particolari dell'uomo religioso arcaico, del seguace delle religioni antiche già scomparse, del membro delle grandi religioni attuali e del fedele delle confessioni monoteiste (ebrei, cristiani, musulmani), ecc. Questa unità e continuità spirituale dell'uomo religioso, che emerge dai millenni della preistoria e della storia, è del massimo valore per la storia e l'antropologia delle religioni. In questa ricerca così differenziata, assume un particolare rilievo la novità rivoluzionaria della fede in Jahvè, il Dio delle promesse, della elezione e dell'alleanza col suo popolo. Ancora più importante è la ierofania-suprema e teofania-unica di Gesù Cristo che, come Incarnazione di Dio, fa di tutta la storia una teofania. Con lui terminano il tempo mitico e dell'eterno ritorno, mentre vengono particolarmente valorizzati l'uomo e la storia lineare. Il programma delle ricerche di Eliade, volto a superare i limiti di uno studio storico, preoccupato unicamente di esporre le credenze religiose, ha consentito non solo di esplorare il pensiero, la coscienza, il comportamento e l'esperienza dell'uomo religioso, ma anche di percepire la fondamentale unità dei fenomeni religiosi, la loro inesauribile novità e la profonda intenzionalità religiosa che li ispira, dal primo emergere dell'uomo fino ai tempi nostri. La documentazione delle scienze delle religioni sul comportamento e l'esperienza dell'uomo religioso, onnipresente nel tempo e nello spazio, ha conferito allo studio della religione un'ampia dimensione culturale e un notevole spessore antropologico. Pertanto la focalizzazione antropologica sulla natura e la struttura dell'uomo religioso, evidenziate nelle più diverse espressioni storiche, dimostra, insieme, la "dimensione culturale dell'uomo" e "l'unità spirituale dell'umanità". Entrambe sono particolarmente essenziali per il nostro tempo. Sul modello di Dumézil, anche Eliade riuscì a porre in evidenza le strutture, la coerenza interna e la complessa varietà dei fenomeni religiosi. Egli le fece ruotare attorno al tema fondamentale dell'uomo religioso e della sua esperienza del sacro. Grazie a questa impostazione, l'antropologia della religione ha potuto esplorare l'immensa eredità millenaria delle "ierofanie", avvicinarsi al momento del primo emergere dell'"uomo religioso" arcaico, seguire il suo evolversi e farne emergere il "messaggio". Ora, essa cerca di decifrare e interpretare questo messaggio, mediante una fine ricerca ermeneutica, e cerca di utilizzarlo, per rispondere ai più pressanti interrogativi dell'uomo d'oggi, creando un nuovo umanesimo.21 Assieme al tema dell'homo religiosus, gli altri temi essenziali dell'antropologia sono le ierofanie, i simboli, i miti e i riti.

4.1. Ierofanie Eliade ha posto le ierofanie sul piano della realtà e dell'essere. Esse presentano una straordinaria varietà di nomi divini, perché sono manifestazioni del divino, attraverso categorie di una sconcertante eterogeneità. Esse non presentano concetti, ma: "percezioni simboliche del mistero e della trascendenza", che sono il loro primo elemento. La loro eterogeneità deriva dal fatto che il sacro non si manifesta mai allo stato puro, ma mediante realtà diverse dal sacro stesso (oggetti, simboli, miti ecc.). Questo, a sua volta, per potersi manifestare, esige realtà sensibili (profano), che lo rendano accessibile all'uomo. Il sacro, servendosi della natura non ne altera né snatura la realtà, ma le conferisce una dimensione nuova. La struttura delle ierofanie è assai complessa. In esse dobbiamo distinguere, innanzitutto, il "trascendente", poi la sua "manifestazione", che avviene mediante una realtà diversa dal trascendente. A questo punto si palesa la "dimensione sacrale dell'elemento mediatore". Emerge, quindi, la "qualità paradosssale" della

5

manifestazione e, infine, l'"omogeneità" della sua natura entro l'"eterogeneità" delle sue forme. La storia e la fenomenologia delle religioni si sono concentrate sull'elemento mediatore e sul suo significato di fenomeno religioso. L'antropologia religiosa, al contrario, si concentra sull'interpretazione del "contenuto misterioso" della ierofania (ermeneutica). Ne cerca il significato per comprenderne il messaggio "trans-cosciente" e "trascendente". Ciò le consente di accertare pure una gerarchia delle ierofanie, che va dalle più elementari alle più elevate.22

4.2. Simboli Il simbolo designa un elemento di riconoscimento, un significante concreto e sensibile, che suggerisce il significato e lo svela in trasparenza. Nelle ierofanie, il simbolo esercita una funzione di mediazione. Ricoeur lo considera un rivelatore della realtà umana e ritiene che ogni simbolo sia, in ultima analisi, esso stesso una ierofania, vale a dire una manifestazione del vincolo che lega l'uomo col sacro.23 Per Eliade il simbolo è un'energia costitutiva della coscienza, un dato della condizione umana e un linguaggio che rivela all'uomo valori "trans-personali" e "trans-coscienti". Mediante i simboli, il cosmo parla all'uomo, facendogli conoscere realtà non evidenti per se stesse. Ries ricorda che questa concezione antropologica del simbolo costituisce una costante del miglior pensiero cristiano, da S. Giustino martire e Clemente d'Alessandria fino a Newmann.24 Il simbolo riveste un valore esistenziale, perché si riferisce a realtà e situazioni, che impegnano a fondo l'esistenza umana, conferendole un significato.25 La stessa documentazione paleoantropologica consente di considerare l'uomo "erectus" già come uomo "symbolicus", che muove i suoi primi passi da uomo "sapiens". Egli sa di sapere, è conscio della sua capacità di creare, della sua angoscia di vivere, del problema della propria origine e del proprio destino. Con lui è già nato l'uomo contemporaneo. Eliade ha ipotizzato che tale uomo sia giunto all'intuizione e scoperta della trascendenza, mediante la contemplazione della volta celeste, simbolo primordiale di trascendenza, forza, purezza, immutabilità, altezza e sacralità. Essa ha costituito, per lui, una vera e fondamentale "ierofania primordiale".26 Che non si tratti di una semplice illazione, lo dimostrano le scoperte più recenti nella "Rift Valley" (Kenya), che consentono di collegare l'uomo erectus all'uomo symbolicus. L'uomo, ormai eretto sui suoi piedi, aveva le mani libere. Poteva confezionare gli attrezzi per "creare" oggetti, perfezionarli e potenziarli. Questo lo rendeva "creatore di cultura". Inoltre la configurazione dello scheletro e del cranio gli consentivano di "contemplare" la volta celeste, il moto del sole, della luna e degli astri. La "categoria trascendentale dell'altezza e dell'infinito" si rivelava alla sua totalità umana, alla sua intelligenza spirituale e alla sua anima. Il cielo stesso gli rivelava la trascendenza che esso simbolizza.

4.3. Miti Già al tempo di Omero ed Esiodo, l'uomo s'interrogava sul mito e il suo significato, dandone le più diverse interpretazioni. Il grande apporto di G.B. Vico (1668-1774) fu la sua interpretazione come un linguaggio, un messaggio e un'espressione di verità. Eliade, Durand e Ricoeur convergono nel concludere che esso determina il comportamento dell'uomo, dà il vero senso all'esistenza umana ed è legato al sacro, perché mette l'uomo religioso in rapporto col mondo soprannaturale.27 Le categorie del mito sono numerose. Miti cosmogonici, sulla creazione e i principi che reggono il cosmo e la condizione umana. Miti dell'origine, riguardanti le genealogie e nuove situazioni. Miti di rinnovamento del mondo, per l'intronizzazione dei re, l'anno nuovo, le stagioni, ecc. Miti escatologici, riguardanti la fine o distruzione del mondo e dell'umanità. 6

Eliade considera i miti come modelli primordiali, inseparabili dal simbolo e come strumenti mentali, la cui origine si trova nel mondo soprannaturale. Essi avrebbero a che fare più con il "trans-conscio" che con l'inconscio. Nel decorso della storia essi dovettero subire duri impatti con forze grandi e diverse: il cristianesimo, la scienza e la storia. Eliade ritiene che il prossimo grande impatto dovrebbe avvenire, probabilmente, con le culture extra-occidentali, nella prossima fase di unificazione planetaria dell'umanità, che si preannuncia, fin d'ora, complessa e tumultuosa. Il messaggio globale dei miti, le cui differenti versioni sono caratterizzate da elementi culturali specifici, offre all'uomo contenuti e orientamenti essenziali per la comprensione della sua condizione. Da essi egli apprende che alle origini le creature erano buone, che il male intervenne per una scelta errata e responsabile (colpevole) dell'uomo, che in seguito ad essa la condizione umana è divenuta fragile e soggetta al male, al dolore e alla morte, che errori e mali (colpe) possono essere riparati, per cui la salvezza è possibile. I miti, perciò, svelano il vincolo esistente fra l'uomo e il sacro, presentano modelli esemplari per l'azione umana e mantengono viva la coscienza del suo collegamento con un mondo diverso dal profano: quello divino.

4.4. Riti Partendo dal suo significato antico e originario di "ordine immanente nel cosmo" la parola "rito" ha assunto il significato moderno di "pratica regolata". Nell'antropologia religiosa i riti riguardano l'esperienza esistenziale dell'uomo e si attuano in gesti e parole, dotati di espressione simbolica, volti ad assicurare un contatto col trascendente, il divino e Dio. Essi fanno passare colui che li compie, dal segno all'essere, perciò fanno parte del "sacro vissuto". Il rito, come "atto simbolico" inteso a realizzare le figure di un ordine naturale, sociale, culturale e religioso, si rapporta all'uomo, considerato come persona e membro della società. I riti d'iniziazione sono fra i più significativi perché significano il passaggio a una realtà nuova, a un'ontologia trascendente.

5.

L'esperienza del sacro

L'affermazione dell'antropologia, che non c'è sacro se non attraverso un'esperienza personale, non riduce affatto il sacro alle pure dimensioni dell'umano. Piuttosto, mette in luce che esso non è il frutto di categorie concettuali, ma esprime il valore supremo, soltanto in una forma incarnata o in un incontro personale e, comunque, in un'esperienza vissuta.28 Per questo motivo, alle origini di ogni religione c'è sempre un'esperienza del sacro, individuale o collettiva. Si deve dire di più: non è possibile che l'uomo non faccia una qualche esperienza del sacro. In tale esperienza rientrano anche le reazioni di rivolta, di disperazione o di assurdo, che esprimono esperienze o "forme" di aspettativa o di "attesa". Anche l'incredibile molteplicità di espressioni linguistiche e concettuali escogitate dall'uomo: perfezione, totalità, ultimità, infinità, assoluto, trascendenza, ineffabile, ecc., si muovono nell'orbita di un "Principio superiore" di cui l'uomo intravvede l'intelligibilità e che per comodità chiama "Sacro".29

6.

Sacro e condizione umana

In ultima analisi, l'esperienza del sacro si colloca sempre nell'ordine dell'amore. In esso la percezione della morte è vista in ordine alla speranza. La fine dei tempi è il superamento di quell'alienazione e di quella dispersione di cui soffriamo e dalle quali cerchiamo di sottrarci con tutte le nostre forze. Accanto alle realtà contro le quali il 7

sacro insorge, vi sono quelle che, invece, esso favorisce: la vita, il sacrificio, il culto, la vita come vocazione, chiamata, scelta, elezione e decisione. Il sacro è l'intuizione prima di una realtà infinitamente desiderabile e adorabile, perché supera le sottili punte della sensibilità, trascende le possibilità dell'immaginazione e invera le attese della ragione, riducendola al silenzio. Quindi costituisce la virtù, l'energia e la forza più attiva che sospinge l'uomo al suo continuo superamento.30

7.

Riflessioni conclusive

L'antropologia della religione ha saputo "rileggere" le acquisizioni delle altre scienze delle religioni (contenuti e metodi) in modo tale, da dare alle ricerche sulla religione un'impostazione nuova, originale e più matura e aprire loro prospettive assai più ampie e ambiziose. Con essa diviene necessario focalizzare le ricerche scientifiche sull'esperienza umana del sacro (teofanie e entropofanie) e sul ruolo sempre più centrale, che la figura preistorica, storica e trans-storica dell'homo religiosus assume nell'esperienza religiosa e nell'interpretazione del suo significato e del suo messaggio. L'impegno ermeneutico, volto a comprendere in profondità le teofanie, trascende il puro ambito scientifico, per affacciarsi sulle prospettive di un nuovo umanesimo integrale per l'uomo di oggi sul mistero che fonda il "religioso". Ciò le è possibile perché può prendere come punto di partenza quello che per le altre scienze della religione costituì un sofferto e tormentato punto di approdo. Per questo motivo, nel trattato su "Le origini e il problema dell'homo religiosus" troviammo conclusioni e prospettive impensabili qualche decennio addietro, ma addirittura programmatiche per le scienze attuali: "Grazie alle tracce lasciate dagli uomini, dal Paleolitico fino alla nostra epoca, lo storico delle religioni e l'antropologo sono in grado di identificare i tratti del volto dell'homo religiosus. Scoperte incessanti portano a un costante incremento di questa documentazione già così ricca e varia. Col suo comportamento nel corso dei millenni, l'homo religiosus mostra di credere in una Realtà trascendente che si manifesta in questo mondo e dà al mondo stesso una dimensione di compimento. Questa scoperta fa sì che l'uomo assuma un modo specifico di esistere, poichè sfocia in valori assoluti, capaci di dare un senso all'esistenza umana. Eliade non ha esitato a dire che l'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo fatto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato".31 Sono affermazioni forti e incisive che, oggi, rappresentano soltanto un punto di partenza verso ulteriori acquisizioni, ancor più avanzate e significative. La ricerca continua. 1

Honko L. (Ed.), Science of Religion. Studies in Methodology, Paris-New York 1979, 143-

366. 2

Su questa ed altre pertinenti critiche, cf. G. Durand, L'imagination symbolique, Paris 1964; Id., Science de l'homme et tradition, Paris 1979. 3

M. Panoff, M. Perrin, Dictionnaire de l'ethnologie, Paris 1973.

4

J. Ries, "L'uomo e il sacro. Trattato di antropologia religiosa", in E. Anati, R. Boyer, Le origini e il problema dell'Homo religiosus, Milano 1989, 24. 5

Ries, "L'uomo e il sacro", 26

6

Ries, "L'uomo e il sacro", 26-27.

8

7

Con Kratofania (cratofania) si intende la manifestazione di una potenza superiore sconosciuta; con ierofania si intende una manifestazione del sacro o divinità; con teofania si intende una manifestazione del Dio personale. 8

Ries, "L'uomo e il sacro", 28-29.

9

Ries, "L'uomo e il sacro", 29.

10

M. Eliade, Traité d'histoire des religions, Paris 1949 (tr. it. Trattato di storia delle religioni, Torino 1976). 11

M. Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, 3 voll. Paris 1976-1983 (tr. it., Firenze 1979-1983). 12

H. Clavier, Les expériences du divin et les idées de Dieu, Paris, 1982.

13

M. Meslin, L'expérience humaine du divin. Fondements d'une anthropologie religieuse, Paris 1988. 14

J. Ries (a cura di), L'expression du sacré dans le grands religions, 3 voll., Louvain-laNeuve 1978-1986. 15

J. Ries, "L'uomo religioso e il sacro alla luce del nuovo spirito antropologico", in AnatiBoyer, Le origini, 38, 39-40. 16

Ries, "L'uomo religioso", 40.

17

Mana, forza magica grazie alla quale gli uomini hanno successo in ogni loro attività.

18

Logos, in filosofia, indica il pensiero e la parola, intesi come attività propria della facoltà raziocinante dell'uomo. In teologia, indica il Figlio di Dio, Gesù Cristo (Verbo, Parola). 19

Ries, "L'uomo religioso", 42.

20

M. Eliade, Il sacro e il profano, Torino 1967, 171.

21

Ries, "L'uomo religioso", 46-47.

22

Ries, "L'uomo religioso", 48-49.

23

P. Ricoeur, La symbolique du mal, Paris 1960, 330s.

24

J. Ries, Les chrétiens parmi les religions. Des Actes des Apotres à Vatican II, Paris 1987, 58-65, 380-384, 400-403. 25

M. Eliade, Méphistophèles et l'androgyne, Paris 1962, 254-268.

26

M. Eliade, Religions australiennes, Paris 1972, (tr. it. La creatività dello spirito, Milano 1979, 30-34). 27

M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, Torino 1968; G. Durand, Les structures anthropologiques de l'imaginaire, Paris 1973, 410-433; Ricoeur, La symbolique, 153-65. 28

R. Boyer, "L'esperienza del sacro", in Anati-Boyer, Le origini, 59.

29

Boyer, "L'esperienza del sacro", 60-63.

30

Boyer, "L'esperienza del sacro", 73-74. G. Durand, "L'uomo religioso e i suoi simboli", in Anati-Boyer, Le origini, 75-116. 31

J. Ries "Conclusioni e prospettive", in Anati-Boyer, Le origini, 313.

9

8.

FONDAMENTI DI UNA "DIALOGICA TEOLOGICA"

1.

Cenni introduttivi

Dopo l'analisi delle scienze della religione, il nostro studio entra in una fase nuova, assai diversa: l'accertamento delle condizioni e modalità teologiche che consentano di valorizzare le acquisioni scientifiche nel dialogo interreligioso. Infatti la proposta fondamentale di questo libro è che le acquisizioni critiche elaborate dalle scienze delle religioni e i temi fondamentali dell'uomo religioso, delle teofanie e dell'antropofania possono arricchire il dialogo interreligioso. Questo richiede, tuttavia, una teologia del dialogo (dialogica teologica) e una teologia delle religioni, a ciò finalizzate. Poiché tali teologie richiedono un'elaborazione assai complessa, esamineremo: gli sviluppi del dialogo nei documenti postconciliari (capitoli nove e dieci), le periodizzazioni del rapporto fede cristiana-religioni (capitolo undici) e i caratteri e i temi di una "cristologia, pneumatologia e staurologia dialogiche delle religioni" (capitoli dodici e tredici). In questo capitolo svilupperemo una riflessione volta a verificare quali posssano essere i fondamenti biblici, filosofici e sistematici di una "dialogica teologica" o teologia del dialogo interreligioso. Data la complessità e vastita dei problemi ci soffermeremo soltanto sugli aspetti strettamente essenziali al nostro scopo.

2.

I credenti protagonisti del dialogo

La progressiva attenzione alle persone come protagoniste, si è inserita pure nel dialogo. L'impostazione iniziale privilegiava gli aspetti istituzionali ma, in realtà, il dialogo non è mai fatto da istituzioni, sistemi e strutture. Dia-logare (parlarsi-fra) è specifico delle persone. Il termine "persone" indica che i soggetti principali sono i credenti in quanto persone. Certamente anche la dimensione "ufficiale" e "istituzionale" è indispensabile, tuttavia essa non può esaurire le esigenze, né la complessa realtà, né le problematiche più importanti del dialogo. Ne esprime soltanto una piccola parte, per quanto importante e qualificata. La dottrina ecclesiale, dal Concilio Vaticano II in poi, non ha mancato di sottolineare più volte la responsabilità e il dovere di ogni battezzato, di render ragione a tutti della propria speranza. Tale tema costituisce una dimensione costante, dai documenti conciliari fino all'enciclica Redemptoris Missio e a Dialogo e Annuncio. Tuttavia, questa realtà non va solo sottolineata, ma resa operante, sviluppando, iniziative, idee, criteri, metodi e strumenti necessari, per un dialogo consapevole ed efficace. L'esperienza quotidiana e le scienze umane evidenziano l'importanza e la difficoltà di ogni dialogo inteso, soprattutto, come "comunicazione". Tale difficoltà riguarda pure il dialogo interreligioso, per il quale appare indispensabile un'adeguata "dialogica". Con questo termine intendiamo una teologia del comportamento dialogico, che valorizzi valorizzi gli apporti, non solo della filosofia, ma anche delle scienze umane e soprattutto delle scienze della religione.

3.

Spunti biblici: dialogo, ascolto e salvezza

Non è questo il luogo di una ricerca biblica sul "dialogo", per cui faremo solo alcune osservazioni. Innanzitutto questa voce o altre analoghe, non appaiono nei dizionari

biblici o teologici. Il tema non sembra sviluppato neppure a livello teologicosistematico, nonostante la palese "dimensione dialogica" della salvezza. Il termine biblico che maggiormente vi si avvicina è quello di "ascolto". Certamente il solo ascolto non costituisce un dialogo, né esaurisce tutta la problematica, tuttavia può costituirne un momento fondamentale, se inteso come "ascolto reciproco". Esso potrebbe essere inserito in un concetto di dialogo inteso come "camminare insieme verso la verità da cui lasciarci possedere". Visto così, si presterebbe bene al significato di arricchire e purificare la propria fede, mediante l'esperienza reciproca e la testimonianza di un altro, che fa scoprire i più profondi aspetti del mistero divino e rimette in discussione le proprie assunzioni, non abbastanza verificate, i pregiudizi, le concezioni e prospettive anguste, ecc. Nella Scrittura il "reciproco ascolto" presenta una dimensione salvifica, significativa nella duplice direzione: da Dio all'uomo e dall'uomo a Dio. Esso appare ancor più significativo, se si confronta il dato biblico con i dati delle scienze della religione. Notiamo allora che, mentre i misteri greci e la gnosi orientale fondavano il rapporto fra uomo e Dio sulla "visione", la Sacra Scrittura ha privilegiato decisamente la relazione fra Dio e uomo, fondata sull'ascolto (Rm 10,17). Di conseguenza la necessità e la centralità dell'ascolto, nell'annuncio biblico, non è episodica o casuale, ma fondamentale. Ciò emerge dai testi non solo profetici (Am 3,1; Ger 7,2), ma anche sapienziali (Pr 1,8). Gesù, pro-feta, parola e sapienza eterna del Padre, conferma questo dato e lo porta a pienezza (Mc 4,3; 12,29). L'ascolto, nella teologia biblica, coinvolge non le orecchie, ma la mente, il cuore (Atti 16,14) e tutta la persona, nella disponibilità ad accogliere la parola e viverla (Mt 7,24). Per l'uomo biblico, l'incapacità di ascolto costituisce una condizione negativa, come il rifiuto e la chiusura verso Dio o i fratelli, pertanto è messa in relazione col peccato. Perciò, l'Antico Testamento sottolinea che solo la potenza di Dio "apre le orecchie" dell'uomo e "scava un solco" profondo nel suo cuore (Sal 40,7), per renderlo capace di ascolto (Is 50,5; Giob 36,10). Il Nuovo Testamento, a sua volta, mostra che solo la potenza delle parole e dei gesti di Gesù fa udire i sordi e parlare i muti (Lc 11,28). Le potenze del male, che si celano in queste impossibilità di ascoltare (sordi) e parlare (muti), impedendo il dialogo, vengono sconfitte e distrutte. Il Padre stesso, parla a gran voce dal cielo, invitando i discepoli ad "ascoltare" il Figlio prediletto (Mt 17,5) che, a sua volta, proclama beati quanti lo "ascoltano". Il tema dell'ascolto, nella Bibbia, presenta pure Dio che chiede di essere ascoltato, ma promette pure di ascoltare le parole e le richieste dell'uomo. Ascoltare, da parte di Dio, significa esaudire, cioè attuare e realizzare, nel suo Figlio Gesù (Gv 11,41), quanto gli chiedono i poveri, gli oppressi, i sofferenti, gli umili, gli ammalati, i prigionieri, le vedove, gli, orfani, osssia tutti quelli che appartengono alle varie categorie della sofferenza e dell'indigenza umana. A maggior ragione Dio ascolta-esaudisce chi chiede di fare la sua volontà (1 Gv 5,14) o si sforza di attuarla (Sal 34,16; Gv 9,31; 1Pt 3,12).1 Infine, e questo è l'aspetto decisivo degno della massima attenzione, la duplice direzione dell'ascoltare e del parlare avviene come opera dello Spirito Santo. Però, di fronte all'uomo troppo preoccupato di parlare, il Signore sottolinea la priorità e l'essenzialità dell'ascolto. Tutto questo significa che vi è un dialogo radicale, quello di Dio, di fronte al quale il nostro dialogare non è che enigma e specchio (1 Cor 13,12). Il dialogo divino per eccellenza è certo il "parlare di Dio con noi", che si attua, con pienezza, nel dono-invio della sua "Parola", perché rimanga sempre con noi e in noi. Il parlare di Dio, il linguaggio di Dio è "Parola sostanziale", che compenetra trascendenza e verificabilità. Di qui l'importanza di rispettarne la "lettera", espressa in modo più formale ed esterno e

2

lo "spirito", dato in modo più misterioso e interno, senza pretendere di farne recinti garantiti per la nostra tranquillità e sicurezza (2 Cor 3,6).2

4.

"Ecclesiam Suam": dimensione dialogica della salvezza

Paolo VI dedicò la Ecclesiam Suam quasi interamente al dialogo della Chiesa con il mondo. In sei densi paragrafi (nn.74-79) sviluppò la dimensione dialogica della salvezza, ricavata da numerosi e specifici testi evangelici o neotestamentari. Possiamo sintetizzare il filo conduttore del suo pensiero in questi termini. La rivelazione può essere raffigurata come un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'incarnazione e quindi nel Vangelo. La storia della salvezza narra questo lungo e variato dialogo, che Dio intesse con l'uomo, con una conversazione varia e mirabile che rende il dialogo pieno e confidente (n. 72). Poiché il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente dalla iniziativa divina (1Gv 4,10), spetta alla chiesa riprenderne sempre l'iniziativa (n. 74), partendo dalla stessa pienezza di carità divina fervente e disinteressata (Gv 3,16), che la deve sempre muovere (n. 75). Dio lo conduce sempre senza limiti, senza calcolare i meriti o i risultati (n. 76, cf. Lc 5,31), senza obbligare nessuno ad accoglierlo, ma lascinado tutti liberi di corrispondervi (n.77, cf. Mt 11,21; 12,38; 13,13). Lo ha reso possibile a tutti, senz'alcuna discriminazione (n.78, cf. Col 3,11) e lo conduuce con gradualità e svolgimenti successivi (Mt 13,31) rispettando le nostre lentezze e la necessaria lunghezza dei tempi (n. 79, cf. Ef 5,19). Paolo VI concludeva che la chiesa deve dialogare con umiltà e discrezione, fondandosi sulla persuasione interiore e rispettando ogni libertà personale e civile.

5.

Tematiche filosofiche: dialogo e comunicazione

Per poter sviluppare un'adeguata teologia, occorre pure un'adeguata riflessione filosofica. Tuttavia, in campo filosofico, una trattazione specifica e sistematica del dialogo sembra mancare, anche se già il pensiero socratico e platonico intendevano il dialogo come confronto e discussione di opinioni, alla ricerca d'un termine che orientasse all'unità le discordanze iniziali. Tale atteggiamento ispirò molti filosofi, da Cicerone, Agostino, Cusano, Bruno, a Berkeley, ecc., trovando una certa accoglienza nello spiritualismo contemporaneo.3 Oggi, però, il termine ha assunto un senso alquanto diverso, indicando la necessità della filosofia e delle scienze di considerare le proprie affermazioni come relative e bisognose di apertura ad altre forme di pensiero. Il postulato base del dialogo risiederebbe nella "volontà di capire", che imporrebbe, essenzialmente, questo "dialogare" come norma inderogabile.4 Questa visione fa emergere anche lo stretto legame intercorrente tra "dialogo" e "comunicazione", in cui la seconda esige un domandare e un rispondere, senza limiti e senza fine.5

5.1. Dialogo, "situazione comunicativa" e fede La cultura e l'esperienza attuali appaiono poco inclini alla "speculazione" filosofica e teologica, per cui la teologia appare, a volte, come una filosofia che, assunte le metodologie del pensiero filosofico contemporaneo, ne occupi gli spazi lasciati vuoti dal dissolversi della speculazione filosofica. In questo caso, diviene necessario un ritorno al rispetto delle rispettive esigenze epistemologiche. Le riflessioni che stiamo per svolgere, riguardanti il dialogo fra la filosofia e la fede vogliono costituire un'introduzione e un chiarimento per il dialogo interreligioso, che

3

presenta problemi, in parte eguali e in parte analoghi e diversi. Si tratta, perciò, di un contributo generale e propedeutico al tema del dialogo. Ciò premesso, passiamo al problema di fondo del dialogo fra filosofia e fede. Esso consiste nell'interrogativo se colui che accetta un quadro di verità rivelate, tenuto conto della loro sostanziale diversità di contenuti e di metodi, rispetto alle verità razionali, possa essere un filosofo autentico e sincero. Per analogia, lo stesso interrogativo vale anche per il dialogo fra una religione storica (rivelata) e una strutturale (umanosapienziale). Però, non entriamo ancora in questo argomento. Per rispondere correttamente a questa domanda, dobbiamo porre il punto decisivo e focale del dialogo, nella situazione "comunicativa" che, per sé, non ha nulla a che fare né con la sequela, né con l'adesione, né con la risposta a un invito di fede. Inoltre, secondo Jaspers, l'essenza stessa della ragione, spoglia da ogni pretesa di conclusione, come compito o "fede filosofica", risiede e si attua proprio in quella illimitata disponibilità a comunicare che è il dialogo.6 Perciò il dialogo, in quanto tale, esige, prima di tutto, questa sincerità assoluta, povertà interiore e piena partecipazione alle prove nella prassi della vita. Quindi, la situazione limite di questa disponibilità dialogica consiste nel capire l'altro nella sua fede religiosa, senza per questo seguirlo nella confessione di essa. La maggiore difficoltà sembra consistere nel fatto che la fede filosofica può, al massimo, comprendere la fede religiosa, senza armonizzarsi con essa. Tuttavia, il superamento di questa obiezione è offerto proprio dalla struttura intima della fede nella rivelazione, vale a dire nella sua dimensione "psicologica e mentale", che presuppone disponibilità assoluta e ragione illimitatamente aperta. Ciò significa che la fede, quanto più è forte, tanto più dispone il credente a mettersi in discussione (atteggiamenti, convinzioni, certezze, ecc.). Perciò essa, non solo non disturba, ma addirittura esalta la sincerità della sua ricerca. Inoltre, il paradosso della fede religiosa risiede nella sua stessa struttura "teologale", la cui "garanzia trascendente" (grazia) le impedisce di costituirsi in possesso chiuso, spingendola a qualsiasi prova, in un dialogo che non consta di enunciazioni perentorie, ma di proposte ermeneutiche e di offerte di senso, su cui gli interlocutori misurano la prassi della loro vita. Ciò significa che, nel dialogo, comunicazione e linguaggio sono intimamente connessi. Questo discorso esprime la fiducia, teologale e razionale, nella verità e nella sua forza purificatrice che predispone alla novità. Siffatto filosofare esprime un vivere esteso tra la domanda radicale di senso e l'abbandono ad una garanzia che viene dall'alto. La sua analisi, considerata dal punto di vista della consapevolezza filosofica, è interpretazione e ipotesi. Vista, invece, alla luce della fede religiosa, è fiducioso abbandono. Questo esito è possibile, perché la ragione umana è aperta, non è un dominio teoretico esaustivo ma un dinamismo ermeneutico.7 Come abbiamo già visto, questo atteggiamento di ricerca continua (filosofica e scientifica) presenta significative analogie con l'atteggiamento religioso.8 Quanto detto, vale pure se le due esperienze, fede filosofica e fede religiosa nella rivelazione, sono riunite in una sola persona.

5.2. Dinamismo e "momenti" del dialogo Quanto abbiamo osservato per le scienze della religione, in particolare per la fenomenologia e l'antropologia, diviene qui particolarmente illuminante e suggestivo, perché vediamo affiorare un'identica dimensione dialogica. Infatti il "dinamismo dialogico" che abbiamo esaminato comporta diversi momenti. Il primo momento consiste nel "mettere fra parentesi" (epoché) le nostre posizioni e le nostre valutazioni ordinarie della vita quotidiana. Nel dialogo, ci poniamo in una prospettiva nuova, problematizziamo, ci stupiamo di non stupirci. Tutto ciò non nasce da uno spirito di contestazione, ma dalla ricerca della posizione più adeguata da 4

assumere, di fronte a punti di vista diversi. L'uomo di fede, nel filosofare, pone fra parentesi le proprie certezze, non per metterle in dubbio o contestarle, ma per considerarle da angoli diversi, di fronte ai perenni interrogativi sollevati dalla vita e dalla realtà. Lo stupore presenta analogie con l'atto di fede, perché nasce dall'incontro con elementi che non ci permettono di comprendere e turbano i nostri criteri di giudizio e quadri di valutazione. Il secondo momento è il "passaggio dallo stupore all'ammirazione". La sospensione del giudizio non porta all'insuccesso, allo smarrimento o al turbamento, ma all'esaltazione della coscienza, di fronte a un'eccedenza di significato e a una presenza, che allarga l'orizzonte e sostituisce al giudizio un atto di contemplazione. Il terzo momento è il "riflettere fino in fondo", con cui andiamo ai fondamenti di ogni cosa e indaghiamo rigorosamente la realtà, fino a renderla problematica e a inserirla in un contesto che ne allarghi gli orizzonti. In questa impostazione, fede e ricerca (scientifica e filosofica) non sono estranee l'una all'altra. La fede apre il problema, l'intelletto cerca le soluzioni,9 in un orizzonte speculativo particolarmente sensibile al rapporto fra comprensione e interpretazione. In esso, il rigore del discorso filosofico è assai diverso da quello del formalismo matematico, perché il suo humus è lo stupore di fronte alla vita, non le regole formali del discorso.10

5.3. Valorizzazione della "condizione iniziale" Il discorso va ora focalizzato sulla coscienza personale: il cristiano che riflette nel senso di una richiesta radicale di fondamento, senza alcuna garanzia esterna (rivelazione religiosa), può essere sincero fino in fondo? Come abbiamo visto, più la fede è forte, più ci rende disponibili a metterci in questione, per cui il credente è agli antipodi del fanatico, che cerca di rafforzare la sua radicale insicurezza cercando il consenso esteriore. Chi ha fede non teme l'epoché (messa fra parentesi delle sue manifestazioni esterne), ma si dispone, in completa sincerità, alla ricerca senza pregiudizi, ponendo in questione ciò che gli è più caro, perché attinge dalla carità la forza di esporsi alla comune condizione umana di chi non ha alcuna garanzia. A questo punto, però, dobbiamo fare un'osservazione fondamentale: l'esperienza della pienezza della fede non esige l'atteggiamento del "dubbio", che sarebbe contraddittorio con essa, ma l'atteggiamento della "condizione iniziale". Essa consiste nel mettersi nella "situazione originale", ossia nello stato in cui si visse e sperimentò il nascere dello stupore originario. Quindi, nel dialogo, ai credenti non viene mai chiesto di passare dalla fede al dubbio, ma dalla fede alla posizione originaria. Ciò rispetta totalmente le loro esigenze. Essi si riportano a una posizione di partenza, che ha una tensione problematica capace di placarsi nella fede già posseduta, ma che va ora rivissuta, riamata e risofferta, in seguito ai nuovi dati estrinseci, emersi dal dialogo. Questo riproporre lo stato originario della coscienza, che si stupisce in maniera autentica di fronte alla realtà e alla vita, è un atteggiamento non solo teoretico, ma pure etico-morale e ascetico. È povertà interiore, distacco, liberazione, non dalla fede, ma da ogni adesione consuetudinaria ad essa, sempre possibile. Per di più, è una povertà non subita o coatta, ma libera e voluta, che non nasce da qualche dubbio sopraggiunto e imprevisto, ma dalla decisione di risalire all'origine. Il credente si stacca da un possesso gioioso e da una tranquilla serenità, per verificare la propria adesione di fede e disposizione di carità. Questo è vero dialogo, che fa partecipare alla condizione comune di ogni uomo che s'interroghi sinceramente, con intenzione pura e cuore disponibile. Si tratta di un'esperienza tutt'altro che facile. Perciò, vista in chiave teologica, è opera della grazia, che perfeziona la natura e porta a 5

compimento quel processo o itinerario, che va dall'emergere dello stupore fino al prorompere della verità nella carità. Grazia, carità e verità divina, liberandoci dai nostri limiti, consentono di riproporci la domanda iniziale e ritornare ad essa, senza finzioni tattiche né sconvolgimenti della pace interiore.11 Queste riflessioni si rivelano di particolare importanza per impostare, in modo rinnovato, il rapporto cruciale fra dialogo e conversione, che acenniamo nel successivo capitolo. Esse pongono in armonia le più elevate dimensioni umanistiche del vero atteggiamento scientifico, dell'autentica ricerca filosofica e della sincera adesione di fede. Sotto questo aspetto costituiscono un contributo culturale del massimo livello

6.

Dialogica teologica o teologia del comportamento dialogico

Se muoviamo da una prospettiva di questa profondità e ricchezza, lo sviluppo di un'adeguata "dialogica teologica" non potrà essere rapido né semplice. Esso ci porterà ad affrontare i numerosi problemi inerenti alla comunicazione "interna" (rapporti fra persone e comunità appartenenti a una stessa cultura o sistema di valori) ed "esterna" (rapporti fra persone e comunità appartenenti a culture o sistemi di valori diversi). Tali rapporti sono resi ancor più complessi dalle interpretazioni, diverse e talora opposte, che scienze umane e filosofia danno, finora, della comunicazione stessa, che vanno da un concetto di "pura tecnica delle informazioni" (scienze), a quello di "partecipazione spirituale dell'io con un tu verso un noi di autentica comunione" (filosofia). Pertanto, una teologia del comportamento dialogico, pur prendendo sul serio i problemi derivanti dal senso tecnico più ristretto, dovrà impostare il suo discorso su una comunicazione che fondi la comunione dialogica, nell'autopartecipazione e nella condivisione.12 In questo senso la comunicazione esprime una relazione interpersonale fondata sulla partecipazione spirituale e attiva con l'altro, come esperienza primitiva e fondamentale di un incontro. Tale comunicazione personale è l'esigenza fondamentale dell'uomo.13

6.1. Dialogo, comunione, comunicazione Per Berdjaev la "comunione" esprime il senso più profondo, originario e autentico della comunicazione spirituale, che consente al rapporto io-tu di raggiungere la pienezza del noi. Questa visione comporta notevoli conseguenze per il dialogo, poichè, dal punto di vista "ontologico" ci fa riconoscere come persone e soggetti, valorizzando l'autenticità di ciascun interlocutore. In senso "gnoseologico" ci dice che è possibile conquistare insieme una comune verità trans-personale e a livello "etico-morale" ci fa riconoscere il valore della nostra umanità. Perciò si sostanzia nella collaborazione al bene, nella reciproca promozione spirituale. Dal punto di vista "religioso" la comunicazione è il valore che ci fa emergere come soggetti e ci unisce. È valore assoluto e comune, che non si esaurisce in noi né con noi, ma ci trascende, spingendoci l'un verso l'altro e, tutti insieme, verso il "Valore dei valori". Infatti, solo quel "Valore" ci fa emergere dal mondo degli oggetti, costituendoci soggetti e persone orientate verso l'infinito. Nessuno può comunicare con un altro, né intenderlo come soggetto o persona, fino a che non lo cerchi e ritrovi in questo movimento, che ci sospinge al di sopra di noi e al quale tutti dobbiamo partecipare. Tale stretta correlazione ci dice che la comunicazione favorisce la comunione, e che la comunione perfeziona la comunicazione, in modi molteplici, che segnano una continua osmosi da parola a parola, da concetto a concetto, da pensiero a pensiero, da sentimento a sentimento, da atteggiamento a atteggiamento e da azione a azione, superando la mediazione delle parole e delle idee, per giungere, infine, all'ineffabile, al silenzio.14

6

6.2. Comunione o partecipazione nell'amore La filosofia dell'esistenza, ispirata al pensiero religioso di Kierkegaard, ha contribuito a far anteporre il concetto di "comunità" a quello di "società". Berdjaev, rimarca, perciò, che il senso autentico della comunione non è assimilabile a quello di società, anche se lo contiene. La comunione consiste, essenzialmente, nella reciproca partecipazione fra coscienze, ossia nell'amore ed è una relazione interpersonale, che si contrappone all'obiettivazione sociale esteriorizzzante. Ponendo il problema in questi termini, neppure la comunicazione, per il suo valore convenzionale e simbolico, appare accostabile alla comunione, che non è soltanto un partecipazione unilaterale, ma una reciproca interpenetrazione. La comunione ha carattere religioso, perchè la vera partecipazione si compie solo all'interno di un'unità. In definitiva, soltanto in Dio si può operare questa interpenetrazione tra l'io e il tu.15 Con Blondel, il significato mistico della comunione appare connesso al motivo dominante dell'azione, che trapassa di coscienza in coscienza, fino a stabilire una comunione reale di vita, mai stabile ma in continua elevazione verso il divino.16

6.3. Struttura "trinitaria" del dialogo Anche le scienze umane hanno messo in luce che il dialogo, inteso come comunicazione, coinvolge una struttura "trinitaria". Il termine non è assunto in senso teologico ma antropologico. Ciò non esclude, però, spunti e indicazioni suggestive per la riflessione teologica. Qui consideriamo solo i tre momenti fondamentali del riferimento antropologico: a) rapporto dell'io con un tu esterno (l'altro); b) rapporto con la realtà o la cosa su cui i due soggetti s'incontrano; c) auto-riferimento, perché il rapporto fra il tu e la realtà considerata retro-interferisce sull'io. Questi rapporti sono espressi con esattezza dalle preposizioni iniziali dei vari termini. Il dia (attraverso) del dia-logo sottolinea il parlarsi-attraverso. Il com (con) della com-unicazione rimarca l'aspetto comune e unificante. L'inter (fra) dell'inter-soggettività, evidenzia la reciprocità.

7.

Dalla "dimenticanza" alla "valorizzazione" dei soggetti

Tenuto conto di ciò, vediamo che l'attuale linguaggio ecclesiale sul dialogo riflette ancora un'imperfetta attenzione ai soggetti. Partners del dialogo sono "religioni", "culture", "chiese", "fede", "teologia", ecc., ossia istituzioni e astrazioni, anziché concreti soggetti umani.17 Pertanto, occorre riportare in primo piano le persone concrete e storiche, i soggetti umani, figli del loro tempo e delle loro culture. Ciò esige, però, che si tenga nel massimo conto l'ambiente in cui vivono e maturano le loro esperienze, mentalità, attese, paure, speranze, esigenze, domande, ecc. Il problema della "dimenticanza", tuttavia, riguarda il nostro atteggiamento non solo verso gli altri, ma anche verso noi stessi. Perciò dobbiamo superare pure la nostra "dimenticanza" di noi stessi. Le scienze umane avvertono che i soggetti, abituati a dimenticare se stessi, diventano dimentichi degli altri: delle loro esigenze, della loro identità, ruolo e dignità. La dimenticanza costituisce un complesso fenomeno psicologico, culturale, antropologico e sociale, che contrasta fortemente la dinamica dell'annuncio salvifico cristiano. Esso esige di ascoltare per primi i soggetti che ci ascoltano, e anche quelli che non ci ascoltano. La valorizzazione soggettiva del dialogo, quindi, nasce da una serie di esigenze: teologali, soprannaturali, antropologiche, psicologiche e socio-culturali.18 Oggi, però, il recupero dei "soggetti", mediante il dialogo, assume un valore particolarmente significativo, dato che la "dimenticanza" dei soggetti, soprattutto nelle 7

moderne culture tecno-scientifiche, appare sovente e prima di tutto, una loro voluta "esclusione" e "negazione".

8.

Dialogo e intersoggettività

Dal Concilio Vaticano II in poi, l'intersoggettività, che trova nel senso dialogico le sue espressioni più genuine, si è manifestata come elemento sempre più fondamentale nel piano della salvezza, nel Regno di Dio e nella Chiesa. Espressioni pregnanti d'intersoggettività dialogica si trovano nei contesti più significativi della struttura intra-ecclesiale quali la "collegialità", la "solidarietà" e la "cooperazione" fra le comunità ecclesiali. Le troviamo pure riguardo ai rapporti esterni con le culture e con i più diversi gruppi umani: non cattolici, non cristiani, non credenti.19 La "conversione" dialogica, negli ultimi decenni, è apparsa pure in significative espressioni lessicali e linguistiche positive, che hanno sostituito le precedenti locuzioni negative quali: "fratelli separati" anziché "non cattolici"; "fedeli di altre religioni" anziché "non cristiani" o, peggio ancora, "in-fedeli" (non fedeli); "cultori dei valori umani" anziché "non credenti o atei".20 Lo stesso mutamento è avvenuto nei nomi di alcune istituzioni postconciliari che presiedono al dialogo. Il "Segretariato per il dialogo con i non cristiani" è divenuto il "Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso" e il "Segretariato per il dialogo con i non credenti" è divenuto il "Pontificio Consiglio per la cultura". Segni piccoli ma importanti di una consapevolezza dialogica che va ulteriormente approfondita e maturata a tutti i livelli.

9.

Sintesi conclusiva

In questo capitolo, cercando suggestioni per una "dialogica", abbiamo visto emergere numerose indicazioni, soprattutto dall'ambito filosofico. Esse, perciò, dovranno essere verificate ed elaborate negli appropriati ambiti teologici. Qui ne ricordiamo soltanto due. La prima considera il dialogo, come comunicazione che conduce alla comunione e appare dotata sia di spessore teologico che di attualità culturale. Infatti, in una "civiltà della comunicazione", ritmata sul dialogo, in cui nulla viene considerato definitivo o compiuto, la dimensione "religiosa" può presentarsi come aperta e non scontata e come stile di convivenza, che si esprime nella relazionalità. In essa l'uomo diviene se stesso solo comunicando con l'Altro e gli altri. 21 Inoltre, nella comunicazione dialogale, l'attenzione all'interlocutore ha la stessa importanza dei contenuti offerti. Infine, il rapporto comunicativo, per raggiungere l'altro, si fonda sul "consenso comunicativo". Perciò la comunicazione verso la comunione, che consiste, essenzialmente, nella reciproca partecipazione nell'amore appare una dimensione dialogica e antropologico che coinvolge ogni livello.22 La seconda riguarda la valorizzazione della condizione iniziale. Con essa il dialogo chiede ai credenti di passare, non al dubbio, ma allo stupore originario della posizione di partenza, per rivivere riamare e risoffrire insieme, in seguito ai dati emersi dal dialogo, la sua primitiva tensione problematica. Si tratta di un atteggiamento non tanto teoretico, quanto spirituale, morale e ascetico, come povertà interiore e distacco da ogni adesione consuetudinaria alla fede. Per di più, esprime la libera volontà di risalire insieme all'Origine. Questi atteggiamenti in seno al dialogo, indicano un "dire per capire" che propone il messaggio per poterlo capire sempre più profondamente e intensamente, in una crescente disponibilità scevra da ogni soggettivismo, eclettismo e sincretismo.23

8

1

C. Augrain, "Ecouter", in Vocabulaire de Théologie Biblique, Paris 1970, 309-310.

2

A. Joos, "Ecumenicità del Regno e dialogo delle culture", in Ecumenismo e dialogo delle culture, Atti della XXVI Sessione di formazione ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche, La Mendola (Trento) 30.7-7.8.1988, Roma 1989, 33-34. 3

Cf. L. Lavelle, La présence totale, Paris 1934.

4

Cf. G. Calogero, Logica, gnoseologia, ontologia, Torino 1948, 1-11.

5

K. Jaspers, La mia filosofia, Torino 1946, 157.

6

K. Jaspers, La fede filosofica, Milano 1973, 182-184.

7

A. Rigobello, Perché la filosofia, Brescia 1979, 126-131.

8

Cf. G. Gismondi, Fede e cultura scientifica, Bologna 1993.

9

Cf. il "fides quaerit, intellectus invenit" di S. Agostino.

10

Rigobello, Perché la filosofia, 131-135.

11

A. Rigobello, "Fede e ricerca", in L'Osservatore Romano, 20-21.3.1978; Id., Perché la filosofia, 135-139. 12

H. Waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Milano 1986, 89. 13

E. Mounier, Le personnalisme, Paris 1938, 38.

14

"Comunicazione", in Dizionario delle idee, 150-151.

15

N. Berdjaeff, Cinq méditations sur l'existence, Paris 1936.

16

M. Blondel, L'action, Paris 1893, 352.

17

Waldenfels, Teologia fondamentale, 88-90.

18

Nella sua origine è espressione della volontà salvifica "universale" di Dio che "vuole tutti gli uomini salvi e giunti alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4). D'altra parte è pure espressione della volontà salvifica "totale o globale" di tutto l'uomo. Cf. Waldenfels, Teologia fondamentale, 91. 19

Tenendo presente il diverso linguaggio e la varietà di motivi dei vari documenti, cf. Secretariatus pro non christianis, L'atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni ed orientamenti su dialogo e missione, Città del Vaticano 1984; Redemptoris Missio, 55; Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso - Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, Dialogo e annuncio, riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l'annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, Città del Vaticano 1991. 20

L'importante espressione si trova in Gaudium et Spes, 92; la Chiesa, nella sua volontà di dialogo: "non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora l'autore ...". 21

Joos, "Ecumenicità del Regno", 31.

22

Joos, "Ecumenicità del Regno", 75; C. Tullio-Altan, Manuale di antropologia culturale, Milano 1977, 334. 23

Eclettismo, atteggiamento che conduce a sintesi poco ealaborate di elementi opposti o mal conciliabili. Sincretismo, in senso religioso, è un miscuglio più o meno forzato di elementi eterogenei e diversi.

9

9.

SVILUPPI DEL DIALOGO NEI DOCUMENTI ECCLESIALI

1.

Cenni introduttivi

Nel capitolo precedente abbiamo esposto i caratteri di una "teologia del dialogo" capace di valorizzare gli apporti di scienze, religioni e fede nel dialogo interreligioso. Benché detto tema non appaia esplicitato negli stessi termini nei documenti magisteriali, verifichiamo se in essi vi siano spunti che lo possano illuminare. Certamente l'invito del Concilio Vaticano II, a una collaborazione fra fede, teologica e cultura scientifica, fu dettagliatamente sviluppato nel n. 62 di Gaudium et Spes ed è rimasto, da allora, una costante preoccupazione del magistero. Esso ha lasciato numerose tracce nella riflessione sul ruolo salvifico della Chiesa, sull'evangelizzazione, sul ruolo dei cristiani nel mondo, ecc. nei diversi documenti eccleisali. Non è superfluo, dunque, cercare di enuclearne elementi utili per il nostro tema.1

2.

La "Ecclesiam Suam" di Paolo VI

Nel precedente capitolo abbiamo sintetizzato alcuni contenuti sul dialogo, esposti nella Ecclesiam Suam. Con quel documento, Paolo VI intese porre i fondamenti del dialogo tra la chiesa e l'umanità, nel contesto del mondo contemporaneo. Egli voleva approfondire la consapevolezza della Chiesa su se stessa, sul "tesoro di verità" di cui è custode e sulle luci, ombre, possibilità e problemi del mondo contemporaneo. Da tutto ciò derivò che l'atteggiamento più adeguato verso l'umanità e il mondo è il dialogo. Nel lessico di Paolo VI, "umanità" e "mondo" ricorrono con frequenza. Nell'enciclica, il mondo vien definito in funzione di tre specifici atteggiamenti umani: quanti avversano la fede e il dono della grazia; quanti credono esclusivamente nelle pure capacità naturali; quanti, delusi e depressi dalla debolezza umana, si chiudono in un pessimismo desolato o in una disperata rassegnazione.2 La chiesa ha ricevuto da Cristo il suo patrimonio di verità e di amore per annunciarlo proprio a queste porzioni di umanità, alle quali deve unirsi in uno sforzo comunicativo universale, facendosi "parola, messaggio e colloquio".3 Di qui la definizione di dialogo come: "amoroso e sapiente tentativo di congiungere il pensiero divino al pensiero umano, non astrattamente considerato, ma concretamente espresso nel linguaggio dell'uomo moderno ... rivolto all'inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parola, di cultura, di costume, di tendenza dell'umanità".4 Nel precedente capitolo abbiamo accennato ad alcuni caratteri del dialogo, ai quali Ecclesiam Suam aggiunge ulteriori qualità che ne fanno una genuina espressione d'intelligenza e di amore salvifico: la chiarezza, la mitezza che esclude ogni atteggiamento pungente o polemico, la fiducia che comporta confidenza e amicizia, la prudenza psicologica che rispetta la sensibilità psichica, culturale e morale degli interlocutori.5 La novità consiste nell'inserire queste affermazioni non solo in un contesto di morale personale, ma, soprattutto, di atteggiamenti tra masse religiose e culturali globali, quali le grandi religioni mondiali e le culture.

2.1. Diverse vie alla fede Il dialogo rende consapevoli che alla fede portano molte e diverse vie complementari, per cui vanno valorizzati tutti gli elementi di verità presenti nelle posizioni altrui, senza lasciarsi vincolare da apriorismi né fissismi, ma adattandosi alle

concrete esigenze.6 Perciò la chiesa deve conciliare un doppio ordine di esigenze: quelle legittime, degli uomini di ogni tempo, luogo, cultura e società e quelle di una fede autentica, senza attenuazioni o compromessi. Per fare ciò le occorrre un costante atteggiamento di ascolto, di servizio, di amicizia, di comprensione e di rispetto del cuore umano.7

2.2. Destinatari del dialogo Poiché destinatari del dialogo salvifico universale sono tutti gli uomini, la chiesa deve avere un messaggio appropriato per ognuno: bambini, ragazzi, giovani, adulti, uomini di scienza, del pensiero e della cultura, lavoratori, artisti, politici, poveri, diseredati, sofferenti, morenti. A tutti deve poter dire "io ho ciò che voi cercate, ciò di cui mancate": il dono evangelico e divino di luce, di grazia, di verità, di giustizia, di pace e civiltà.8 2.3. Il "cerchio" dell'umanità Paolo VI suddivise i destinatari della salvezza in alcuni "cerchi". Il primo cerchio riguarda l'umanità in quanto tale. L'enciclica sottolinea che: "dovunque è l'uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui" per onorarne, con la stima e il colloquio, l'anima naturalmente cristiana.9 In base al principio che "tutto ciò che è umano ci riguarda", questo cerchio si estende a quanti cercano onesti valori umani e terreni, pur non professando alcuna religione o credenza. Il dialogo tende ad aiutarli a recuperare in senso religioso la loro vocazione e a progredire nella civiltà e nella perfezione naturale dello spirito umano. Pertanto deve equilibrare la massima apertura, il rispetto delle coscienze e il rigoroso discernimento critico richiesto dalle esigenze della verità. In ciò è favorito dai molteplici "semi del Verbo" e presenze attive dello Spirito, quali l'ansia di giustizia e di autentico progresso, il bisogno di solidarietà e di comprensione umana, l'esigenza di una visione del cosmo e della storia che non sfocino nell'assurdo, l'impegno per la dignità e i diritti umani e lo sforzo di superare ogni violenza e costruire la pace.10 Perché queste genuine istanze non degradino nei loro "surrogati", ma rimangano apere all'Assoluto e al Principio e Fine Ultimo, il dialogo dovrà discernere l'immanenza, svelarne la trascendenza e ricondurli alle sorgenti cristiane, con una presentazione più alta, pura e trasparente di quel divino di cui sono segno e richiamo.11

2.4. Il "cerchio" dei credenti Il dialogo riguarda pure i credenti di tutte le tradizioni religiose, che condividono la fede e l'adorazione del Dio unico e sommo, perseguono i molteplici valori spirituali e morali e s'impegnano per gli ideali di libertà religiosa, fratellanza umana, genuina cultura, beneficenza sociale e ordine civile.12 Il terzo e quarto cerchio riguardano il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello fraterno, all'interno della chiesa, tra i "figli della casa di Dio" intenti a conseguire una reale unione d'intenti e di opere.13

3.

"Lumen Gentium"

In Lumen Gentium vengono chiaramente delineate le basi teologiche del dialogo. Il capitolo II, dedicato al popolo di Dio, sviluppa i temi dell'universalità e cattolicità, della chiamata di tutti alla salvezza nell'unità e della confluenza di tutte le genti verso il Regno. Da questi temi deriva la necessità che quanto di buono si trova nel cuore e nella mente degli uomini, e nei riti e credenze religiose e nelle tradizioni delle varie culture, non vada perduto ma purificato, perfezionato ed elevato. Ciò deve avvenire, per la gloria di Dio e la felicità dell'uomo, fino a che l'intera umanità sia trasformata nel popolo di Dio e corpo mistico di Cristo.14

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4.

"Gaudium et Spes"

In Gaudium et Spes il dialogo diviene tema esplicito nel contesto di vari ambiti: persone e gruppi, cultura e culture, scienze ed arti, ecc. L'interlocutore del dialogo è "l'intera famiglia umana". La persona vi è vista nel contesto delle realtà in cui vive: nella sua unità-totalità di corpo e di anima, di cuore e di coscienza, di pensiero e di volontà" e di "vocata", fin dalla nascita, al dialogo con Dio".15 La base del dialogo risiede in tutto quello che il Concilio ha detto sulla dignità della persona umana, la comunità degli uomini e il significato profondo dell'attività umana. Vi si aggiungono alcune motivazioni di ordine vulturale, politico e sociale derivanti dall'accrescersi e diversificarsi delle opinioni e dal diffondersi di problemi che coinvolgono sempre più l'umanità nel suo complesso. Tra questi vi sono gli intensificati rapporti culturali che turbano la vita delle comunità e la loro sapienza tradizionale, mettendo in pericolo l'identità e la fisionomia peculiare dei vari popoli. Essi, uniti alla crescente diversificazione delle scienze e delle applicazioni tecnologiche, creano una nuova cultura dinamica ed espansiva che mette in pericolo le tradizioni più antiche.16

5.

"Nostra Aetate" e "Dignitatis Humanae"

La dichiarazione Nostra Aetate, riguardante le relazioni con le religioni non cristiane, completa le precedenti motivazioni al dialogo con altre più specifiche. La prima è che anche oggi, dalle religioni, si attendono le risposte ai più profondi interrogativi che assillano sempre l'uomo, in particolare sul senso della vita, il bene, il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la felicità, la morte, il giudizio e il dopo-morte, infine il mistero che circonda la nostra esistenza, la nostra origine e il nostro ultimo fine. La seconda è che la Chiesa riconosce tutto ciò che vi è di vero e santo nelle religioni: modi di vivere, precetti, dottrine, che riflettono un raggio della verità che illumina tutti gli uomini. La terza ragione è che i credenti, col dialogo e la collaborazione, possono riconoscere, conservare e far progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in loro. La quarta è che il dialogo fraterno è espressione dell'amore universale di Dio, per cui può eliminare le cause delle divisioni e discriminazioni, contribuendo alla pace fra tutti gli uomini.17 La dichiarazione Dignitatis Humanae, sulla libertà religiosa, aggiunge, come ulteriori ragioni al dialogo: l'aiuto vicendevole nella ricerca della verità, lo scambio reciproco delle verità scoperte e il sostegno per aderire sinceramente ad esse.18

6.

"Ad Gentes"

Il Decreto Ad Gentes si pone da uno specifico punto di vista missionario. Perciò i suoi primi paragrafi risentono ancora dello missiologia preconciliare, tuttavia vi traspare una nuova sensibilità missionaria come manifestazione, epifania e realizzazione, del piano divino nella storia e nel mondo. Essa appare volta a conservare, sanare, elevare e perfezionare gli elementi di bene presenti e riscontrabili nel cuore e nell'anima umana e negli usi e nei valori delle diverse civiltà e culture.19 Il dialogo viene trattato esplicitamente nel secondo capitolo: "L'opera missionaria in se stessa", art. 1 "La testimonianza cristiana", in riferimento ai diversi raggruppamenti, che vanno dai seguaci delle tradizioni religiose più antiche, fino agli estranei all'idea di Dio e a quanti ne negano o avversano l'esistenza. Il dialogo è visto come "imitazione di Cristo" nel "penetrare nel cuore degli uomini" per portarli alla luce divina. Per fare ciò si devono conoscerli. Per conoscerli si deve 85

attuare con loro un dialogo sincero e comprensivo, affinché apprendano le ricchezze date generosamente da Dio a tutti i popoli. Tali ricchezze devono essere illuminare dalla luce del Vangelo, liberate e ricondotte a Dio Salvatore.20

7.

Paolo VI e la "Evangelii Nuntiandi"

Come appare dal titolo: "Evangelizzazione nel mondo contemporaneo", l'evangelizzazione è l'argomento e il punto di vista specifico del documento che ne presenta l'aspetto complesso e dinamico, non facilmente imprigionabile in una definizione. Perciò Paolo VI la descrive come: trasformazione e rinnovamento evangelico dell'umanità dal suo interno mediante la conversione personale e collettiva delle coscienze; trasformazione e rinnovamento evangelico dei criteri di giudizio, valori dominanti, centri d'interesse e linee di pensiero, degli uomini e delle società; e trasformazione delle culture.21 Le modalità di evangelizzazione indicate sono quattro: la testimonianza come fase o aspetto iniziale, l'annuncio esplicito, l'adesione piena e convinta con l'ingresso visibile nella comunità dei fedeli, l'azione evangelizzante degli evangelizzati.22 La terza parte è dedicata ai contenuti dell'evangelizzazione: la salvezza è Cristo; la salvezza è in Cristo; la salvezza è di Cristo. La quarta parte presenta le vie e mezzi dell'evangelizzazione: testimonianza, annuncio, predicazione, liturgia della parola, catechesi, ricorso ai "mass-media" e al contatto personale. La quinta parte indica i destinatari dell'evangelizzazione. La sesta parte riguarda gli operai dell'evangelizzazione di cui precisa compiti e responsabilità. La settima parte illustra lo spirito dell'evangelizzazione.

8.

Giovanni Paolo II e la "Redemptor Hominis"

La Redemptor Hominis (1979) è l'enciclica programmatica del pontificato di Giovanni Paolo II che, riguardo al dialogo, si ricollega esplicitamente ai temi della Ecclesiam Suam.23 Seguendo la stessa impostazione, il dialogo viene presentato come coefficiente fondamentale per la formazione della coscienza della Chiesa, intesa come autocoscienza delle proprie ricchezze, doni, responsabilità e come consapevolezza dei doveri che ne derivano verso gli altri. Anche qui ritroviamo il riconoscimento della presenza dei semi del Verbo nelle altre religioni e culture e della destinazione delle insondabili ricchezze di Cristo al bene di tutti gli uomini. Infine troviamo pure l'accenno all'azione invisibile dello Spirito Santo nel cuore di ogni uomo e la reiterata affermazione che, nell'incarnazione, il Figlio di Dio si è unito a ogni uomo.24

9.

Il documento "Dialogo e missione"

Il documento del "Segretariato per i non cristiani" intendeva offrire una riflessione e un orientamento sui rapporti intercorrenti fra dialogo e misione. Per la prima volta questo tema è stato trattato in modo così diretto ed esplicito. Nel suo discorso ai membri del "Segretariato" il 3 marzo 1984, Giovanni Paolo II, sottolineò particolarmente i seguenti punti: Il dialogo è fondamentale per la Chiesa. Il suo esercizio mostra nuove vie ed esigenze, mentre l'esperienza indica le molteplici forme che esso può assumere, oltre a quelle già note. Pertanto esso ha assunto, ormai, un'importanza decisiva nel rapporto quotidiano fra i credenti delle diverse tradizioni religiose. Riguarda al tema, allora obbligato, dei suoi rapporti con la missione, il Pontefice notava che il dialogo è parte della missione salvifica della Chiesa per cui è un elemento

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di salvezza e può assumere concrete espressioni diverse, quali la collaborazione, la testimonianza, l'ascolto delle reciproche esperienze spirituali e lo scambio di valori.

9.1. Unico dialogo, espressioni molteplici Il documento, sottolineando l'impulso dato alla chiesa e al concilio dall'enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI, confermava il dialogo come "norma e ideale" della chiesa. In più, sulla base delle numerose esperienze realizzate da allora, ne allargava il concetto in modo significativo. Perciò sottolineava che esso comprende "non solo il colloquio, ma anche l'insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento".25 Pertanto confermava la necessità di un suo ulteriore approfondimento teologico che considerasse, soprattutto, il suo apporto specifico all'evangelizzazione.26

9.2. Allargamento del dialogo e delle sue finalità Nella prima parte, dedicata alla missione, il documento riprendeva la dottrina del Vaticano II, che la missionarietà è espressione normale della fede vissuta da ogni credente e ne proponeva la triplice finalità: 1) evangelizzazione dei popoli e fondazione della Chiesa nei popoli e gruppi in cui non ha ancor messo radici; 2) estensione del Regno e dei suoi valori a tutti gli uomini; 3) impegno in favore della giustizia sociale, della libertà, dei diritti umani e riforma delle strutture sociali ingiuste.27 Paolo VI aveva promosso i contenuti della terza finalità, da semplice preevangelizzazione a vera e propria evangelizzazione, Giovanni Paolo II li dichiarò "elemento essenziale indissolubilmente congiunto con la missione della Chiesa". A questo punto il dialogo con i seguaci delle diverse tradizioni religiose assume una dimensione decisamente nuova e immensamente più ampia. Infatti comprende il camminare insieme verso la verità, collaborando in "opere d'interesse comune" riguardanti tutti gli impegni concreti a servizio delle persone, la promozione sociale, la lotta alla povertà e alle strutture che la provocano, l'impegno per la pace, la libertà, la dignità e i diritti umani. Il documento sottolinea che questi molteplici impegni si ritrovano già nel Nuovo Testamento come responsabilità di tutti i cristani fondata sulla loro fede, sul loro battesimo e sui molteplici doni divini ricevuti. Pertanto questi compiti specifici di ogni credente nella società, devono attuarsi nel dialogo, espressione dell'amore e segno del rispetto della dignità e libertà del prossimo. Questa "disponibilità all'atteggiamento dialogico", così intesa, è il contrassegno specifico di Cristo, della sua Chiesa e di ogni cristiano.28

9.3. Motivazioni teologiche e antropologiche del dialogo La seconda parte del documento sviluppa le motivazioni più profonde del dialogo. La prima, di ordine "antropologico", risiede nell'uomo visto come soggetto bisognoso di comunicare per crescere nella conoscenza della verità, attraverso lo scambio, la verifica e il confronto reciproco con gli altri. La seconda, di ordine "teologico", deriva dalla fede ed è più significativa e fondamentale. Essa evidenzia che l'esigenza di comunione ed interscambio affonda la sua radice nel dinamismo del mistero trinitario, che fa circolare fra tutti gli uomini le ricchezze e i doni del Padre, la parola e la sapienza del Figlio e la forza, la vita e la rigenerazione perenne dello Spirito Santo, per orientare e accompagnare l'umanità nel suo cammino verso la Verità e la pienezza del Regno.29

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9.4. Valori religiosi e culturali e modalità del dialogo Tali ricchezze trinitarie devono essere riconosciute nei valori, ossia nelle cose vere e buone che si trovano, soprattutto, nelle grandi tradizioni religiose dell'umanità:30 cose preziose religiose e umane;31 elementi di verità e di garanzia, semi del Verbo e germi di contemplazione; 32 raggi della verità che illumina tutti gli uomini.33 Questo enorme patrimonio spirituale, disseminato dal Verbo e animato dallo Spirito, costituisce la base di un un continuo e proficuo dialogo.34 Le molteplici esperienze attuate in questi anni hanno messo in luce le molteplici modalità che il dialogo può assumere. La prima, aperta a tutti, è "il dialogo della vita", che consiste in uno spirito e in atteggiamenti che informino tutti i comportamenti abituali e lo stile della vita quotidiana.35 La seconda modalità consiste nel "dialogo delle opere" ovvero nella collaborazione per raggiungere comuni obiettivi umanitari, sociali, economici, politici, la promozione e liberazione umana e la soluzione dei grandi problemi dell'umanità.36 Una terza modalità è il "dialogo degli esperti" che approfondiscono e arricchiscono i rispettivi patrimoni religiosi, per applicarne le risorse alla soluzione dei comuni problemi umani. Esso è particolarmente utile nelle società pluralistiche in cui coesistono tradizioni culturali e religiose diverse, per promuovere la comunione e la fratellanza tra gli uomini e trasformare le culture.37 Una quarta modalità è il "dialogo dell'esperienza religiosa", che si colloca al livello più profondo, rispetto agli altri e consiste nel condividere le reciproche esperienze di preghiera, di contemplazione, d'interiorità, di fede e d'impegno spirituale nel ricercare l'Assoluto.38

9.5. Dialogo e conversione La tematica del dialogo comprende pure un punto alquanto delicato e controverso: la conversione. Il documento rielabora alcuni elementi di Ad Gentes per giungere a una definizione di conversione come: "ritorno del cuore umile e contrito a Dio, con il desiderio di sottomettergli più generosamente la propria vita" che risponde ad esigenze alquanto differenti.39 In primo luogo interpreta i dati evangelici e neotestamentari riguardanti la priorità e necessità della conversione interiore. In secondo luogo tutela il valore, sancito dalla Dignitatis Humanae della libertà di coscienza, come legge suprema del processo di conversione. In terzo luogo sottolinea il primato dello Spirito Santo, "agente principale della conversione", cui solo spetta operare nell'intimo delle coscienze, secondo i tempi, i modi della loro apertura alla fede e la "pazienza di Dio".40 Pertanto mette in forte rilievo che dovunque, in ogni religione, società e cultura, lo Spirito guida il cammino storico dell'umanità verso la pienezza della verità. Perciò assiste la Chiesa nello scoprire i germi di bene e di verità diffusi ovunque illuminandola sul disegno di amore predisposto dal Padre per ogni popolo, cultura e comunità (At 17,26-27). Il dialogo, valorizzando queste infinite ricchezze, collabora al disegno divino e lievita evangelicamente le culture. In questo modo il dialogo diviene "sorgente di speranza e fattore di comunione nella reciproca trasformazione".41 Questo primato e centralità dello Spirito Santo è decisivo per rendere autentico il dialogo. Lo Spirito, misterioso e silenzioso, guida le persone e i popoli sulle vie del dialogo, in piena aderenza alla pazienza e conoscenza dei tempi stabiliti dal Padre. Egli libera da ogni desiderio intempestivo di risultati tangibili, facendo accettare il principio che nessuno può obbligare Dio ad agire più in fretta di quanto ha scelto di fare, per riunire nell'unità i suoi figli dispersi dal peccato (Gv 11,52) e far fruttificare i semi sparsi con lacrime e fiducia (Giac 5,7-8; Mc 4, 26-30).42

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10. La "Redemptoris Missio" Lo specifico punto di vista della Redemptoris Missio è la "missione in senso specifico", per cui tutto il documento è strutturato e sviluppato secondo questa finalità. Tuttavia offre elementi particolarmente utili per la nostra ricerca. L'enciclica prende come fondamenti Cristo, il Regno e lo Spirito Santo, collegando ad essi la Chiesa e la missione. A sua volta collega il dialogo all'evangelizzazione, l'annunzio e la missione.

10.1. Unicità della salvezza in Cristo Il capitolo I, "Gesù Cristo unico Salvatore" sviluppa un punto di particolare importanza per il nostro tema, la necessità di mantenere rigorosamente unite due verità fondamentali per la comprensione del mistero salvifico: la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini, la necessità della Chiesa in ordine alla salvezza.43 Infatti, la salvezza, per essere universale, non può essere limitata esclusivamente a coloro che credono in Cristo in modo esplicito o sono entrati nella Chiesa. Se è destinata a tutti, deve essere concretamente disponibile per tutti. Quindi, quanti di fatto sono impossibilitati a conoscere esplicitamente Cristo, devono incontrare la sua salvezza in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce formalmente in essa. Occorre, tuttavia, che li illumini in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia, proviene da Cristo come frutto del suo sacrificio ed è comunicata nello Spirito Santo, per consentire a ciascuno di giungere alla salvezza collaborando liberamente.44 Questa affermazione esplicita il testo in cui Gaudium et Spes affermava che Cristo è veramente morto per tutti, che la vocazione ultima dell'uomo è una e divina, e che lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di venire in contatto col mistero pasquale, in modi noti soltanto a Dio.45 Tutti questi elementi sono fondamentali per una rinnovata impostazione del dialogo interreligioso.

10.2. Regno e perfezione della salvezza Per quanto riguarda il "Regno di Dio", i contenuti più utili al nostro tema derivano dalla definizione sintetica di "Regno" come "manifestazione e attuazione del disegno di salvezza in tutta la sua pienezza". Ciò significa che la salvezza si compie nel Regno e consiste nel credere e accogliere il mistero del Padre e del suo amore, che si manifesta e si dona in Gesù, mediante lo Spirito. Poiché ognuno è chiamato a "convertirsi" e "credere" in questo amore, tutti gli uomini sono destinati anche al Regno che mira a trasformare tutti i loro rapporti, attuandosi progressivamente nelle persone, nelle società e nelle culture del mondo intero.46 L'impegno per il Regno, dunque, consiste nel riconoscere e favorire il dinamismo divino presente nella storia e nell'impegnarsi per trasformarla, liberando l'umanità da tutte le forme di male (cause ed effetti).47 Riguardo al rapporto che intercorre fra Cristo, il Regno e la Chiesa, il documento fa affermazioni particolarmente significative. Il Regno è già presente nella persona di Gesù, s'identifica con lui, e viene progressivamente instaurato nell'uomo e nel mondo mediante un misterioso legame con lui. La Chiesa, invece, si distingue sia da Cristo che dal Regno, pur restando indissolubilmente unita a entrambi da un vincolo speciale. Cristo ha dotato la Chiesa dei beni e dei mezzi indispensabili al suo specifico ruolo salvifico. Tale ruolo non esclude, tuttavia, che pure Cristo e lo Spirito operino, anche oltre i suoi confini visibili, per attuare tra gli uomini la presenza viva del Regno.48 Di conseguenza la Chiesa rimane sempre al servizio del Regno con una molteplicità d'impegni effettivi e di azioni concrete: l'annunzio che chiama alla conversione; la fondazione di comunità e l'istituzione di chiese particolari da portare alla maturità di fede e di carità; la diffusione dei "valori evangelici" anche come espressioni e dimensioni temporali del Regno; il dialogo, la promozione e liberazione integrale 89

dell'uomo, l'impegno per la dignità la giustizia e la pace, l'educazione, la cura degl'infermi, l'assistenza ai poveri e ai piccoli; l'intercessione orante e contemplativa.49

10.3. Spirito Santo e salvezza Il capitolo III, "Lo Spirito santo protagonista della missione", muove da alcune frasi dell'enciclica Dominum et Vivificantem e presenta lo Spirito Santo, misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo, come il protagonista trascendente della salvezza. Egli opera nell'uomo e nella storia del mondo, in ogni tempo e luogo e con una sorprendente vastità e varietà d'influssi.50 Lo Spirito sta all'origine della domanda esistenziale e religiosa che nasce dalla struttura stessa dell'uomo. Egli interviene in tutti gli ideali più nobili e nelle iniziative di bene dell'umanità in cammino. Suscita il desiderio del mondo futuro. Ispira, fortifica e purifica tutti i propositi con i quali la famiglia umana cerca di rendere più umana la propria vita. Sparge i semi del Verbo nelle religioni e nelle culture, preparandole a maturare in Cristo. Suscita in tutte le persone e i popoli l'attesa di conoscere la verità su Dio e sull'uomo. Anima ogni sforzo di liberazione dal peccato e dalla morte. Perciò, oguno di questi sintomi, ovunque emerga o traspaia, va accolto con stima e gratitudine.51

10.4. Il dialogo interreligioso Il dialogo interreligioso viene presentato come espressione specifica della missione evangelizzatrice della Chiesa, come mezzo di conoscenza e come metodo di arricchimento reciproco. Quindi, non appare ancora del tutto superata una certa motivazione strumentale di esso. Questo aspetto viene ulteriormente rafforzato dal confronto con l'annuncio. Si tratta di due "modi di evangelizzazione" uniti da un intimo legame e tuttavia distinti. Si risconosce, tuttavia, che il dialogo ha motivazioni, esigenze e dignità proprie, che nascono dal profondo rispetto per tutto ciò che il Verbo e lo Spirito operano nell'uomo. Perciò è volto a scoprire i germi del Verbo e i raggi di verità presenti nelle persone e nelle tradizioni religiose dell'umanità. Si fonda sulla speranza e la carità, per cui esige interlocutori coerenti con le proprie tradizioni religiose e aperti a comprendere le altrui convinzioni per procedere insieme a una maggiore purificazione spirituale e conversione interiore.52 Esso non si limita a un puro confronto di concetti e di credenze, ma si esplica nell'impegno nei più diversi campi, assumendo molteplici forme ed espressioni: scambi tra esperti o rappresentanti ufficiali, collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguadia dei valori religiosi, comunicazione delle rispettive esperienze spirituali, testimonianza e aiuto a vivere i propri valori umani e spirituali ed edificare una società più giusta e fraterna. Esige esempio e azione, ricerca e studio e, in molte circostanze. può costituire l'unica maniera di rendere sincera testimionianza a Cristo e generoso servizio all'uomo, rimanendo sempre una via verso il Regno anche quando sembra non ottenere alcuna accoglienza o risposta.53 I suoi effetti, perciò, sono comunque importanti, nella situazione odierna che segna ovunque nel mondo, anche se fra molte incertezze e contraddizioni, un progressivo avvicinamento e una convergenza dei popoli verso gl'ideali del Regno e verso valori evangelici quali: il rifiuto della violenza e della guerra; il rispetto della persona umana e dei suoi diritti; il desiderio di libertà, giustizia e fraternità; la tendenza al superamento dei razzismi e dei nazionalismi; l'affermazione della dignità e del valore della donna.54

90

11. Sintesi conclusiva Questo capitolo ha mostrato come gli anni intercorsi dalla Ecclesiam Suam(1964) alla Redemptoris Missio (1990), che apportarono numerose esperienze di dialogo interreligioso e numerosi documenti ecclesiali al riguardo, abbiano segnato pure un notevole arricchimento di prospettve e approfondimento dottrinale del dialogo. Tale crescita, tuttavia, appare ancora troppo imprigionata in contesti angusti, che non ne lasciano emergere le grandi potenzialità. D'altra parte, anche le scienze della religione sembrano trovarsi in una situazione analoga, che soffoca le più promettenti potenzialità del loro patrimonio di acquisizioni e di idee. Riteniamo necessario sbloccare questa situazione di "stallo". Ciò è possibile ponendo a serio confronto i due diversi "insiemi", per fare affiorare le virtualità implicite nei loro contenuti. Tuttavia, le ricchezze emergenti dall'analisi delle scienze della religione, per poter essere adeguatamente valorizzate, esigono, oltre al decisivo salto di qualità della riflessione teologica sul dialogo (dialogica teologica), un altrettanto decisivo allargamento degli orizzonti del dialogo interreligioso. Poiché alcuni spunti al riguardo sembrano trovarsi nel documento Dialogo e Annuncio (1991), lo analizzeremo nel prossimo capitolo per passare, infine, ad enucleare gli elementi di una "teologica dialogica delle religioni", come "teologia del dialogo interreligioso". 1

Essi riguardano i seguenti documenti: l'enciclica "Ecclesiam Suam" (1964) di Paolo VI; i documenti conciliari "Lumen Gentium" (1964), "Gaudium et Spes", "Nostra Aetate", "Dignitatis Humanae", "Ad Gentes" (tutti del 1965); la costituzione apostolica "Evangelii Nuntiandi" (1975) di Paolo VI; l'enciclica "Redemptor Hominis" (1979) di Giovanni Paolo II; il documento "L'atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni ed orientamenti su dialogo e missione" (1984) del "Secretariatus pro non christianis"; l'enciclica "Redemptoris Missio" (1990) di Giovanni Paolo II; il documento "Dialogo e annuncio". Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l'annuncio del Vangelo di Cristo" (1991) del "Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso" e della "Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli". 2

Ecclesiam Suam, 60-61.

3

Ecclesiam Suam, 64, 65, 66, 67.

4

Ecclesiam Suam, 70.

5

Ecclesiam Suam, 83-85.

6

Ecclesiam Suam, 86-87, 88.

7

Ecclesiam Suam, 89-92.

8

Ecclesiam Suam, 99.

9

Ecclesiam Suam, 101.

10

Ecclesiam Suam, 102-104, 110.

11

Ecclesiam Suam, 108.

12

Ecclesiam Suam, 111-112.

13

Ecclesiam Suam, 113-120.

14

Lumen Gentium, 13-17.

15

Gaudium et Spes, 2, 3, 19.

16

Gaudium et Spes, 40, 43, 56.

17

Nostra Aetate, 1-2, 4-5.

18

Dignitatis Humanae, 3.

91

19

Ad Gentes, 9.

20

Ad Gentes, 11.

21

Evangelii Nuntiandi, 18-20; Il concetto di cultura si rferisce a Gaudium et Spes, 53.

22

Evangelii Nuntiandi, 21-24.

23

Redemptor Hominis, 4.

24

Redemptor Hominis, 12-13, 18.

25

Dialogo e missione, 3.

26

Dialogo e missione, 5, 6.

27

Dialogo e missione, 10-12.

28

Dialogo e missione, 14-17.

29

Dialogo e missione, 22-25.

30

Optatam Totius, 16.

31

Gaudium et Spes, 92.

32

Ad Gentes, 9, 11, 15, 18.

33

Nostra Aetate, 2.

34

Nostra Aetate, 2, 3; Ad Gentes, 11.

35

Dialogo e missione, 29, 30.

36

Dialogo e missione, 31, 32.

37

Dialogo e missione, 33-34.

38

Dialogo e missione, 35.

39

Dialogo e missione, 37; cf. Ad Gentes, 13. A questo aspetto si addice assai bene quanto abbiamo sviluppato nel capitolo precedente a proposito della "valorizzazione della condizione iniziale". 40 41

Dialogo e missione, 38-39, 44; cf. Dignitatis Humanae, 3. Dialogo e missione, 41, 43.

42

Dialogo e missione, 43-44.

43

Redemptoris Missio, 9.

44

Redemptoris Missio, 10.

45

Gaudium et Spes, 22.

46

Redemptoris Missio, 12-13, 15.

47

Redemptoris Missio, 14-15.

48

Redemptoris Missio, 18-19.

49

Redemptoris Missio, 20.

50

Redemptoris Missio, 21, 29.

51

Redemptoris Missio, 28-29, 45.

52

Redemptoris Missio, 56.

53

Redemptoris Missio, 57.

54

Redemptoris Missio, 86.

92

10. "DIALOGO E ANNUNCIO": ULTERIORI SVILUPPI 1.

Cenni Introduttivi

In questo capitolo approfondiamo il tema specifico del dialogo interreligioso, basandoci sull'analisi del documento Dialogo e annuncio (1991), preparato dal "Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso" e la "Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli" per il venticinquesimo del documento conciliare Nostra Aetate.1 Esso considera i rapporti fra il dialogo interreligioso e l'annuncio evangelico, sviluppando ulteriormente i contenuti di Dialogo e missione (1984) e completando quelli della Redemptoris Missio (1990). Le ragioni che hanno portato a Dialogo e Annuncio ne spiegano l'importanza e il valore. La prima è la crescente vitalità delle religioni nell'ispirare la vita e orientare la cultura di miliardi di persone, in un mondo sempre più improntato al pluralismo religioso. La seconda è il crescente sviluppo del dialogo interreligioso della chiesa, in modi nuovi ed espressioni originali e diverse, che richiedono riflessione teologica sempre più approfondita e adeguati orientamenti. La terza ragione è che, per la sua diffusione e complessità, esso provoca pure atteggiamenti contrastanti, che vanno dalla sopravvalutazione alla negazione e solleva importanti interrogativi dottrinali, riguardo alla salvezza e al destino degli uomini, al ruolo delle religioni e della chiesa, ecc., che esigono adeguata risposta. Possiamo ricavarne, quindi, spunti di notevole rilievo.

2.

Chiarificazione dei termini e concetti

In Dialogo e Annuncio, il concetto-base del dialogo è lo stesso di Dialogo e missione, ossia: "l'insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi, per una mutua conoscenza e un reciproco arrricchimento nell'obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà".2 Vi appaiono, tuttavia, alcune sottolineature interessanti per specificare lo spirito del dialogo. Esse riguardano la "comunicazione reciproca", la "comunione interpersonale" e "l'atteggiamento rispettoso e amichevole".3 L'annuncio, sia nella forma pubblica e solenne, che nelle semplici conversazioni private, è definito "comunicazione del messaggio evangelico" che consiste nel "mistero di salvezza realizzato da Dio per tutti in Gesù Cristo, con la potenza dello Spirito".4 La conversione è definita in due modi. Il primo, preso da Dialogo e missione, la indica come "ritorno del cuore umile e contrito a Dio, con il desiderio di sottomettergli più generosamente la propria vita". Il secondo, più specifico, la presenta come "cambiamento di adesione religiosa e più in particolare l'abbracciare la fede cristiana".5 I termini "religioni" e "tradizioni religiose" indicano le religioni che si riferiscono alla fede di Abramo (ebraismo, cristianesimo, islam) e le grandi tradizioni religiose di Asia, Africa e resto del mondo. I nuovi movimenti religiosi non vengono considerati.

3.

Fondamenti del dialogo interreligioso

Nella parte dedicata al dialogo interreligioso, il documento riassume la posizione del Concilio Vaticano II sulle religioni: la salvezza è offerta a tutte le persone di buona volontà; vi sono semi di verità e germi del Verbo presenti nelle persone, nei riti e nelle culture dei vari popoli; l'azione dello Spirito era svolta nel mondo ancor prima della

glorificazione di Cristo; l'attività missionaria della chiesa è necessaria a perfezionare quanto vi è di positivo delle varie religioni.6 Successivamente presenta alcune elementi dottrinali espressi dalle testimonianze bibliche riguardanti: l'alleanza di Dio con tutti i popoli; l'esistenza di un'unica storia della salvezza per tutta l'umanità; l'estendersi della salvezza divina, oltre e attraverso Israele, a tutte le nazioni per penetrare la loro storia e raggiungere gli individui; l'apertura, attuata da Gesù, di un nuovo orizzonte universale cristologico e pneumatologico; l'irruzione nel mondo, mediante la persona di Gesù, del Regno storico ed escatologico; la chiamata al Regno dei gentili; la piena rivelazione della salvezza a tutti e il compimento dei desideri e delle attese delle nazioni, mediante la persona di Cristo. Infine collega il giudizio negativo della lettera ai Romani 1,18-32, su coloro che non hanno conosciuto Dio, con quelli positivi verso i gentili espressi a Licaonia (At 14,818) e ad Atene (At 17,22-34), per interpretarli in chiave complementare ed attenuarne l'apparente contrasto.7 Riprende poi la successiva riflessione patristica di cui mette in rilievo il pensiero che Dio si è manifestato, seppure in modo incompleto, anche prima e al di fuori dell'economia cristiana e che la storia umana è divenuta storia della salvezza nella misura in cui Dio si è manifestato e comunicato, in essa, all'umanità. si tratta di un "teologia della storia" culminata nel pensiero maturo di S. Agostino, per il quale il mistero di Cristo era universalmente presente e operante già prima dell'incarnazione.8

4.

Il "mistero dell'unità"

Il documento ricorda che quest'antica visione cristiana della storia è ripresa da Giovanni Paolo II, che sottolinea come lo Spirito Santo operi in tutto il mondo, oltre i confini visibili del Corpo Mistico 9 e il corpo visibile della Chiesa.10 Questa azione avviene a due livelli. Nel primo, individuale, lo Spirito opera misteriosamente nel cuore delle persone, cristiani e non cristiani, suscitandovi ogni preghiera autentica. Nel secondo, strutturale, lo Spirito compie il "mistero dell'unità di tutta la famiglia umana". Questa seconda azione costituisce la base teologica per l'approccio positivo alle tradizioni religiose e alla pratica del dialogo interreligioso che il documento sviluppa dettagliatamente. Il "mistero dell'unità" si articola nei tre punti seguenti. L'umanità costituisce una famiglia unica avendo in comune le stesse origini e lo stesso destino. Cristo, centro del piano salvifico, mediante l'incarnazione, si è unito a ogni uomo. Lo Spirito Santo è presente e attivo nella vita religiosa dei membri delle varie religioni.11 Da questo mistero derivano le seguenti conseguenze. Tutti i "salvati" partecipano, anche se in modi differenti, in Cristo e per mezzo del suo Spirito, allo stesso mistero di salvezza. I cristiani, mediante la fede, sono consapevoli che Cristo è la fonte della loro salvezza. Gli "altri", che ne sono ignari, sono raggiunti dalla salvezza per vie conosciute solo a Dio, mediante l'azione invisibile dello Spirito. Quindi, pur non potendo riconoscere esplicitamente Cristo come loro Salvatore, ricevono egualmente la salvezza in Lui, praticando ciò che è buono nelle loro tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza.12

5.

Il problema del discernimento

Il problema maggiore, a questo proposito, è il discernimento dei frutti dello Spirito Santo, non tanto riguardo alle persone ma riguardo alle tradizioni religiose delle quali occorre identificare gli elementi di grazia, che possano sostenere la risposta positiva dei

loro seguaci alla chiamata di Dio. Per tale discernimento occorrono criteri chiari e sicuri.13 Il fatto che esse contengano "elementi di grazia" non significa che in esse "tutto" sia frutto della grazia. Perciò, un atteggiamento aperto e positivo verso di loro non esclude l'attenzione alle loro possibili "contraddizioni" o anche alle "incompatibilità" con elementi essenziali della rivelazione cristiana.14 Il dialogo esige, al riguardo, di formulare interrogativi specifici e di mettere e lasciarsi mettere in discussione, in spirito di pace, per purificare i propri modi di comprendere e di vivere le proprie esigenze religiose.15

6.

Chiesa, Regno, conversione

Particolare attenzione viene data al misterioso e complesso rapporto tra chiesa e Regno. Come abbiamo visto, il Regno si manifesta nella persona stessa di Cristo, che la chiesa deve annunciare. La chiesa, quindi è già germe e inizio del Regno sulla terra, da cui è inseparabile.16 La Chiesa, per far crescere il Regno, deve poter riconoscere l'emergere iniziale delle sue realtà oltre i suoi confini. Riguardo alle persone, tali realtà emergono in coloro che vivono i valori evangelici e si aprono all'azione dello Spirito. La validità di queste realtà iniziali risede nel loro essere ordinate al Regno, già presente nella chiesa ma realizzato pienamente solo nel mondo a venire.17 I limiti umani pongono la chiesa in continuo pellegrinaggio, mentre la parte storica e terrena della sua istituzione la rende bisognosa di rinnovamento e conversione continua. Inoltre deve progredire continuamente nella comprensione delle realtà e delle parole affidatele sotto la guida dello Spirito Santo per continuare con tutta l'umanità quel "dialogo della salvezza" che Dio da sempre le offre.18 Questo "dialogo della salvezza", quindi, fa del dialogo interreligioso non solo uno strumento di reciproca comprensione o d'instaurazione di rapporti amchevoli, ma un evento molto più profondo, che raggiunge il livello dello spirito. A questo livello, scambio e condivisione avvengono nella mutua testimonianza del proprio credo e nella comune scoperta delle rispettive convinzioni religiose. Approfondendo il proprio impegno religioso, si perviene a rispondere, con crescente sincerità e dedizione, all'appello di Dio e al suo dono gratuito di sé.19 Il valore specifico del dialogo risiede già in questa conversione più profonda a Dio, anche se non si esclude che, nel processo di conversione, possa nascere la decisione di lasciare una precedente situazione spirituale o religiosa per un'altra. Pertanto si devono accettare reciprocamente le differenze e le contraddizioni e rispettare le libere decisioni, prese in conformità alla propria coscienza.20

7.

Multiformità del dialogo

Dialogo e Annuncio ripropone le forme di dialogo già elencate in Dialogo e missione: vita di buon vicinato, opere in collaborazione, scambi teologici tra esperti, condivisione di esperienze religiose, impegno per risolvere problemi importanti e specifici quali: lo sviluppo integrale, la giustizia sociale, la liberazione umana, la pace, i diritti umani e i maggiori problemi della società e del mondo. Queste forme si completano e arricchiscono a vicenda consentedo a ciascuno di parteciparvi secondo le proprie capacità e possibilità.21

8.

Il "contesto" della cultura

I rapporti, complessi e problematici, fra religione e cultura sono visti nella prospettiva antropologica che concepisce la religione come dimensione trascendente,

come anima della cultura e come forza di progresso e di edificazione. Il documento ricorda, tuttavia, anche gli aspetti alienanti di certe pratiche religiose e quelli aspetti negativi di alcune religioni, messi in luce dalle scienze delle religioni e dalla cultura secolarizzata. Nel rapporto fra religione e culture occorre distinguere una duplice problematica. Una riguarda il rapporto fra religioni e culture, l'altra riguarda il rapporto fra messaggio cristiano e valori culturali. Nel primo caso, possiamo avere diverse forme di relazioni: più religioni coesistono in un'unica cornice culturale; una religione deve esprimersi in contesti culturali differenti; religioni diverse conducono a più culture diverse nella stessa regione. Nel secondo caso si danno varie possibilità: i valori evangelici sostengono i tradizionali valori, oppure li mettono in questione. A loro volta, i valori delle altre tradizioni culturali o religiose possono sostenere o mettere in discussione i valori evangelici. Inoltre ciascuna situazione del primo caso può combinarsi con quelle del secondo caso, dando adito ad una grande varietà di situazioni. In questi intreccio così complesso di rapporti, il dialogo interreligioso riveste grande importanza per eliminare tensioni e conflitti, favorire una migliore comprensione reciproca, trasformare le culture purificandole dai loro elementi disumanizzanti e promuovere i valori culturali tradizionali minacciati dalla modernità e da una internazionalizzazione indiscriminata.22 Il dialogo interreligioso può essere utile pure al dialogo interculturale e giovarsi dei suoi apporti.

9.

Condizioni per un dialogo fruttuoso

Per Dialogo e Annuncio la prima condizione per un dialogo fruttuoso è l'atteggiamento equilibrato degli interlocutori, che li rende aperti, accoglienti e liberi dagli eccessi dell'ingenuità e dell'ipercritica. Esso dovrebbe pure renderli imparziali, disinteressati e dapaci di accettare le differenze e i contrasti. Oltre a questo equilibrio umano e psicologico, quello spirituale e "teologale" rende docili al servizio della verità e pronti a lasciarsene trasformare.23 La sincerità del dialogo si fonda sull'integrità della propria fede. Per i cristiani, essa proclama che gli uomini hanno ricevuto la pienezza della rivelazione in Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e l'uomo, e che anche i loro interlocutori, in qualche modo, ne hanno ricevuto da Dio qualche manifestazione. Ciò consente di considerare anche le altrui convinzioni e valori con molta apertura e fiducia.24 In questo contesto va precisato che cosa intendere con il termine "verità". Innanzitutto la pienezza di verità ricevuta in Cristo non significa una sua piena assimilazione da parte dei singoli cristiani. Ancor meno significa una "cosa posseduta". La verità è una "Persona" da cui dobbiamo "lasciarci possedere", in un crescendo che non ha fine. Perciò tutti sono in cammino verso questa verità e devono essere disposti a ricevere i valori positivi delle diverse tradizioni religiose, superando pregiudizi e preconcetti e purificando sempre la propria fede.25 Gli interlocutori del dialogo, coltivando tale apertura e accettando di essere messi alla prova, pssono scoprire le meraviglie che Dio compie a beneficio dell'umanità intera, mediante Cristo e il suo Spirito. Ciò renderà più profonda la loro fede e aumenterà la consapevolezza del messaggio cristiano e della propria identità. Nello scoprire come il Mistero di Cristo operi nei non cristiani e oltre i confini visibili della Chiesa, la stessa fede cristiana potrà acquistare nuove dimensioni, più ampie e più prfonde.26

10. Ostacoli e difficoltà del dialogo Anche il dialogo, come ogni altro impegno umano e cristiano, comporta difficoltà di divero tipo, che occorre conoscere per meglio prevenire o correggere. Alcune sono prevalentemente ambientali o strutturali, altre sono di tipo più personale o individuale. Tuttavia tale distinzione non può essere troppo netta.

10.1. Ostacoli ambientali e strutturali Le difficoltà esterne derivano dal materialismo, l'indifferenza religiosa, il moltiplicarsi di sette, ecc. Altre nascono da un'interpretazione difettosa del dialogo e dei suoi fini, condizionata da differenze culturali; fattori socio-politici, incomprensioni del passato; comprensione erronea di realtà quali la conversione, il dialogo, ecc. Da ciò deriva insufficiente apertura; atteggiamenti difensivi, aggressivi o autosufficienti; sfiducia nel valore del dialogo; sospetto verso gli interlocutori o le loro motivazioni; spirito polemico e intolleranza. Si ripercuotono pure sugli atteggiamenti personali creando "limiti" quali: fede poco radicata; insufficiente conoscenza e comprensione delle altre religioni; Ocorre, perciò, chiarirne bene la gerarchia delle finalità, che non pone in primo luogo né il succcesso, nè la comprensione, nè l'arricchimento reciproci. Il fine primario può essere solo di ordine teologale e salvifico e consiste nella continuazione dell'iniziativa salvifica del dialogo divino, con tutta l'umanità, proseguendo l'esempio di Cristo dialogante con tutti.27 Ne consegue il dovere della chiesa di condividere con tutti, nei migliori modi possibili, i valori evangelici e i doni di grazia che ha ricevuto. Il perseguimento incessante di queste finalità costituisce già il risultato del dialogo. Le conseguenze visibili, come per ogni altro impegno della chiesa, contano assai meno. Pertanto, il documento sottolinea che i risultati, il dialogo li contiene in se stesso. La chiesa, quindi, considera il suo impegno dialogico fermo e irreversibile.28

10.2. Difficoltà personali e individuali I molteplici ostacoli e le difficoltà prevalentemente personali e interne derivano maggiormente dai credenti e dagli interlocutori. Fra queste vediamo: la discrepanza fra le parole e le azioni e fra il messaggio e la vita dei cristiani; la trascuratezza derivante da negligenza, paura e vergogna o da idee errate nei confronti del piano di salvezza; la mancanza di apprezzamento e di rispetto per gli altri credenti e le loro tradizioni religiose; gli atteggiamenti di superiorità, di eccessivo apprezzamento della propria cultura e di volontà d'imporla. Altri atteggiamenti personali possono essere maggiormente condizionati dalla propria cultura o religione, come il timore che essi possano venire distrutti o intaccati. Influiscono pure negativamente il mancato rispetto dei diritti umani o una loro diversa concezione; la mancanza di libertà religiosa; le persecuzioni; l'intolleranza che consegue all'identificazione della religione con la cultura nazionale o il proprio sistema politico; la proibizione o l'apposizione di seri ostacoli alla conversione; l' indifferentismo, il relativismo, il sincretismo religioso.29

11. L'annunzio Dopo aver chiarito tutti questi elementi, il documento si preoccupa di fissare le relazioni che intercorrono fra il dialogo e l'annuncio. L'annuncio è la proclamazione, da parte della Chiesa a tutta l'umanità, della buona novella del Regno, attuata da Gesù con le sue parole, azioni, atteggiamenti e scelte e con la sua vita, morte e risurrezione, che costituiscono e confermano il suo insegnamento.

Anche l'annuncio sottolinea la portata universale dell'opera dello Spirito Santo. Nel contesto della Pentecoste egli opera sugli apostoli (At 2,5; 2,36; 4, 11-12; 10, 44-45). Paolo riassume l'annunzio in queste parole: "annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo e far risplendere agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto dai secoli nella mente di Dio" (Ef 3, 8-9). Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2 4). Nell'annunziare il messaggio la chiesa sa di poter contare sullo Spirito Santo che ispira il suo annunzio e conduce gli ascoltatori ad accoglierlo nella fede. La testimonianza dello Spirito, che conduce a riconoscere Gesù come Signore, non è opera umana ma divina, perciò l'annuncio del messaggio evangelico è un obbligo assoluto cui la chiesa non può sotttrarsi. Esso è un seme che cade in un terreno predisposto ad accoglierlo dallo Spirito Santo presente negli ascoltatori assai prima che essi siano raggiunti dall'annuncio della chiesa. Infatti lo Spirito agisce liberamente, precede gli Apostoli, li guida, li orienta e li indirizza.30 L'annuncio deve possedere le stesse qualità che rendono possibile e fruttuoso il dialogo. Deve essere: progressivo e paziente, tenendo il passo degli uditori e rispettandone la libertà e la lentezza nel credere; fiducioso nella potenza dello Spirito; fedele nel trasmettere l'insegnamento ricevuto; umile nel riconoscersi dono superiore alle nostre forze; rispettoso dell'azione dello Spirito nei cuori, dialogante con un unterlocutore che non è mai un soggetto passivo; inculturato cioè incarnato nella cultura e nelle tradizioni spirituali degli uditori e rispondente alle loro più profonde aspirazioni. Tutte queste qualità le potrà attingere dal "dialogo costante" col Signore e Maestro, nella liturgia, nella preghiera, nella penitenza, nella meditazione e contemplazione.31

12. Sensibilità e attenzione L'azione della chiesa esige anche una sensibilità sempre viva verso gli aspetti sociali, culturali, religiosi e politici. Essa si sviluppa attraverso la spiritualità del dialogo, che comporta discernimento interiore, riflessione teologica sul significato delle varie tradizioni religiose nel disegno di Dio e condivisione dell'esperienza spirituale dei credenti. Perciò il dialogo interreligioso deve svolgere pure un ruolo profetico, testimoniando e promuovendo i valori evangelici, di modo che tutti gli interlocutori si ritrovino su un cammino comune di reciproca crescita. Per questo motivo la chiesa deve incoraggiare non solo il suo dialogo interreligioso con le altre religioni, ma anche quello di tutte le varie religioni fra loro, affinché anche queste, incontrandosi, purificandosi e collaborando, possano promuovere la loro reciproca crescita nei valori del Regno la verità, quali la vita, la santità, la giustizia, l'amore e la pace. In questo modo il dialogo interreligioso si conferma vera espressione del dialogo di salvezza iniziato da Dio con tutta l'umanità.32 I cristiani impegnati nel dialogo devono, quindi, saper rispondere a chiunque sui contenuti della loro fede e della loro speranza per render testimonianza e condividere amorosamente la loro gioia di conoscere e seguire il Cristo.33 Poiché lo Spirito stesso guida la chiesa, dobbiamo essere pronti ad andare dove egli ci conduce a testimoniare e condividere i valori evangelici. In questo spirito, chiesa e cristiani proseguono l'annuncio e il dialogo interreligioso, non solo per imitare Cristo ma per essere intimamente uniti a lui, nella sua oblazione a favore di tutta l'umanità per la salvezza del mondo intero.34 Il dialogo "personalizzato" esige un'attenzione speciale verso ogni seguace di ciascuna religione, rispettandone il carattere, i problemi personali, le esigenze derivanti

dalla sua formazione, area geografica e contesto socio-culturale, perciò oltre che impegno, è dono e grazia da chiedere con intensa e fiduciosa preghiera.35

13. Riflessioni conclusive L'analisi del documento Dialogo e Annuncio ne evidenzia il carattere di riflessione organica e aggiornata sul dialogo interreligioso e sui suoi principali elementi, cui conferisce vastità e apertura notevoli. Costituisce, perciò, una base solida e autorevole per gli ulteriori sviluppi proposti nella nostra tesi: a) la valorizzazione del grande apporto delle scienze delle religioni alle tematiche delle religioni e alle esigenze del dialogo; b) l'elaborazione di una teologia sistematica del dialogo interreligioso, adeguata agli sviluppi analizzati nei vari capitoli. Si tratta, pertanto, di esplicitare questi due punti in senso specifico. I problemi che ne conseguono saranno esaminati nei due prossimi capitoli. 1

Sui rapporti tra la Chiesa e le altre religioni.

2

Dialogo e missione, 3.

3

Dialogo e Annuncio, 9.

4

Dialogo e Annuncio, 10.

5

Dialogo e Annuncio, 11.

6

Dialogo e Annuncio, 14-18.

7

Dialogo e Annuncio, 19-23.

8

Dialogo e Annuncio, 24-25.

9

Cf. Redemptor Hominis n. 6.

10

Dialogo e Annuncio, 26; cf. Dominum et vivificantem, 53.

11

Dialogo e Annuncio, 27-28.

12

Dialogo e Annuncio, 29.

13

Dialogo e Annuncio, 30.

14

Dialogo e Annuncio, 31.

15

Dialogo e Annuncio, 32.

16

Dialogo e Annuncio, 34.

17

Dialogo e Annuncio, 35.

18

Dialogo e Annuncio, 36, 38.

19

Dialogo e Annuncio, 40.

20

Dialogo e Annuncio, 41.

21

Dialogo e Annuncio, 42-44.

22

Dialogo e Annuncio, 46.

23

Dialogo e Annuncio, 47.

24

Dialogo e Annuncio, 48.

25

Dialogo e Annuncio, 49.

26

Dialogo e Annuncio, 50.

27

Dialogo e Annuncio, 53.

28

Dialogo e Annuncio, 54.

29

Dialogo e Annuncio, 74.

30

Dialogo e Annuncio, 64-68.

31

Dialogo e Annuncio, 69-71.

32

Dialogo e Annuncio, 78-80.

33

Dialogo e Annuncio, 82-83.

34

Dialogo e Annuncio, 84-86.

35

Dialogo e Annuncio, 87-88.

11. TEOLOGIA E RELIGIONI: BREVE PANORAMA STORICO 1.

Cenni introduttivi

Lo studio dei documenti magisteriali ed ecclesiali ha messo in luce il costante sviluppo del dialogo ecclesiale (prassi, concetto e comprensione) lungo una "linea dinamica" di aperture crescenti tuttora in espansione. In questo capitolo cercheremo di cogliere, sia pur a larghissimi tratti, o le linee dinamiche che si dipanano in mezzo a diversi orientamenti di pensiero e di azione, in un arco di alcuni millenni e in uno spazio geo-culturale sempre più ampio. Ovviamente, in poche pagine potremo esporre solo qualche punto saliente, senza pretendere completezza o rappresentatività. Intendiamo solo osservare come, in epoche e luoghi così diversi, i credenti, spinti da una seria coerenza di fede, abbiano sviluppato approcci e valutazioni delle religioni, valorizzando i più svariati strumenti che le culture e i tempi ponevano a loro disposizione. Speriamo che la loro testimonianza ci ispiri a valorizzare, nello stesso spirito, i "doni mirabili" della nostra epoca e i "talenti" della nostra cultura. Se essa si distingue per le scienze e per il dialogo, dovremo cercare come valorizzare dialogicamente le grandi acquisizioni e gli insostituibili apporti delle scienze. In questo caso, quelle della religione.

2.

Le religioni e la Scrittura

Data la vastità inesauribile della Scrittura non intendiamo entrare in dettagli, ma identificare soltanto alcune linee enerali, del molteplice e complesso pensiero biblico. Si tratterà solo di qualche esempio ed assaggio. Le religioni della Bibbia non corrispondono agli attuali sistemi religiosi, ma alle religioni dei tempi biblici, riguardo alle quali i vari libri presentano molteplici piste di pensiero che si muovono in diverse direzioni. Pertanto, vi troviamo critiche severi e posizioni benevole, aperte e positive. Esse appaiono fin dalle pagine più antiche della Scrittura, che presentano il popolo di Dio come persone che conoscono gli dèi delle nazioni e dei popoli, ma sono consapevoli del loro rapporto unico con il loro Dio, che li ama e che, a motivo dell'alleanza, è pure un Dio geloso (Dt 5,9). Nei libri sapienziali, la riflessione sulla storia religiosa allarga i suoi orizzonti. La salvezza sembra attuarsi nell'incontro personale con la Sapienza, presente in modo speciale in Israele, ma anche, in modi diversi e misteriosi, nei vari popoli e nazioni. S'intensifica, così, la duplice tendenza del pensiero biblico. Inoltre a questa impostazione sapienziale, se ne aggiunge pure una, in parte sapienziale ma soprattutto profetica, che presenta gli dèi dei popoli come idoli opposti alla fede nell'unico vero Dio.1

2.1. Antico Testamento: la critica I testi critici tendono a paragonare o a identificare le religioni con l'idolatria, evidenziandone il contrasto e l'opposizione con la fede biblica. L'adesione alle religioni idolatriche esprime la forma peggiore di peccato, come rottura dell'Alleanza con Jahvé (Sal 106, 18-20, 35-39). In questi passi la Scrittura presenta la storia del popolo eletto, come "distacco" dagli idoli e dagli altri dèi, per servire solamente l'unico vero Dio.2 Distacco che non avvenne una volta per tutte, ma richiese uno sforzo continuo dalle alterne vicende,3 tanto che l'idolatria tentò, più volte, d'insinuarsi anche all'interno del più puro jahvismo.4 Al

tempo del Maccabei, aderire ad un umanesimo pagano, che si opponeva ai valori biblici, veniva considerato una forma d'idolatria, di fronte alla quale la scelta era il martirio.5 Da un punto di vista dottrinale, nel libro della Sapienza, l'idolatria consisteva nell'adorare le creature o le forze naturali, anziché il loro Creatore. Tale atteggiamento provocava frutti di morte, portando ad abbandonare Colui che solo è vita e datore di vita. Il pervertimento consisteva pure, nel divinizzare defunti e persone famose (Sap 13, 1-10; 14,12-21).

2.2. Antico Testamento: apertura e benevolenza Nell'approccio sapienziale alle religioni, accanto alla linea critica, la Scrittura presenta pure un'altra linea di pensiero. In essa non sembrano interessare i sistemi religiosi come tali, ma le idee e gli atteggiamenti delle persone e le situazioni che ne derivano. In altri termini, la Scrittura non assolutizza i sistemi, ma, al contrario, privilegia le persone come criterio di lettura di essi.6 Perciò, non vi troviamo discorsi espliciti o riflessioni teoriche, né concetti astratti di religione. Gli elementi del discorso appaiono disseminati e quasi dispersi in un'ampia riflessione, tra molteplici considerazioni sull'uomo e sul mondo. Esse riguardano persone che vivono concretamente la loro fede, in mezzo a popoli non credenti, in un mondo pieno di altri discorsi su Dio e di altre religioni.7 Come abbiamo visto, di fronte a queste religioni la Bibbia esprime un rifiuto totale degli idoli e un'opposizione netta all'idolatria,8 perché gli idoli sono prodotti umani e i culti pagani un pericolo di contaminazione.9 Tuttavia, i testi che condannano l'idolatria stabiliscono dei principi, ma non indicano la prassi concreta da seguire. Questa si desume in altri modi. Infatti, la Bibbia sa che la vita, intessuta di incontri e scambi, non può svolgersi rifiutando i rapporti con gli altri. Pertanto, Israele non disse mai no agli interscambi, accettando una dialettica di andate e venute verso gli altri, nelle quali proponeva la sua fede alle persone, senza mirare alle istituzioni e ai sistemi, ma evitando ogni sincretismo ed eclettismo e mantenendo intatta la propria specificità.10 Queste linee di condotta appaiono estremamente significative per il dialogo interreligioso di oggi, per cui ne analizzeremo due esempi.

2.2.1. Il libro di Rut Il libro di Rut che offre significative indicazioni, presenta la storia di una donna pagana introdotta nella comunità giudaica. Gli esegeti, leggendo il testo in questa prospettiva, indicano l'essenziale del libro nella stupenda riuscita dell'incontro (dialogo?) fra le due donne. Noemi, ebrea, fa entrare Rut, moabita, quindi nemica tradizionale, nel popolo e nelle tradizioni d'Israele.11 La Bibbia evidenzia che, in questo modo, Rut è entrata proprio nel cuore della famiglia regale di David e della genealogia di Gesù (cf. Mt 1,5), significando, così, che Israele è divenuto fecondo, grazie a una donna non ebrea e nemica, Rut, entrata in esso facendosi assimilare.12 Pertanto i nomi delle due donne sono stati immortalati per sempre nella Bibbia, nel popolo di Dio e nella storia della salvezza. Rut è grande per aver compiuto il passaggio, Noemi è grande per la sua coraggiosa inizitiva d'iniziarla alla verità del Dio unico. Quel Dio che, per essere riconosciuto, ha creato un popolo cui bisogna unirsi, ma è aperto a tutti gli "altri" invitati a parteciparvi. 2.2.2. Giona Il libro profetico di Giona offre un altro esempio di notevole interesse. Giona è l'unico profeta dell'Antico Testamento che dice no alla chiamata di Dio e che è inviato a una missione rivolta ai soli pagani: i Niniviti. Sembra pure l'unico libro profetico percorso, da capo a fondo, da una sottile venatura di finissimo umorismo e di ironia verso le "chiusure".13 Giona vuole fuggire da Dio, ma non vi riesce. Non vuole andare fra i pagani ma, fin dall'inizio, si trova immerso in essi: in nave pagana, fra marinai pagani, in rotta verso paese e popolo pagani. In pieno ambiente pagano egli, unico 102

ebreo, vien gettato in mare per salvare i pagani. È l'esatto opposto del Mar Rosso. Qui è l'ebreo ad essere sommerso dalle acque, per salvare i pagani con la sua sommersione. Questi ultimi, contro ogni previsione, sono esempi di virtù: pregano Dio, agiscono correttamente, dopo la tempesta offrono un sacrificio e fanno voti. A Ninive la situazione è ancor più paradossale. Giona, il profeta, fa un annuncio brevissimo, ripetitivo, fiacco, una semplice minaccia priva di motivazioni e vuota di zelo. Il Re, al contrario, pagano e peccatore, fa subito una perorazione infuocata e convinta, riconosce i peccati e ordina a tutti conversione, preghiera e penitenza, nella speranza del perdono. A loro volta tutti i pagani e perfino gli animali, lo ascoltano, corrispondono, si convertono e sono salvati. Giona, perciò non è contento ma visibilmente contrariato. Rimane gretto, imbronciato, ostinato e stizzito con tutti, Dio compreso. Si lamenta sempre e si preoccupa più di una pianta e della sua ombra che della salvezza di un'intera città. Confrontati con lui i pagani fanno una grande figura: pronti, disponibili all'invito e generosi. Ma su tutti, il vero protagonista sovrano è Dio: buono, generoso, paziente e misericordioso. Il suo disegno è l'immensa sollecitudine di salvare tutti gli uomini e condurre a salvezza tutte le nazioni. Il libro di Giona viene reso totalmente comprensibile da Gesù, dalle sue parabole e dal suo ammonimento che alla salvezza gli "ultimi" arriveranno primi.14

2.3. Posizioni del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento la situazione è già diversa. La vera religione è ormai chiara: l'adorazione del Padre in spirito e verità, non importa come né dove. Questo tema sembra sovrastare ogni altro. Appare ancora il tema del "distacco" dagli idoli, per rivolgersi al vero Dio (1Tess 1,9), evitando le attrattive del paganesimo che circonda i credenti (1Cor 10, 25-30). Tuttavia il contesto è l'alternativa del Regno che coinvolge direttamente la persona di Cristo.15 La spietata lotta del mondo a Lui si accompagna alla perenne tentazione di adorare l'immagine della bestia (Apoc 13,14; 16,2) e di innalzare, nel tempio, l'idolo devastatore (l'abominio della desolazione) preannunciato da Daniele (9,27) e affermato da Matteo (24,15). La posta in gioco appare immensamente più grande. Pertanto, Paolo si ricollega alla corrente severa della dottrina sapienziale, associando l'idolatria al culto dei demoni (1 Cor 10,20s). Il peccato dell'umanità è di avere barattato la gloria del Dio incorruttibile con l'ombra delle sue creature (Rom 1, 18-32), di modo che l'idolatria rimane la tentazione permanente. Basta cessare di servire il vero Dio, per diventare schiavi di ogni sorta di padroni iniqui: denaro, vino, cupidigie, potere, lussuria, peccato e ogni genere di vizi che portano alla morte, essendo essi stessi morte.16 Tuttavia i soggetti dominanti sono la lotta a Cristo e il cuore dell'uomo più che le religioni. Pertanto, anche nel Nuovo Testamento, accanto a questa impostazione critica e tragica, ve n'è un'altra di serena apertura. La chiesa primitiva è una comunione aperta a tutti. L'apertura verso i pagani è un'iniziativa costante dello Spirito Santo (At 10,10) e il Signore destina proprio Paolo ad apostolo dei pagani. Alla fine dei tempi, tutti i pagani saliranno il monte santo di Dio, attuando l'oracolo di Isaia e di Michea, che preannunciava un futuro di salvezza e di gloria per tutta l'umanità. La futura Gerusalemme è punto di convergenza e d'incontro per tutti i popoli. La Scrittura si chiude, quindi, con la grandiosa e consolante visione dell'umanità salvata dal sangue dell'Agnello. Vi è una folla di tutte le nazioni, razze, popoli, lingue e tribù, che ritrova la sua unità per abitare, per sempre, nella nuova Gerusalemme celeste (Ap 21,24). Paradossalmente, nella Scrittura, il pericolo incombente dell'idolatria sembra rafforzare l'apertura universale alle nazioni e l'incontro verso le genti di ogni razza, lingua, tribù e religione. Quello che noi, oggi, chiamiamo dialogo. 103

3.

Il periodo patristico

La valutazione delle testimonianze dei Padri è molto delicata per i diversi orientamenti, che richiedono accurato e cauto discernimento. La letteratura patristica comprende molte chiese cristiane, decentrate e lontane, oppure centrali (greche e latine), culturalmente, ecclesialmente e politico-amministrativamente influenti. Queste ultime finirono per affermarsi, ma ciò annulla gli altri tipi, percorsi, metodi e forme di pensiero, meno noti e assai diversi. Essi hanno ampliato notevolmente la gamma di interpretazioni e di modalità espressive del cristianesimo.17 Ciò premesso, appare chiaro che il problema del rapporto fra le tradizioni religiose antiche e l'economia della salvezza cristiana, venne posto in modo specifico e chiaro, dai primi apologeti cristiani del secolo II, ma sviluppato in modi alterni nei tre secoli successivi, segnati da impatti, conflitti, tentativi di recupero e d'integrazione fra la fede cristiana, la religione e la cultura filosofico-religiosa greco-romana.18 Non si può parlare ancora di una teologia delle religioni, ma soltanto di una riflessione, intensa e prolungata, sulle religioni degli antichi.

3.1. L'atteggiamento aperto e dialogante Fra essi alcuni assunsero posizioni di critica e rifiuto, che non concedevano nulla alle religioni antiche. Troviamo qui, tra i nomi più noti, Taziano, Erma, Teofilo di Antiochia e altri. Altri svilupparono una posizione più conciliante, aperta e disposta a vedere, nella religione greco-romana, sia i semi del Verbo divino, con Giustino, che un'azione pedagogica del Verbo e un'ispirazione divina (epípnoia), al punto da far dire a Clemente Alessandrino che Omero "profetava". Il rapido esaurimento e la fine della religione antica portarono, nel secolo quinto, alla cessazione del confronto. Tuttavia, mentre le tradizioni sapienzali e religiose grecoromane si affievolivano, nella vita concreta e nella storia, il cristianesimo, rimasto, non respinse ma passò ad assimilare progressivamente i valori religiosi dell'antichità, purificandoli, integrandoli, inglobandoli e riassumendoli in grandi sintesi.

3.2. La posizione critica e polemica Pertanto non tutte le critiche dei padri sembrano derivare da motivazioni di fede, ma anche da esperienze personali e dai contesti storici, culturali e ambientali in cui vissero. Comunque, anche i padri più critici verso le religioni ebbero sempre grande stima e rispetto verso la filosofia, soprattutto platonica, dei pagani. Le religioni conosciute da padri dei primi tempi non coincidevano affatto con le attuali "religioni non cristiane" e la stessa presenza di idolatria, false divinità, culti pagani e superstizioni, non ne fu l'elemento unico né esclusivo, come testimoniano la storia comparata e la fenomenologia delle religioni. I padri non disponevano né della nostra documentazione né dei nostri strumenti conoscitivi delle religioni. Questi limiti e lacune vanno tenuti nel dovuto conto. Appare poi significativo che il loro "modello critico" li abbia portati a condannare pure il giudaismo nel cui crucifige, alcuni, videro il simbolo di un'opposizione a Cristo ancor più grave dell'idolatria.

3.2.1. Gli aspetti dottrinali Un importante aspetto positivo si trova pure nella dottrina della presenza salvifica del "Logos" nella storia universale, applicata, soprattutto, alla saggezza filosofica dei pagani, in cui molti padri videro una preparazione alla salvezza. Altri, prendendo lo spunto dal riconoscimento dei santi pagani nella Scrittura (Melchisedec, Jetro, Amman, Giobbe, Cornelio ecc.) individuarono santi e profeti pure nei grandi della cultura greca e latina: Socrate, Platone, Pericle, Euclide, Omero, Orazio, ecc., di cui lodarono le virtù la saggezza e la sapienza

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3.3. La dimensione pastorale In ogni caso, l'orientamento più disponibile, aperto e positivo è riscontrabile nella prassi pastorale, ecclesiale e missionaria dell'èra patristica. Infatti nell'evangelizzazione dei popoli pagani, mediterranei, europei, ecc., molti elementi delle loro religioni e della loro vita vennero accolti e progressivamente cristianizzati. Questo adeguamento missionario, rivelatosi molto efficace, fu sostenuto dai pastori della Chiesa, che assumevano e trasformavano riti, feste, espressioni d'arte, ecc. pagane, inserendoli nella vita e nelle strutture religiose cristiane. Questi rilievi suggeriscono una domanda. Quali dimensioni avrebbe raggiunto la loro apertura, se avessero avuto a disposizione l'immensa documentazione e le conoscenze offerte dalle attuali scienze delle religioni?

4.

Medio evo e scolastica

La situazione storica, culturale e religiosa dell'èra medievale e scolastica fu assai diversa dalla patristica. Ambito del dialogo divennero le religioni ebraica e musulmana. Al riguardo vi furono diversi modi di confronto. A livello teologico, si ebbero le numerose "Somme" e "Questioni disputate". Nella teologia sacramentaria, il confronto riguardava, soprattutto, i sacrifici antichi, l'eucarestia e la dottrina dei "sacramenti della legge di natura". Anche la rivelazione primitiva fu oggetto di discussioni.19 Abelardo e Raimondo Lullo svilupparono un intenso dialogo con le religioni ebraica e musulmana. Nel secolo XIII, a Toledo, sotto gli auspici dell'arcivescovo, avvennero importanti incontri teologici ebraico-islamico-cristiani. Rispetto al problema degli infedeli la teologia si poneva due quesiti: a) se un infedele si potesse salvare, b) se l'infedeltà fosse peccato. La risposta al primo era sempre positiva, pur senza affermare che le religioni costituissero una via per condurre gli "infedeli" alla salvezza. La risposta al secondo quesito distingueva varie forme peccaminose d'infedeltà, di cui la mancanza di fede era meno grave rispetto all'opposizione. Neppure in quest'epoca mancarono atteggiamenti polemici, anche duri. Lo spirito polemico venne sempre più moderato dai missionari degli ordini mendicanti, che conoscevano per esperienza diretta vita e religioni dei nuovi popoli su cui scrissero importanti opere. Pertanto l'atteggiamento comprensivo e positivo, pur attraverso alterne vicende, tendeva ad affermarsi sempre più.

5.

Umanesimo e rinascimento

L'umanesimo, anticipando l'epoca moderna, favorì, in molti autori che studiavano il problema delle religioni, una mentalità nuova, volta a mettere in luce una base umana del cristianesimo, universale e accettabile da tutti. L'aspirazione alla pacifica convivenza di popoli e religioni era assai forte, indulgendo a visioni ottimistiche e a volte irreali.20 Nel Rinascimento, la rinascita neo-platonica dei secoli XV e XVI, favorì una valutazione più teologica delle religioni. Nel 1453, Nicolò Cusano pubblicava il "De pace fidei" in cui presentava la sua dottrina dell'Uno Trascendente, dall'identità inconoscibile e ineffabile, che, attraverso molteplici manifestazioni, si partecipa, come luce innata, nelle anime razionali e si riflette comunitariamente nei vari riti e religioni. Pertanto ogni varietà di riti contiene un suo raggio, mentre la Chiesa, manifestazione del Dio personale in Cristo, esprime la forma perfetta e completa di ciò che, altrove, rimane implicito e imperfetto. Le varie religioni, quindi, sono manifestazioni del Verbo divino. Cusano riteneva che, mediante la ragione e l'analisi storico-linguistica si potessero ritrovare, dappertutto, gli stessi contenuti fondamentali di verità, presenti nella religione 105

cristiana. Pertanto auspicava che tutte le religioni facessero pace tra loro, sul fondamento della loro concordanza.21 Tommaso Moro, nella sua "Utopia" giunse a pensare che una così grande varietà di religioni poteva indicare un qualcosa ordinato a soddisfare gli imperscrutabili disegni divini.22

6.

Teologia post-tridentina

Nei secoli successivi, un complesso di cause attenuò il sereno confronto, riaccendendo apologetiche e controversie conseguenti alla riforma, all'invadente immanentismo della cultura occidentale, alle approssimative ideologizzazioni delle scienze delle religioni.23 D'altra parte l'epoca moderna offrì pure elementi positivi di cui vanno ricordati almeno: a) lo sviluppo delle missioni a livello mondiale; b) i crescenti rapporti tra i vari popoli; c) il desiderio di tolleranza e rispetto verso ogni tradizione religiosa; d) l'elaborazione dei concetti di rivelazione naturale e della teodicea; e) il nuovo approccio storico e scientifico alle religioni. Nelle opere dei maggiori missionari, come Bernardino di Sahagùn, grande evangelizzatore del Messico e America Latina, vi fu un forte impegno positivo per utilizzare parole, usanze ed espressioni cultuali nell'annuncio e nella vita cristiana dei popoli evangelizzati.24 Alla fine del '600, la discussione sulla vera religione fece assumere un valore molto positivo al termine "religione", tanto che l'esistenza di una religione vera divenne un punto fermo dell'apologetica classica. Di fronte al diffondersi dell'irreligiosità, dell'areligiosità e dell'ateismo, venne valorizzato il "consenso universale" verso la religione, che distingueva gli uomini, anche i più barbari, dagli animali. Si sottolineò egualmente che non esisteva luogo dove non si adori, si preghi e si offrano sacrifici a Dio, per cui le "religioni" non furono più espressioni di peccato o d'idolatria, ma prove dell'universale esistenza e necessità della "religione". Nel secolo XVII, in Asia (Malabar) ed Estremo Oriente (Cina e Giappone) il dialogo interculturale e interreligioso visse uno dei momenti più difficili e appassionanti, con gli eventi passati alla storia come "questione dei riti cinesi, giapponesi e malabarici (indiani)". Si trattò di una lunga e complessa controversia tra i i missionari gesuiti, con M. Ricci e R. De Nobili protagonisti principali, e altri missionari e autorità ecclesiali, sull'adattamento dei missionari e dei cattolici, agli atti di venerazione e ossequio verso Confucio, gli antenati e le famiglie imperiali e all'adozione di vesti, segni e parole (Dio, anima, cielo, ecc.) delle rispettive culture. Gli uni vi vedevano un'importante via d'inculturazione evangelica che valorizzava elementi preziosi e significativi. Gli altri vi vedevano il pericolo d'inquinamenti superstiziosi e pagani per la fede. La disputa con alterne vicende, giunse a coinvolgere le supreme autorità della Chiesa che, a fatica e a lungo, cercarono un'improbabile soluzione dottrinale. I principi erano chiari, ma le valutazioni concrete difficilissime. Si dovette ricorrere a mediazioni e decisioni non del tutto soddisfacenti, tanto da richiedere periodici aggiornamenti che si protrassero fino alla metà del nostro secolo.25

7.

Teologie contemporanee

La duplice valutazione provoca anche nelle teologie contemporanee contrastanti giudizi sulle religioni. Per alcuni sono testimonianze autentiche, prescindendo dai loro difetti o deformazioni. Apologetica e teodicea, approfondiscono la dottrina filosofica della necessità e verità della religione. I risultati delle scienze della religione rafforzano il richiamo al consenso universale dei popoli. La filosofia idealista ha sviluppato ulteriormente la riflessione sulla natura e la verità della religione, presentando le singole religioni come manifestazioni storiche della dimensione religiosa dell'uomo 106

che, pur identica in tutti gli uomini, assume espressioni diverse nei vari popoli, culture ed epoche della storia. Pertanto le religioni, come manifestazioni dello spirito religioso, sono vere ma imperfette, perché non riescono a rivelare perfettamente la sconfinata apertura dello spirito verso l'Infinito e l'Assoluto. Le loro manifestazioni storiche cambiano, ma la religione essenziale rimane sempre la stessa. Anche il cristianesimo, dunque, sarebbe una religione e rivelazione soggetta alle leggi della storia e uguale alle altre. Non mancano i teologi che si spirano a questa impostazione. Tuttavia la teodicea cattolica pone il problema in un contesto assai diverso. Concentra la sua attenzione sulle prove dell'esistenza di Dio e sulla dottrina della conoscibilità, essenza e attributi di Dio. Per la filosofia ogni religione è vera, perché manifesta il senso religioso dell'uomo, per cui inserisce il cristianesimo fra le varie religioni, riconoscendone la singolare perfezione. Per la teologia la sola religione vera è quella voluta e realizzata da Dio: il cristianesimo. I teologi che considerano le religioni non cristiane come false, interpretano il termine in modo diverso. Per alcuni la "falsità" indica superstizione, politeismo e idolatria, per altri, significa soltanto un rapporto non autentico con Dio rivelato in Cristo. La preoccupazione di evitare ogni relativismo religioso e di difendere l'assolutezza e la singolarità del contenuto soprannaturale del cristianesimo, induce talora a considerare relativismo anche la ricerca dei semi di verità nelle religioni non cristiane.26 Tuttavia la comprensione più profonda delle religioni, che presuppone una loro conoscenza più rigorosa e oggettiva, viene facilitata dalle scienze della religione, che stanno calibrando i loro metodi.

7.1. Teologi e teologia cattolica In seguito a questa disponibilità di dati e conoscenze, alcuni teologi svilupparono una riflessione più approfondita. J. Daniélou propose la teoria di una "rivelazione cosmica" di Dio, manifesta e concretizzata in tutte le religioni che, perciò, costituiscono una forma legittima della ricerca di Dio, benché superata dalla rivelazione divina in Cristo. K. Rahner impostò il problema su due assunti. Il primo era che ogni essere umano sarebbe dotato di un "esistenziale soprannaturale", che lo orienterebbe e disporrebbe alla salvezza cristiana. Il secondo era che, essendo l'uomo sociale e comunitario per natura, le religioni rappresentano l'oggettivazione del suo "esistenziale soprannaturale". Perciò sono necessarie per elevare e guidare a Dio tutti gli uomini. Per questi motivi sono volute da Dio e vincolano i loro membri, fino a che essi non incontrino esplicitamente il Vangelo. Con ciò poneva le premesse per portare il problema della salvezza degli infedeli, dal piano individuale a quello strutturale delle religioni. Pertanto le religioni apparivano come legittime vie di salvezza per tutti i loro membri che si sforzano di seguire sinceramente la via tracciata dalle loro religioni e le loro deformazioni e carenze non impedirebbero la loro funzione positiva e legittima per la salvezza. Per O. Karrer, in ogni popolo, religione e persona esisterebbero un'apertura verso Dio e una vera fede, per quanto nascoste da deformazioni. Per H. R. Schlette le religioni sarebbero addirittura le vie ordinarie di salvezza, mentre la chiesa sarebbe la via straordinaria. Quindi entrambe le vie non si escluderebbero né opporrebbero, ma rimarrebbero obbligatorie e legittime, ciascuna nel proprio ambito. Il compito del cristianesimo sarebbe di "esplicitare" e "anticipare" l'avvenire glorioso di tutto il genere umano creato in e per Cristo. R. Panikkar vede, nelle diverse religioni, diverse forme visibili dell'unica presenza misteriosa del Cristo glorioso nella storia. Pertanto, il loro contenuto salvifico dipenderebbe dal loro rapporto con Cristo anziché dal rapporto con la chiesa e il cristianesimo.27

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7.2. Teologi e teologia protestanti La teologia protestante dedicò notevole attenzione alla teologia delle religioni, seguendo indirizzi assai diversi, cui attinsero numerosi teologi contemporanei anche cattolici. Agli inizi del secolo XX, nella corrente positiva, N. Farquhar presentò il cristianesimo come perfezione e compimento definitivo dell'induismo.28 La teologia liberale sosteneva l'esistenza di una rivelazione identica in tutte le grandi religioni umane. E. Benz, contestava il carattere assoluto del cristianesimo, ammettendo solo una sua superiorità e priorità nei confronti delle altre religioni, mentre P. Althaus e P. Tillich, pur riconoscendo limiti e carenze nelle religioni, le hanno considerate autentiche testimonianze rese a Dio. Nella corrente negativa K. Barth espresse una condanna radicale, considerando le religioni in opposizione al disegno di grazia di Dio. H. Kraemer, pur senza giungere a tale radicalismo, mise in luce gli aspetti deboli o di opposizione. Bonhoeffer auspicò un cristianesimo non religioso.29 Infine, alla metà del secolo, alcuni teologi teorizzarono una fede senza religione e un umanesimo pienamente secolarizzato.

8.

Concilio Vaticano II e postconcilio

Il Concilio non presentò una posizione specifica su questi punti, ma sviluppò una serie di principi, asserendo che le religioni contengono semi, elementi e raggi di verità e di grazia,30 rappresentano le ricchezze di tutti i popoli ed offrono spunti concreti di salvezza per i loro membri e non sono in antitesi col vangelo che le eleva e purifica. 31 Nel sinodo dei Vescovi del 1974, dedicato all'evangelizzazione, fu molto sottolineato il concetto che le religioni non possono essere più considerate né rivali né oppositrici del vangelo.32

9.

Problematiche attuali

Allo stato attuale della questione, fra i maggiori problemi, emergono quelli riguardanti: il valore dell'esperienza religiosa fondamentale, il valore teologico delle religioni come istituzioni e il rapporto fra la rivelazione cristiana e le religioni.

9.1. Esperienza religiosa fondamentale Col termine di esperienza religiosa fondamentale, s'intendono le capacità, disposizioni e aspirazioni più profonde, che orientano l'uomo all'Assoluto Trascendente. Esse costituirebbero le basi cui attingono le religioni e che vengono espresse in diverse maniere, presentando Dio come "primo principio" (aspetto noetico), oppure come "bene supremo" (aspetto assiologico), ecc. Alcuni teologi vedono in esse soltanto una pura realtà umana, mentre la maggioranza vi riconosce, invece, un influsso divino illuminante. Rahner le interpreta non solo come "epifania della creaturalità dell'uomo" ma, ancor più, come segno della sua destinazione a Cristo e della rivelazione trascendentale del Verbo divino, che attira misteriosamente ogni creatura. Perciò, l'esperienza religiosa fondamentale sarebbe la preparazione provvidenziale e normale alla fede. 9.2. Valore teologico delle religioni Quanto al valore teologico delle religioni non cristiane, a livello teorico e generale, alcuni vi vedono l'oggettivazione sociale e strutturale dell'esperienza religiosa fondamentale dell'uomo. Pertanto vi opererebbero la presenza e l'influsso del Verbo e vi si attuerebbe quell'invito con cui Dio chiama tutti gli uomini alla salvezza. L'applicazione di questi principi toerici e generali alle concrete religioni storiche esige, a livello pratico e particolare, un sereno e rigoroso discernimento evangelico-critico di molti elementi.

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Al riguardo, infatti, le scienze della religione mettono in evidenza i numerosi elementi storici, psicologici, sociologici e antropologici, capaci di influire e interferire profondamente sulle esperienze religiose. La storia delle religioni ha messo in luce l'importanza delle grandi personalità religiose, capaci d'imprimere mutamenti molto significativi alle religioni. A livello teologico, non si può sottovalutare la presenza del male e del peccato, che possono sempre interferire in ogni esperienza umana, compresa quella religiosa. In questo senso vanno lette anche le tentazioni di titanismo, di egoismo e i condizionamenti e le coartazioni della libertà. Le religioni concrete, perciò, presentano luci, ombre e ambiguità, che impediscono valutazioni aprioristiche esclusivamente positive o negative. Perciò, nella proporzione in cui oggettivano e relizzano storicamente aspetti e valori evangelici, possono essere considerate portatrici d'illuminazione divina e quindi strumenti e vie provvidenziali di salvezza. Invece, nella misura in cui, si allontanano o si chiudono al mistero rivelato da Dio, si sottraggono al dinamismo salvifico e cadono sotto il giudizio di Cristo e del vangelo.

9.3. Rapporti fra rivelazione cristiana e religioni Il problema del rapporto fra la rivelazione cristiana e le religioni è divenuto sempre più importante nella vita della chiesa. Il Concilio Vaticano II in Ad Gentes, n. 9 ha usato, al riguardo, tre verbi tradizionali: risanare, elevare e perfezionale, applicandoli a tutti i valori reperibili nelle tradizioni religiose. Ciò ha posto alcuni problemi, che esigono ulteriori approfondimenti. Innanzitutto, se si possa, ormai, parlare di una "partecipazione", sia pure in modi e gradi diversi, dell'economia salvifica cristiana, ai dinamismi religiosi di queste religioni. Un secondo quesito riguarda un maggiore approfondimento delle relazioni che intercorrono fra fede e religione. Infatti, non si può sottovalutare il fatto che, nella storia della salvezza e nelle Scritture dei due testamenti, le varie forme ed espressioni dell'esperienza religiosa appaiano come il mezzo espressivo, normale e costante della fede. Non a caso, nelle varie pagine della Bibbia, la rivelazione divina si palesa mediante espressioni e categorie religiose. Pertanto, fra fede e religione sembra operare un rapporto dialettico, in cui la religione precede la fede, l'alimenta, la espande e l'approfondisce, confrontandola con le potenzialità e con i valori delle altre tradizioni religiose dell'umanità. La fede giudica le esperienze religiose e ne rivela le profonde potenzialità, ma ne supera anche ampiamente i contenuti. Essa trascende e invera gli orizzonti della religione. Pertanto l'incarnazione della fede, nelle tradizioni culturali e religiose delle nazioni, si accompagna anche a un loro superamento. Tuttavia, oggi, il problema non si pone più in termini di pura conservazione della fede, ma di salvaguardia dell'unità e della molteplice varietà del disegno di Dio. Si tratta pure di armonizzare le esigenze dell'universalità della salvezza e della fede in Cristo, con quelle delle identità religiose e culturali particolari, dei vari popoli.33

9.4. Una teologia delle religioni esplicita e attuale Questa panoramica storica dei pensieri, atteggiamenti, problemi, che in venti secoli hanno accompagnato l'evolversi della situazione religiosa dell'umanità, ha presentato numerosi dati, che ci consentono alcune riflessioni. Innanzitutto i profondi mutamenti via via sviluppatisi nell'interpretazione teologica delle religioni non nascono, primariamente dai mutamenti di pensiero, ma dalle enormi trasformazioni storiche, sociali, culturali e religiose, succedutesi nell'arco dei millenni sulla scena del mondo. Di conseguenza, in campo strettamente teologico, si sono sviluppate ricerche e riflessioni che vertevano, di volta in volta, su Dio, il mondo, la storia, il futuro dell'umanità, il rapporto fra l'ordine della creazione e della grazia, ecc., valorizzando criticamente il pensiero e la tradizione dei secoli precedenti. Non a caso la teologia 109

della storia contemporanea ha riproposto, in un contesto del tutto rinnovato, la dottrina medievale scotista sul primato universale di Cristo. Esso sottolineava, particolarmente, il "cristocentrismo" di una storia della salvezza, cominciata con la creazione per raggiunge il vertice della pienezza nel Cristo risorto e glorificato. Inoltre, la continuità storico-soteriologica fra creazione, storia di Cristo e storia della chiesa, ha consentito di considerare le religioni nel loro rapporto con Cristo, rivalorizzando e mettendo in un'altra luce la funzione pedagogica, propedeutica e surrogatrice delle religioni, nel genere umano.34 Al di fuori delle teologia, un'importante contributo è stato dato dalle scienze della religione, avviate a una crescente maturità scientifica e consapevolezza epistemologica, dopo le posizioni critiche e polemiche degli inizi. Le loro nuove impostazioni, fondate su documentazioni sempre più ampie ed accurate, le hanno condotte a fornire elementi particolarmente utili per valutare più correttamente e realisticamente le religioni e scoprirne i valori e le funzioni positive. Citiamo per tutte la scuola etnologica storicoculturale che ha consentito di dimostrare le immense ricchezze morali e spirituali delle religioni dei cicli primordiali e di abbandonare, quindi, le teorie negative sui primitivi, imposte dalle ideologie evoluzioniste. Anche in campo cristiano, le pubblicazioni di questa scuola hanno condotto a superare i termini ideologici e i concetti negativi di "pagano" e "pagani", per sostituirvi quelli più positivi e corrispondenti alla realtà, di religioni mondiali e religioni dell'umanità. A sua volta, la riflessione filosofica, con la sua idea di una religione universalmente umana, ha contribuito a mettere in luce il fondamento ontologico e il contenuto specifico dell'esperienza religiosa che, per quanto essenzialmente unica, si manifesta in multiformi espressioni storiche. Ne ha pure evidenziato il contenuto spirituale, che può incarnarsi in forme molto diverse e talora contraddittorie. Pertanto ha contribuito a dimostrare che le forme esterne e le strutture visibili, per quanto importanti, restano sempre secondarie. Anche il concetto di "pluralismo religioso", relativo alla diffusione di numerosi e diversificati atteggiamenti verso la religione e le religioni, ha avuto notevoli conseguenze. Prima malvisto e poi tollerato, divenne infine un elemento specifico e significativo, della situazione religiosa del mondo attuale. Perciò, è considerato sempre più positivamente dal pensiero cristiano, contribuendo a valorizzare il dialogo, l'incontro e la convivenza pacifica fra popoli e culture.

10. Sintesi conclusiva Questo brevissimo panorama di una storia immensamente lunga e complessa, illustra le ragioni che hanno reso sempre difficile e tormentato ogni sviluppo della prassi biblico-cristiana e della riflessione teologica. Esso fa apprezzare meglio ogni tentativo di apertura dialogica del popolo di Dio, dalle prime pagine della Bibbia ai nostri giorni. Oggi, sulla spinta del Concilio Vaticano II, del crescente pluralismo religioso e culturale, dell'unificazione del genere umano e della maggiore interdipendenza dei popoli, la linea dell'apertura dialogica richiede ulteriormente forza e approfondimento verso alcune direzioni specifiche.35 Una di esse (unificazione, pluralismo, interdipendenza crescente di popoli e persone) costituisce un'ambito da cui fede biblico-cristiana, religioni e culture non possono prescindere. Una valida risposta è una nuova teologia dialogica delle religioni, che risponda a tre esigenze fondamentali: sia centrata sulle persone, sia mediata dalle scienze della religione, sia finalizzata a chiarire il ruolo salvifico (per le persone e le culture) delle religioni e dei rapporti che ne derivano (dialogo interreligioso). Questi elementi verranno approfonditi nei due prossimi capitoli.

110

1

P. Rossano, "Religione", III, in Nuovo Dizionario di Teologia, Roma 1982, 1281-1290.

2

Gs 24,2s; Giudit 5,6ss.

3

Gen 35,2; Gs 24, 14-23; Ger 2, 2-5.

4

Gen 1, 26 Es 20,3; 32; Deut 5,7ss; 1 Re 12,28; Giud 17-18.

5

1 Mac 1,43; 2 Mac 6,18; 7,42; cf. Dan 3.

6

E. Farahian, Bibbia e religioni, Roma 1992, 7-10.

7

Farahian, Bibbia e religioni, 12-16, 18-19.

8

Cf. Es 20, 3-4; Dt 5, 7-8.

9

Cf. Es 32; Giud 6, 25-32; 1Re 18, 17-40; Ger 9, 13-16; Ez 8; Si 34, 1-7.

10

Farahian, Bibbia e religioni, 20-25.

11

Cf. S. Cavalletti, Ruth-Ester, Roma 1968; E.F. Campbell, Ruth, New York 1975; D.R.G Beattle, Jewish Exegesis of the Book of Ruth, Sheffield 1977; J.M. Sasson, Ruth, BaltimoreLondon 1979; H. Haag, "Ruth, livre de", in SDB, Paris 1984, 10, 1110ss.; J. Hallaire, "Un jeu de structures dans le livre de Ruth", in NRT, 113 (1991), 708-727. 12

Farahian, Bibbia e religioni, 36-37.

13

L.C. Allen, The Books of Joel, Obadiah, Jonah, Micah, Grand Rapids 1976; V. Mora, Jonas, Paris 1981; H.W. Wollf, Studi sul libro di Giona, Brescia 1982; D. Stuart, Hosea.Jonah, Waco 1987; Farahian, Bibbia e religioni, 49. 14

Farahian, Bibbia e religioni, 60-64.

15

1 Cor 10,14; 2 Cor 6,16; Gal 5,20; 1Gv 5,21; Apoc 21,8; 12,15.

16

Denaro: Mt 6,24; vino: Tito 2,3; cupidigia: Col 3,5; Ef 5,5; potere politico: Apc 13,8; piacere, invidia, odio: Rom 6,19; Tito 3,3; peccato: Rom 6,6. 17

E. Drewermann, "Patrologia", in Enciclopedia teologica, Brescia 1989, 695.

18

P. Rossano, "Religione", III, in Nuovo Dizionario di Teologia, Roma 1982, 1281-1290.

19

S. Bonaventura, III Sent., d. 25 q. 2 a.1 ad 3; S. Tommaso, III Sent., d. 25 q. 2 a. 2, sol. 2; S. Th., II-II, q. 2, a. 7; IV Sent. d. 1, q. 2, a. 6, sol. 3. 20

Cf. A. Gelin, Idoles, Idolâtrie, in DBS, IV, 177-187; A. Quacquarelli, La polemica pagano-cristiana da Plotino ad Agostino, Milano 1952; V. Boublik, Teologia delle religioni, Roma 1973, 3-23; L. Capéran, Le problème du salut des infidèles, v. I, Essai Historique, Toulouse 1934; H. Nys, Le salut sans l'évangile, Paris 1966. 21

N. Cusano, De pace fidei, Torino 1971.

22

T. Moro, L'Utopia o la migliore forma di repubblica, Bari 1970, 147.

23

Nel 1925 R. Garrigou-Lagrange nel suo "De Revelatione" dedicava uno spazio limitatissimo e non approfondito al confronto con le religioni, non considerate di origine soprannaturale. E. Magnin nella voce "Religion" del Dictionnaire de Théologie Catholique, 14, 1937, taceva sulla teologia delle religioni, mentre H. Fries alla voce "Religion" del Lexikon für Theologie und Kirche, 8, 1963 riconosceva che una teologia cattolica delle religioni non era stata ancora elaborata, nonostante gli elementi offerti da Scrittura e tradizione. 24

Cf. la sua Historia general de las cosas de Nueva España. Riguardo alla sua opera evangelizzatrice e quella dei primi evangelizzatori francescani cf. G. Gismondi, "America Latina: L'evangelizzazione francescana degli inizi", in Studi Ecumenici, 11 (1993), 9-42. 25

Cf. M. Ricci, Storia dell'introduzione del cristianesimo in Cina, 3 vv., Roma 1942-1949. Su M. Ricci cf.: H. Bosmans, "L'oeuvre scientifique de Mathieu Ricci", in Revue des questions scientifiques, 29 (1921), 135-151; L. Pfister, Notices biographiques et bibliographiques sur les Jésuites de l'ancienne mission de Chine, Sciangai 1932, 21-42; H. Bernard, Aux portes de la Chine, Tientsin 1933; Id., L'apport scientifique du P. Mathieu Ricci à la Chine, Tientsin 1935;

111

C. Testore "Ricci Matteo", in EC, X, 870-872. Su R. De Nobili cf.: P. Dahmen, Roberto De Nobili s.j., Münster in W. 1924; Id., Un jésuite brahme, Louvain 1924; Id., Roberto De Nobili. Prémière apologie 1610, Paris 1931; C. Testore, "De Nobili Roberto", in EC, IV, 1433. Sulla questione dei riti in generale cf.: G. Rommerskirchen, "Riti, questione dei", in EC X, 995-1005. Sui riti cinesi le ultime direttive vennero date in una lettera della Congregazione di Propaganda Fide del 28. 2. 1941, cf.: J. Brucker, "Chinois (Rites)", in DThC, II, 2364-2391; A. Huonder, Der chinesische Ritenstreit, Aachen 1921; P. D'Elia, "La recente istruzione della S.C. di Propaganda Fide sui riti cinesi", in Civiltà Cattolica, 1940, I, 123-137, 191-202. Sui riti giapponesi le ultime direttive furono date in una istruzione di Propaganda Fide del 26. 5. 1936, cf.: G. Schurhammer, Das kirchliche Sprachproblem in der japanischen Jesuitenmission des 16 und 17 Jahrhunderts, Tokio 1928; P. D'Elia, "Evoluzione di popoli e nuove provvidenze della Chiesa", in Civiltà Cattolica, 1936, III, 101-108, 186-196, 279-291. Per i riti malabarici l'ultima disposizione fu presa il 9. 4. 1940, cf.: J, Bertrand, La Mission du Maduré, 4 vv., Paris 18471854; E: Amman, "Malabares (Rites)", in DThC, IX, 1704-1745; P. D'Elia, "L'abolizione del giuramento contro i riti malabarici in India", in Civiltà Cattolica, 1940, II, 331-340, 424-431. 26

G. De Broglie, Problèmes et conclusions de l'histoire de la religion, Paris 1906; Boublik, Teologia delle religioni, 26-27. 27

H. Kraemer, La foi chrétienne et les religions non chrétiennes, Neuchâtel, 1956; Boublik, Teologia delle religioni, 32-36; B.E. Benktson, Christus und die Religion. Der Religionsbegriff bei Barth, Bonhoeffer und Tillich, Stuttgart 1967; E Berthge, "Cristologia e 'cristianesimo non religioso' in Dietrich Bonhoeffer", in Dossier Bonhoeffer, Brescia 1969; O. Karrer, Das Religiöse in der Menschheit und das Christentum, Freiburg im Br, 1934; J. Daniélou, Le mystère du salut des nations, Paris 1945; Id., Les saint païens de l'Ancien Testament, Paris 1956. 28

N. Farquhar, The Crown of Hinduism, Oxford 1913.

29

A. Richardson, Religion in Contemporary Debate, London 1966.

30

Nostra Aetate, 2; Ad Gentes, 9.

31

Ad Gentes, 11, 3, 9.

32

L'Osservatore Romano, 29. 9. 1974.

33

Rossano, "Religione", 1286-1288.

34

J. Danielou, Saggio sul mistero della storia, Brescia 1957.

35

Nostra Aetate, 1.

112

12. DIALOGO INTERRELIGIOSO E TEOLOGIA DELLE RELIGIONI 1.

Cenni introduttivi

Gli sviluppi dottrinali del dialogo e dell'atteggiamento ecclesiale verso le religioni, emersi negli ultimi tre capitoli, hanno confermato la necessità di una nuova teologia dialogica delle religioni, che ponga in aperto confronto i contenuti centrali della fede cristiana, le acquisizioni delle scienze della religione e i valori e le esperienze delle grandi tradizioni religiose dell'umanità. Questi appaiono i suoi caposaldi: I contenuti centrali della fede cristiana si compendiano nella fede in Gesù di Nazareth, Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e morto per la salvezza dell'umanità, risuscitato e glorificato da Dio e costituito Signore del cielo e della terra (At 2,36). In breve, in Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore universale. Non si tratta, quindi, del Cristo soltanto storico, o della fede o cosmico, ma dei tre aspetti uniti insieme. Le fondamentali acquisizioni delle scienze delle religioni si focalizzano attorno alle grandi tematiche delle teofanie, dell'homo religiosus e dell'antropofania, attorno alle quali ruotano le risultanze peculiari e le tematiche specifiche dele varie discipline: storiche, fenomenologiche, psicologiche, sociologiche e antropologiche ecc. Il punto di partenza per l'incontro con le religioni non è dato dal cristianesimo, la cristianità o la chiesa, ma da Gesù Cristo e il suo mistero, tenuto conto di ogni contesto e spessore culturale.1 Questo capitolo è volto a verificare la possibilità di sviluppare tale teologia.

2.

Il metodo di una teologia cristiana delle religioni

Pertanto, la via di tale approfondimento passerà attraverso la riflessione teologica sull'esistenza cristiana e sull'esperienza del concreto dialogo interreligioso. L'approfondimento cristiano, a livello pensato e riflesso, muove dalle premesse rivelate e, in particolare, dall'annuncio biblico e dalla tradizione di vita, preghiera e pensiero della chiesa, per trarne le debite conclusioni. La vita e l'esperienza, da sole, non condurrebbero a conclusioni teologiche, consapevoli e fondate ma, al limite, potrebbe portare a espressioni non del tutto compatibili con le esigenze del dato cristiano. La sola riflessione, a sua volta, rischierebbe di rimanere concettuale, astratta e incapace d'incontrare veramente la realtà delle religioni. La loro valorizzazione congiunta, invece, sembra consentire un approccio "globale", che armonizzi la rivelazione con la sua interpretazione viva nella storia della chiesa e con l'esperienza attuata nella prassi e nel pensiero cristiano. Inserito fin dagli inizi in questo contesto, il dialogo viene essenzialmente vincolato alla duplice esigenza di non prescindere mai dalla propria fede e di accostare le diverse esperienze religiose, rispettando la loro concretezza e autenticità. In questo modo si evita il pericolo di "ridurre" il contenuto specifico della fede, lasciandone emergere tutta l'universalità, nel contesto dell'attuale pluralismo di tradizioni religiose. Si tratta quindi di avvicinare, nel miglior modo possibile, il mistero di Cristo, l'ampio contesto delle tradizioni religiose dell'umanità e l'esperienza del dialogo interreligioso.2 Ciò significa che la questione cristologica, compreso il significato dell'incarnazione, va riconsiderata nel vasto ambito del pluralismo e del dialogo interreligioso. Ciò comporta una serie problemi quali: il significato dell'alleanza con le nazioni e il suo rapporto con l'alleanza stretta da Cristo con l'umanità intera; le diverse religioni come

vie di salvezza per i loro seguaci; il rapporto dei libri sacri, riti, pratiche, ecc. delle diverse religioni, con Cristo; il rapporto del mistero di Cristo e di quello trinitario, nel contesto delle diverse religioni; i contenuti e caratteri di una teologia del dialogo, ecc.3

3.

Problemi cristologici dell'incontro induismo-cristianesimo

Per tale dialogo, alcuni ritengono che le difficoltà proprie dell'induismo costituiscano un test emblematico e prioritario, poiché sintetizzano le maggiori problematiche del pluralismo religioso verso l'intera questione cristologica. L'induismo riassume le difficoltà di ogni mistica interioristica e astorica dell'identificazione, nei confronti del mistero di un Dio personale, che si coinvolge nella storia degli uomini, per attuare la comunione. Rinviando i particolari alle note,4 ci soffermiamo sul senso generale del problema, che coinvolge pure quello del rapporto fra le esperienze religiose e gli enunciati concettuali che le esprimono. Infatti, per quanto i concetti da noi usati rimangano inadeguati, non possiamo farne a meno, né rinunciare alla loro funzione. Se l'esperienza umana pretende di essere totalmente "ineffabile", di ripudiare l'analogia, di collocarsi oltre le parole ed emanciparsi totalmente da ogni enunciazione e apparato concettuale, perde ogni possibiltà di esprimersi e comunicarsi. Se è vanificata la validità di ogni discorso e concetto, sono pure impediti ogni comunicazione, conoscenza e presa di coscienza. Chiariti questi aspetti, osserviamo che, se Dio s'impegna personalmente nella storia umana, quest'evento acquista, nell'ordine storico, un valore universale, un carattere unico e una portata cosmica. Quindi, quando si tratta dell'impegno personale di Dio nella storia, la particolarità storica acquista valore decisivo. Pertanto, se l'analogia del discorso teologico viene rifiutata come un ostacolo sul cammino dell'unità che conduce a Dio, la distinzione tra Dio e il mondo e tra la Trinità e la storia, rimangono al di là del discorso. Il dialogo con l'induismo, quindi, mette in luce la necessità di risolvere le antinomie tra apofatismo mistico e catafatismo teologico;5 fra unità che abolisce le distinzioni e comunione interpersonale che si approfondisce proporzionalmente alle distinzioni stesse; tra storia concepita come epifenomeno di valore relativo e come realtà dotata di consistenza ontologica.6 Sotto questo aspetto, le sue difficoltà costituiscono davvero una priorità generale ed emblematica

4.

Cristologia e teologia delle religioni

Se la teologia delle religioni riguarda, innanzitutto, il rapporto delle religioni con il mistero cristiano, ossia con l'unicità e l'universalità dell'evento Gesù Cristo, le tesi fondamentali della cristologia sono, oltreche una credenza centrale, il fondamento stesso della fede. Dire che Gesù è "unico" significa che, in lui e mediante lui, Dio ha manifestato se stesso in modo decisivo, insuperabile e irripetibile. Dire che Gesù è "universale" significa che egli è il centro del disegno di Dio, che si attua nella storia dell'intera umanità. Occorre tuttavia precisare che tale "unicità-universalità" non è chiusa ma aperta, perché Cristo, mediante la sua rivelazione, non esclude nessuno ma include tutti, operando ovunque Dio entri nella vita umana, anche come "anonimo" o "non riconosciuto".7 Perciò non si può separare il messaggio (dottrina) dal messaggero (persona), perché entrambi si fondono in Gesù Cristo. Pertanto il rapporto delle verità cristiane con il mistero assoluto e originario di Cristo appare veramente essenziale. Il Concilio Vaticano II applicò questa prospettiva cristocentrica alla salvezza delle singole persone non cristiane, mentre rimase ancorato alla precedente prospettiva ecclesiale riguardo

114

alla salvezza delle religioni. Prospettiva poi superata, nei successivi documenti magisteriali, come abbiamo visto nei capitoli precedenti.8

5.

Problemi di fondo nella teologia delle religioni

Se il problema principale è di mostrare il significato universale e la dimensione cosmica dell'evento Gesù Cristo, come vertice della storia della salvezza, dobbiamo stabilire le prospettive cristocentriche che meglio rispondono alle esigenze attuali. Esse sono determinate dalle proporzioni storico-geografico-culturali della Chiesa, e dall'estendersi del pluralismo religioso e del conseguente dialogo interreligioso. Alcuni teologi distinguono diverse cristologie e "universi", che danno luogo a differenti combinazioni fra: universo ecclesiocentrico e cristologia esclusiva; universo cristocentrico e cristologia inclusiva; universo teocentrico e cristologia normativa; universo teocentrico e cristologia non normativa.9 Altri, invece distinguono le "prospettive": ecclesiocentrica, cristocentrica e teocentrica e le posizioni o atteggiameti improntati a: esclusivismo, inclusivismo e pluralismo.10 Se si tien conto di tali distinzioni, l'impostazione attuale più soddisfacente dovrebbe proporre un cristocentrismo inclusivo e aperto, entro i due poli della volontà salvifica universale di Dio e della necessità della mediazione soteriologica di Cristo. Essa deve dimostrare che la fede in Cristo non è chiusa ma si apre, addirittura, a dimensioni cosmiche. Pertanto una teologia cristologica delle religioni dovrà stabilire, innanzitutto, che al mistero di Cristo converge tutto ciò che Dio ha operato e continua ad operare nella storia dell'umanità.11

6.

Storia della salvezza, alleanza e alleanze

Come abbiamo visto, la fede nel piano divino sull'umanità e sul mondo, considera l'incarnazione di Gesù Cristo come "il farsi di Dio-per-gli-uomini-in-modo-umano, liberamente e per amore". In Gesù Cristo, quindi, Dio ha attuato il pieno e definitivo dono di sé all'umanità, nel cuore stesso del mondo e della storia. Poiché Dio ha assunto una reale solidarietà con la condizione storica dell'umanità nel "Regno", il Regno cresce progressivamente nel mondo, per giungere al suo compimento finale, conferendo alla storia una dimensione lineare, che non si concilia con quella circolare, sia essa ciclica (greca) o a spirale (induismo).12

6.1. Gesù centro della storia salvifica D'altra parte, teologicamente, Gesù è il centro e l'evento decisivo della storia della salvezza, come ultima e definitiva alleanza delle quattro attuate da Dio: adamica con l'intera umanità, noaica con le nazioni e i popoli della terra, abramo-mosaica con il "popolo eletto di Dio" e cristica, che compendia, invera e perfeziona tutte le altre. La teologia delle religioni deve tener conto di una storia della salvezza universale, che comprende tutte le alleanze, le prime tre come "tempo della preparazione e dell'attesa" e l'ultima come "tempo della chiesa". Pertanto, anche le tradizioni religiose delle "nazioni" fanno parte della rivelazione e della salvezza, essendo orientate a Cristo. Questa condizione le rende preparazioni evangeliche autentiche, anche se indirette, volte a orientare le nazioni e la loro storia verso il suo evento decisivo. L'alleanza abramo-mosaica presenta il "valore permanente dell'Antico Testamento come fonte della Rivelazione cristiana".13 L'islam viene collegato alla fede abramica, benché esso segua, anziché precedere, l'evento Gesù Cristo.14 Ciò significa che, nelle

115

tradizioni religiose dell'umanità, la salvezza divina opera, a causa del mistero cristico cui esse si riferiscono, sia prima che dopo la venuta di Gesù Cristo. La teologia attuale ritiene che il Vangelo non possa essere considerato "promulgato" a una persona, finché questa non sente l'obbligo di riconoscere Gesù Cristo come Salvatore. Ne consegue che l'antica alleanza e le altre tradizioni religiose conservano, per le persone in situazione di "non promulgazione", il loro carattere e valore di preparazione evangelica, voluti da Dio.15

7.

Salvezza e Vangelo

Pertanto, occorre accertare il valore salvifico delle religioni per i loro membri, ossia la presenza attiva del mistero di Cristo all'interno delle loro istituzioni. Per la teoria del "compimento" (De Lubac) il mistero cristico raggiungerebbe i membri ma non le istituzioni religiose, per cui esse dovrebbero convergere verso il cristianesimo e la Chiesa. Per la teoria della "presenza di Cristo nelle religioni" (Panikkar, Rahner, Schlette ecc.) le religioni dell'umanità, che rappresentano interventi divini orientati all'evento decisivo del Cristo, manterrebbero, "per i loro membri", un valore positivo. La salvezza esigerebbe che il mistero invisibile di Cristo operi in esse, ma senza il vangelo.

7.1. Scrittura e Tradizione Su queste tematiche i dati della Scrittura appaiono incerti e ambivalenti. Nell'Antico Testamento l'alleanza di Dio con tutta l'umanità, in Noè (Gen 8, 20 - 9, 17) è l'elemento più positivo. Nel Nuovo Testamento Gesù, fin dagli inizi, presenta il Regno come una realtà più ampia d'Israele, perché è esteso pure alle nazioni. Per gli Apostoli le religioni delle nazioni non sono prive di valore e trovano in Gesù il loro compimento (Atti 17, 22-31; 14, 15-17). Nel II e III secolo, i Padri vedevano la storia della salvezza come fatta di tappe e di successive manifestazioni di Dio. Le "teofanie" erano "logofanie" o manifestazioni del Verbo. S. Agostino, due secoli dopo, mise in evidenza l'influenza universale esercitata dal Cristo, ancor prima dell'incarnazione. Tuttavia abbiamo visto che un certo accostamento delle religioni all'idolatria o ai "demoni", non ha consentito loro di sviluppare maggiormente questo aspetto. Il Concilio Vaticano II ha compiuto un grande passo, facendo propria la dottrina patristica della "preparazione evangelica" e dei "germi del Verbo" e, nello stesso tempo, valutando positivamente le religioni, senza tuttavia pervenire a riconoscerle come vie di salvezza per i loro membri. Comunque il suo contributo resta decisivo, avendo confermato l'azione del Verbo e dello Spirito Santo negli elementi "oggettivi" delle tradizioni religiose.16 Pertanto, lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere salvati, in quanto "associati" al mistero pasquale di Cristo e agli elementi di grazia e di salvezza che il Verbo divino ha seminato nelle tradizioni religiose, a vantaggio dei loro membri. 17

8.

Tradizioni religiose come vie di salvezza

In seguito alla consapevolezza di tutto ciò la sensibilità postconciliare trova sempre meno soddisfacente che i membri delle religioni possano salvarsi, senza che le loro religioni abbiano alcuna parte nella loro salvezza. Il problema, quindi, è di accertare in che modo esse possano costituire per i loro membri, strumenti veri, per quanto incompleti, del mistero salvifico di Cristo.

116

Certamente non nello stesso modo della chiesa, che è vero sacramento di Cristo ed epifania storica della sua gloria, incorporando la salvezza cristica e la pienezza dei mezzi salvifici. La differenza consiste sia nella diversa natura che nelle diverse modalità in cui il mistero di Cristo viene mediato. La novità cristiana comporta, non solo la "rivelazione", ma anche la "mediazione", come presenza sacramentale di Dio fra gli uomini. Quindi, in essa, la Parola è quella decisiva di Dio nel suo Figlio incarnato, che non è una semplice parola di saggi o di "illuminati". Lo stesso va detto delle "scritture". La sacramentalità degli atti simbolici è quella voluta da Cristo. Quindi, non si tratta di simboli e di pratiche rituali espresse dagli uomini. Il mistero cristico vi è vissuto in piena consapevolezza e adesione totale, quindi, non in modo inconsapevole ed enigmatico, come nelle religioni. Infine, il volto umano di Gesù riflette l'immagine del Padre. Perciò, passare dalla condizione precristiana a quello cristiana comporta una vera novità, un salto di qualità, una conversione, una morte-risurrezione, che conforma il credente al mistero pasquale di Cristo. Tutto ciò non esclude che la condivisione delle altrui esperienze religiose offra ai cristiani nuove occasioni, per scoprire le altre molteplici sfaccettature dell'infinito mistero di Cristo. Egli, infatti, è la Verità di Dio da cui lasciarsi possedere e non da possedere.18

9.

Spirito Santo, Parola di Dio, Scritture

Oltre a questa dimensione cristologica vi è pure quella pneumatologica: la presenza attiva dello Spirito Santo, che vivifica l'universo e trasforma i cuori. Le due dimensioni sono inseparabili, poiché l'azione universale dello Spirito, punto d'inserimento del dono che Dio fa all'uomo, è legata a quella del Signore risorto. Inoltre, la presenza dello Spirito nelle persone è il punto di contatto immediato fra Dio e l'uomo. Lo Spirito è, per tutti, il tramite e il vincolo della relazione interpersonale con Dio. Anche qui il problema riguarda, non tanto gli individui, ma le strutture delle religioni.

9.1. Azione universale dello Spirito nella Scrittura L'Antico Testamento aveva concepito i tempi messianici come effusione escatologica dello Spirito, rinnovamento interiore e segno dell'alleanza nuova ed eterna fra Dio e il suo popolo (Ez 11,19; 36,26. 37; Ger 3, 31-34). Nel Nuovo Testamento lo Spirito, a Pentecoste, attua l'evento pasquale, inserisce nella storia la signoria di Cristo e fa nascere la comunità ecclesiale, rinnovando l'umanità e trasformando l'universo.19 9.2. Spirito Santo e religioni nel Vaticano II Anche riguardo allo spirito Santo, il Concilio Vaticano II, senza riconoscere esplicitamente le religioni come vie di salvezza per i loro membri, ha posto seri fondamenti al riguardo. Ad Gentes ha affermato che l'opera dello Spirito Santo avviene nel mondo, fuori della Chiesa e prima della glorificazione di Cristo (n. 4). Gaudium et Spes fa costante riferimento all'azione dello Spirito nel mondo e al di fuori della Chiesa, cui consegue l'apertura verso culture, impegni e aspirazioni umane. Riconosce pure, apertamente, la presenza attiva dello Spirito nel cuore degli uomini, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. Pertanto lo Spirito eleva tutta l'umanità attraverso le aspirazioni religiose degli uomini e le loro imprese.20

9.3. Le "scritture sacre" delle religioni Riguardo alle scritture ritenute sacre dalle altre religioni, per la teologia, il problema è sapere se siano "scritture", nel senso teologico di parola di Dio ispirata dallo Spirito Santo. Certamente il patrimonio di tradizioni religiose, che esse rappresentano, non si realizzò al di fuori della provvidenza divina. Le loro parole, suggerite dallo Spirito nel 117

cuore degli uomini, sono destinate a condurre altri uomini alla stessa esperienza personale dello Spirito. Esse esprimono una parola personale, che Dio rivolge alle nazioni, attraverso intermediari da lui scelti. Ciò non significa che in esse tutto sia "parola", e tanto meno definitiva, di Dio.21 Per comprendere bene questo aspetto, occorre chiarire che nessuna rivelazione del mistero di Dio può eguagliare quella che egli stesso opera, mediante il mistero del Figlio incarnato, in una natura e coscienza umana. Il Nuovo Testamento narra la rivelazione definitiva che, in Gesù Cristo, Dio rivolge a tutti gli uomini. Esso permette alla comunità che su di esso si fonda, di riconoscervi l'espressione ufficiale della propria fede, cioè il vero senso di ciò che Dio, in Cristo, ha fatto per tutti gli uomini. Tuttavia, la pienezza ineguagliabile della rivelazione in Cristo non impedisce a Dio di manifestarsi ancora nella storia. Chiarito questo, resta spazio sufficiente per riconoscere che, prima della parola dei profeti dell'Antico Testamento, e della parola finale in Cristo, Dio poteva benissimo dire una parola iniziale, anche attraverso i profeti e i saggi delle nazioni, di cui rimangono le tracce nelle scritture delle varie religioni. Parola di Dio, Scrittura e ispirazione non esprimono una realtà identica, ma analogica, da discernere attentamente nelle diverse tappe di una rivelazione progressiva e differenziata. Ciò non toglie che, ad ogni tappa, esse possano esprimere realtà autentiche di cui riconoscere il valore e i limiti. La storia della salvezza e della rivelazione è unica nelle sue diverse tappe: cosmica, ebraica e cristiana. In ciascuna di esse, porta, in modi diversi, il sigillo dello Spirito. Perciò, la piena rivelazione in Cristo non impedisce l'uso delle parole contenute nei libri sacri delle altre tradizioni, purché attuato con discernimento e prudenza, evitando sincretismi, eclettismi, confusioni e ambiguità. Anche qui, non si può escludere di potervi trovare elementi che possano aiutare i cristiani ad approfondire alcuni aspetti dei misteri divini rivelati pienamente in Cristo.22

10. Gesù storico, Cristo della fede e religioni Quanto detto mostra le religioni come modi veri, anche se incompleti e imperfetti, di mediazione del mistero cristico, nei confronti dei loro fedeli. Il mistero cristico, tuttavia, non si limita al solo Gesù o al solo Cristo ma comprende l'unione dei due termini: Gesù e Cristo (At 2,36). Nell'attuale incontro interreligioso il maggior problema è il Gesù della storia. Dopo un lungo dibattito, l'esegesi moderna sembra riammettere la possibilità di raggiungere il Gesù storico attraverso gli scritti evangelici. Pertanto anche l'attuale cristologia è caratterizzata da un ritorno massiccio al Gesù storico, come punto di partenza. Come abbiamo visto, a mettere in questione il valore e il senso della storia e, quindi, l'assoluto significato trans-storico attribuito dalla fede all'evento storico di Cristo, è l'induismo. Sorge perciò il problema se il modello di "storia" della salvezza del cristianesimo sia adeguato per il dialogo con esso. Certamente, con il prologo giovanneo, si può e si deve parlare di un'azione del Verbo nel mondo e nella storia della salvezza, prima della sua incarnazione in Gesù Cristo. Inoltre, negli scritti di Paolo, quella stessa persona pre-esistente e pre-agente è chiamata "Cristo". Pertanto, l'azione anticipata del Verbo va messa in rapporto con il mistero di Gesù Cristo. Essa era orientata verso di lui, in cui si è operato il mistero della salvezza. Infatti il Verbo destinato a incarnarsi e il Verbo incarnato sono una sola

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realtà unica e indivisibile. Quindi Gesù Cristo, Verbo incarnato, rimane al centro del piano divino e del mistero della salvezza. Se alcune religioni non sono pronte a credere in una realtà divina situata nello spazio e nel tempo, e quindi allo "scandalo" di Dio che si fa storia umana, non possiamo rimuovere lo scandalo, allentando il vincolo tra il mistero cristico e Gesù di Nazareth. Dobbiamo piuttosto sottolineare come Dio, inserendosi personalmente nella storia degli uomini, conferisca ad essa un significato nuovo e uno spessore inimmaginabile, per cui l'uno e indivisibile Gesù Cristo ha un significato unico e irriducibile, che trascende ogni mito. Se Dio si è incarnato, una volta per tutte, in Gesù di Nazareth, la sua esistenza umana è, per tutti i tempi e luoghi, il "sacramento dell'incontro fra Dio e gli uomini". Così viene superata ogni falsa alternativa fra prospettiva teocentrica e cristocentrica. Se Dio si dona e autorivela agli uomini in Gesù Cristo, l'incontro fra Dio e l'uomo non può avvenire che attraverso lui. Gesù non si sostituisce a Dio, ma è posto da lui come mediatore e via che conduce a lui. L'umanità di Cristo, pur facendo parte dell'ordine dei segni e dei simboli, lo supera, essendo parte del mistero divino stesso. Perciò nell'umanità di Cristo l'uomo incontra Dio, perché in essa Dio si è fatto uomo e storia umana. Non vi è teocentrismo cristiano che non sia cristocentrico, come non vi è mistero cristico dissociabile da Gesù di Nazaret, né un Cristo della fede senza il Gesù della storia.23

11. Gesù Cristo unico e universale L'unicità e universalità assolute di Gesù Cristo, nell'ordine della salvezza, sono decisive per la teologia dialogica delle religioni. Esse sono ontologicamente unite, per cui un loro senso puramente funzionale non basta ad esprimerle. Solo l'identità di Cristo come Figlio unigenito di Dio, fonda la sua costitutiva unicità e universalità di Salvatore. Il riconoscimento della sua filiazione divina, tuttavia, è solo questione di fede e non di ragionamento filosofico o di studio scientifico delle religioni. Quindi è normale che, nel contesto di un dialogo pluralistico, trovi forti obiezioni.24 Esse, però, non consentono di attenuarla o eliminarla, perché un confronto con affermazioni analoghe di altre religioni ne mostra la profonda diversità. Gli "avatara" indù, infatti, anche se indicano manifestazioni dell'Assoluto in forma terrena, non sono mai ritenuti un inserimento personale di Dio nella storia degli uomini. La tradizione buddista del "mahayana"25 indica la "deificazione" di una persona umana. Gesù non è un uomo deificato ma Dio fatto uomo. Budda è un uomo che mostra la via della salvezza. Gesù è lui stesso la via e la salvezza. Quelle esperienze, perciò, possono rappresentare "teofanie" che, però, solo il mistero di Cristo completa e porta a perfezione. Quindi, possono mettere in evidenza alcuni aspetti del mistero cristiano e consentono di parlare di "unicità complementare" del mistero di Gesù verso le figure salvifiche e le esperienze fondanti delle altre tradizioni religiose. Tutto questo, senza relativizzare la sua unicità, perché incontrare l'umanità di Gesù, Figlio unigenito del Padre e seguirlo nell'esperienza di figli di Dio, significa conoscere Dio.26

12. Dialogo interreligioso ed evangelizzazione Come abbiamo visto, negli ultimi decenni il dialogo interreligioso è stato sempre più valorizzato. Tuttavia il suo ruolo e le sue modalità concrete dipendono molto dalla valutazione teologica delle religioni mondiali e del loro significato nel progetto salvifico di Dio nella storia. Finora, il dialogo era visto, soprattutto, come un 119

atteggiamento della chiesa e un suo modo di rapportarsi all'umanità. La chiesa "si fa" dialogo per preparare la proclamazione del vangelo. Questa motivazione appare, ormai, insufficiente. Occorre valorizzare, invece, il riconoscimento dell'azione universale dello Spirito Santo, nello spazio, nel tempo e oltre le frontiere visibili del piano divino. Gaudium et Spes, al n. 92 invitava a riconoscere ed "accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito Santo" operanti nell'umanità.27 Redemptoris Missio insiste molto sull'opera svolta dallo Spirito nel mondo, prima che Cristo fosse glorificato, perché da essa provengono i molteplici valori spirituali e morali delle altre religioni.28 Tuttavia, il concetto di dialogo interreligioso e del suo ruolo nella chiesa sono rimasti alquanto fluttuanti, anche in seguito all'evoluzione del concetto di evangelizzazione, che solo nel post-concilio ha inglobato gli impegni della promozione, la giustizia, la pace e la liberazione.29

13. Condizioni teologiche del dialogo interreligioso Al momento attuale, il cristiano può scoprire, attraverso il dialogo, la duplice presenza di Cristo e dello Spirito Santo nelle altre religioni, partendo da tre presupposti teologici fondamentali: a) l'unità della famiglia umana che deriva dal mistero della creazione (fondamento antropologico); b) la comune redenzione in Cristo e la presenza attiva del mistero cristico negli uomini e nelle tradizioni religiose (fondamento cristologico); c) l'azione universale dello Spirito Santo, oltre le frontiere ecclesiali, nelle diverse religioni e nell'umanità intera (fondamento pneumatologico). Questi fondamenti esigono alcuni atteggiamenti e di comportamenti. Il primo è: non relativizzare ciò che è assoluto, ossia ridurre o mettere tra parentesi le convinzioni profonde della propria fede, ma conservarle nella loro integrità. La ricerca di un terreno comune non giustifica alcun sincretismo (trascuratezza delle diversità e delle contraddizioni) né eclettismo (amalgama incoerente di elementi diversi), ma esige il rispetto della diversità e delle contraddizioni. Il secondo è: non assolutizzare ciò che è relativo. La piena rivelazione di Cristo è qualitativa e non quantitativa, opera in intensità e non in estensione, non misconosce i limiti della coscienza umana di Gesù, della rivelazione e dei dogmi cristiani, perciò esclude ogni intransigenza. Il terzo è: avvicinarsi all'esperienza religiosa e alla visione globale altrui (modi di essere, di vedere e di pensare), con tutto il rispetto e la delicatezza possibili.30 Il quarto è: privilegiare il dialogo della vita e inserire, nello scambio reciproco di esperienze religiose interiori (dialogo infrareligioso), anche un impegno comune per le opere di giustizia, di liberazione e di promozione umana.

14. Fondamento teologico e punto di partenza del dialogo Nel contesto di questo discorso, è molto importante distinguere chiaramente fra il "fondamento teologico" del dialogo e il suo "punto di partenza". Il fondamento teologico è uno solo: la presenza universale e attiva del mistero di Gesù Cristo, che esige l'incontro e il dialogo. I punti di partenza possono essere molteplici e diversi, quante solo le situazioni e le condizioni concrete in cui il dialogo inizia e prosegue. Quindi, un primo punto di partenza può consistere nelle esperienze religiose, spirituali e mistiche del mistero divino, vissute dagli interlocutori per l'azione che lo Spirito opera in loro. Qui il problema maggiore deriva dal non sapere ancora se l'esperienza di Dio sia fondamentalmente eguale nelle diverse tradizioni religiose.

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Altro punto di partenza sono gli interrogativi fondamentali sugli "enigmi della condizione umana", che lo stesso Spirito suscita dal fondo del cuore delle persone: da dove veniamo e dove andiamo, che senso hanno esistenza, sofferenza e morte, che cosa dobbiamo fare e sperare, perché la coninua urgenza di uscire da noi stessi, per rispondere all'Assoluto divino che sempre ci precede e ci sollecita. Queste domande sull'uomo, che portano a interrogarsi su Dio, sono un punto sicuro di partenza per ogni dialogo teologico,31 cui si aggiungono i temi particolari e specifici di ogni religione.32

15. Sintesi e riflessioni conclusive Il dialogo interreligioso esige una teologia dialogica delle religioni, fondata su una cristologia collegata alla teologia trinitaria e del Regno, in cui il mistero di Cristo, centro della fede cristiana, costituisce il principio di comprensione e il criterio di discernimento e valutazione delle varie tradizioni religiose. Tale teologia, valorizzando la prospettiva globale dell'incarnazione, abbraccia pure tutte le realtà e i problemi mondiali (liberazione e promozione integrale di persone, culture e popoli). Essa richiede, perciò, adeguati criteri per verificare se le tradizioni religiose impegnate del dialogo, consentano davvero tale liberazione e promozione. Il discernimento oltre ai criteri evangelici, richiede pure quelli storici e culturali riguardanti, ad esempio, la struttura globale delle religioni (storia comparata e fenomenologia delle religioni); la liberazione e promozione personale (psicologia e psicanalisi della religione); la liberazione e promozione sociale (sociologie della religione), la liberazione e promozione culturale (antropologia delle religioni). Tutto questo va inserito nel fatto che il Verbo di Dio, agente universale di ogni automanifestazione divina nella storia, operava già prima della sua incarnazione in Gesù Cristo e che la sua azione salvifica, mediante l'opera universale dello Spirito Santo, si estende oltre i confini visibili della chiesa. Pertanto, per il dialogo interreligioso (e la teologia dialogica delle religioni) sono fondamentali: a) il momento dell'ascolto, alla ricerca dei vari elementi che esprimono l'auto-comunicazione universale di Dio nel Verbo, la presenza universale e metastorica del Cristo risorto nel mondo e l'economia e presenza universale dello Spirito Santo nella storia; b) il momento del discernimento critico (evangelico) e della verifica (culturale) di tutti gli elementi emersi, da attuarsi mediante tutti gli strumenti più adeguati di cui si può disporre (tra i quali le scienze della religione); c) il momento della reciproca proposta, verifica e confronto costruttivo fra le varie esperienze religiose, avvalendosi degli strumenti che lo facilitano (scienze delle religioni) Questi "momenti" consentono al dialogo di porre a confronto tutte le "teofanie", le antropofanie i "modelli" di homo religiosus, le domande e le risposte delle religioni33 tenendo conto dei contesti e della "pluralità di visioni specifiche del reale" (contestualità).34 Questo dialogo contestualizzato solleva l'esigenza di intepretare eventi e contesti (ermeneutica),35 in un circolo ermeneutico che rimanda all'interazione progressiva fra il dato della fede, il vissuto dell'incontro dialogale (momento induttivo) e la chiave dell'interpretazione (momento deduttivo). In questo modo, l'incontro interreligioso diviene coefficiente di una teologia sempre più cattolica (universale e inclusiva), contestuale alle tradizioni religiose dell'umanità, per una sempre più ampia comprensione del piano salvifico rivelato e realizzato in Gesù-Cristo.36 1

Cf. J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi 1989, 6-7; W. Bühlmann, The Coming of the Third Church, Slough 1976; Id., The Church of the Future, New York 1986.

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2

P. Knitter, No Other Name? A Critical Survey of Christian Attitudes toward the World Religions, London 1985, 91-92; F. Whaling, Christian Theology and World Religions: A Global Approach, London 1986; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 9-14. 3

K. Cragg, The Christ and the Faiths: Theology in Cross-Reference, London 1986; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 16-20. 4

Occorrono alcune precisazioni: 1) Advaita è la dottrina fondamentale della filosofia indiana della "non dualità", per cui il Brahman (l'Assoluto) e l'Atman ( il sé o io) non sono due realtà distinte o destinate a rimanerlo e prendere coscienza di ciò è realizzare la verità. 2) Riguardo al mistero di Cristo, gli interrogativi fondamentali riguardano se esso: a) implichi una specifica e irriducibile visione della realtà, del mondo e della storia, al di fuori della quale resterebbe incomprensibile o privo del suo oggetto; b) trovi, nelle altre religioni e culture, essenziali chiusure o impenetrabilità. 3) Tali "interrogativi" e l'esperienza indù di "non dualità" (advaita) sollevano questioni teologiche fondamentali, complesse e delicate, poiché, essendo la fede un atto di esperienza ed essendo lo stesso Dio a rivelarsi in modo diverso nella tradizioni religiose (esperienza profonda del Sé e interventi nella storia), le vie divine non possono venir negate, né ridotte una a vantaggio dell'altra. S.J. Samartha, The Hindu Response to the Unbound Christ, Madras 1974; M.M. Thomas, The Acknowledged Christ of the Indian Renaissance, London 1969; A.M. Cocagnac, Ces pierres qui attendent. Pour un dialogue entre l'hindouisme et le christianisme, Paris 1979; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 63, 66: Il contrasto che sta al cuore della distinzione fra cristianesimo e induismo riguarda il modello indù di avatara, che esprime una manifestazione divina in forma umana e il concetto cristiano di incarnazione, che indica un coinvolgimento personale, nella storia degli uomini, di Dio che ne condivide la natura e la condizione concreta. 5

La teologia catafatica svolge il discorso su Dio attribuendogli in sommo grado tutti i valori. La mistica apofatica o negativa, al contrario, privilegia il silenzio o il "non parlare" di Dio. 6

Pertanto l'esperienza religiosa della "non dualità" (advaita) e la relativizzazione radicale da essa imposta alla storia, sembra difficilmente adattabile a questo valore storico decisivo. Il punto focale dell'incontro fra l'esperienza dell'advaita e il mistero cristiano è che la prima professa la manifestazione divina nel mito della storia, il secondo, invece, il coinvolgimento personale di Dio nella storia della salvezza. Cf. Dupuis, Gesù Cristo incontro, 108-120; E. Vattakuzhy, Indian Christian Sannyasa and Swamy Abhishktananda, Bangalore 1981; Ba Barzel, Mystique de l'ineffable dans l'hindouisme et le christianisme: Çankara et Eckart, Paris 1982. 7

E. Conze, Buddhism: Its Essence and Development, New York 1959; M. Dhavamony (a cura), Founders of Religions, Roma 1984; C.G. Hospital, Breakthrough: Onsights of the Great Religious Discoverers, New York 1985; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 121-124 e 137-138: soprattutto la particolarità dello spazio crea difficoltà. Non si ammette che una cultura particolare abbia raccolto, quasi in esclusiva, l'eredità di un evento unico di salvezza e possa pretendere tale universalismo. 8

Cf. Gaudium et Spes, 22; Grillmeier A., Gesù il Cristo nella fede della Chiesa. Dall'età apostolica al concilio di Calcedonia, Brescia 1982; J. Dupuis, Jesus Christ and His Spirit, Theological Approaches, Bangalore 1977; O. Semmelroth, L'Eglise sacrement de la rédemption, Paris 1962; G. Dumeige, La foi catholique, Paris 1969; J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 125-132. 9

J.P. Schineller, "Christ and the Church. A Spectrum of Views" in Theological Studies, 37 (1976), 545-566. 10

H. Kraemer, The Christian Message in a Non-Christian World, London, 1947; Id., Why Christianity of All Religions?, London 1962. 11

Redemptoris Missio, 29: "Lo Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8) e operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato, che riempie l'universo abbracciando ogni cosa e conosce ogni voce (Sap 1,7), ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azionne presente in ogni tempo e in ogni luogo". Cf. A. Race, Christians and Religious Pluralism: Patterns in the Christian Theology of Religions, London 1983; H. Coward, Pluralism: Challenge to World Religions, New York 1985; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 139-149; G. D'Costa, Theology and Religious Pluralism: The Challenge of Other Religions, Oxford 1986; H.

122

Kraemer, Why Christianity of All Religions?, London 1962; E. Troeltsch, L'assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli 1968. 12

J. Daniélou, Essai sur le mystère de l'histoire, Paris 1953; H. Urs von Balthasar, Teologia della storia, Brescia 1964; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 153-155: la "concezione a spirale" divide il tempo in cicli e periodi che cominciano con una creazione e finiscono in una distruzione, e così via. La liberazione personale consiste nell'uscire dalla spirale della storia, dopo un numero indefinito di reincarnazioni successive. 13

Giovanni Paolo II, "Allocuzione ai rappresentanti della comunità ebraica della Germania" (Magonza 17.11.1980), in Il Regno-Documenti, 30 (1985), 514. 14

Lumen Gentium, 16.

15

Dupuis, Gesù Cristo incontro, 158-170.

16

Lumen Gentium, 16-17; Ad Gentes, 3,7 - 9,11; Nostra Aetate, 2.

17

J. Daniélou, Le mystère du salut des nations, Paris 1946; H. De Lubac, Paradoxe et mystère de l'Eglise, Paris 1987; B. Sesboué, "Karl Rahner et les chrétiens anonymes" in Etudes 361 (1984), 521-536; G. Thils, Propos et problèmes de la théologie des religions non chretiennes, Tournai 1966; J. Jeremias, Jésus et les païens, Neuchâtel 1956; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 171-192. 18

H. Limet, J. Ries (a cura), L'expérience de la prière dans les grandes religions, Louvain la Neuve 1980; L. Gardet- O. Lacombe, L'expérience du soi: Etude de mystique comparée, Paris 1981; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 193-209; E. Ancilli, M. Paparozzi (a cura di), La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, 2 voll, Roma 1984; J. Neuner (a cura),, Christian Revelation and World Religions, London 1967; N. Abeyasingha, A Theological Evaluation of Non-Christian Rites, (Bangalore 1979). 19

K. Cracknell, Towards a New Relationship: Christians and People of Other Faiths, London 1986; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 213-217; H. Cazelles, P. Evdokimov, A. Griner (a cura), Le mystère du Saint-Esprit, Paris 1968. 20

Dupuis, Gesù Cristo incontro, 217-224.

21

D.S. Amalorpavadass (a cura), Research Seminar on Non-Biblical Scriptures, Bangalore 1975; A.M. Aagaard, "The Holy Spirit in the World", in Studia Theologica, 28 (1974), 53-171; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 233-239; G. Moran, The Present Revelation, New York 1972; A. Dulles, Models of Revelation, Dublin 1983. 22

W.C. Smith, Questions of Religious Truth, London 1967; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 239-245: K. Abel, "Non-Christian Revelation and Christian Worship" in G. Gispert-Sauch, God's Word among Men, Delhi 1973, 257-303. 23

J. Guillet, Jésus devant sa vie et sa mort, Paris 1971; C.F.D. Moule, The Origin of Christology, Cambridge 1977; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 247-265; A. Dondeyne, JésusChrist, Fils de Dieu, Bruxelles 1981. 24

Y. Congar, La parole et le souffle, Paris 1983; F. Gomez, "The Uniqueness and Universality of Christ", in East Asian Pastoral Review, 20 (1983/1), 4-30; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 267-276; C.E. Braaten, "The Uniqueness and Universality of Jesus Christ", in G.H. Anderson, F.T. Stransky (a cura), Faith Meets Faith, New York 1981; G. O'Collins, Interpreting Jesus, London 1983; A. Race, Christians and Religious Pluralism: Patterns in the Christian Theology of Religions, London 1983; P. Teselle, Christ in Context: Divine Purpose and Human Possibility, Philadelphia 1975; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 277-283. 25

Mahayana, Scuola e dottrina buddista avente come fine la liberazione di tutti gli esseri viventi dal dolore. Secondo essa, a ogni uomo vien dato di raggiungere la sorte suprema di illuminato, o di colui colui che aspira all'illuminazione dell'intelletto, per elargire la salvezza a tutti. 26

Dupuis J., "The Kingdom of God and World Religions", in Vidyajyoti, 51 (1987), 530544; Id, Gesù Cristo incontro, 284-285, 290; Id., "Knowing Christ through the Christian Experience", in Indian Journal of Theology, 18 (1969) 54-64; W.M. Thompson, The Jesus

123

Debate: A Survey and Synthesis, New York 1985; R. Marlé, La singolarità cristiana, Milano 1972. 27

A. Wolanin, "Il concetto della missione nei decreti Ad Gentes, Apostolicam Actuositatem e nella Evangelii Nuntiandi", in M. Dhavamony, Prospettive di missiologia, oggi, Roma 1982, 89105; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 293-295, 298; D. Grasso "Evangelizzazione. Senso di un termine", in M. Dhavamony (a cura), Evangelization, Roma 1975, 21-47. 28

Per un esame più approfondito del concetto di evangelizzazione, dal periodo conciliare fino alla Redemptoris Missio e Dialogo e Annuncio cf. G. Gismondi, Nuova evangelizzazione e cultura, Bologna 1993. 29

M. Dhavamony, "Evangelisation and Inter-religious Dialogue", in Dhavamony, Evangelization, 245-272; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 321; D.S. Lourdusamy, "The Holy Spirit and the Missionary Activity of the Church", in Dhavamony, Prospettive di missiologia, 45-58; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 324-325; P. Rossano, "Sulla presenza e atttività dello spirito Santo nelle religioni e nelle culture non cristiane", in Dhavamony, Prospettive di missiologia, 45-58; Id., "Esprit et évangélisation", in Spiritus, 20 (1979), 115-183. 30

Whaling, Christian Theology and World Religions, 130-131; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 328-334; Anderson, Stransky, Faith Meets Faith, 93-110. 31

W. Johnston, The Inner Eye of Love: Mysticism and Religion, New York 1978, 52-52; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 337-340. 32

Ad esempio, nell'induismo, il tema dell'atman che potrebbe aiutare i cristiani ad interiorizzare la propria esperienza di Dio nella storia. "Atman" indica la realtà interiore che fa sussistere un essere: il Sé, il principio che dà alito, vita e vigore. Il tema dell'advaita (non dualità) potrebbe favorire una teologia dello Spirito Santo, come mistero dell'intimità divina, della non dualità di Padre e Figlio e dell'essere-insieme di Dio e dell'uomo. Riguarda pure il mistero di Dio come comunione nella "non dualità", il mistero dell'uomo come suo inserimento, per mezzo di Cristo, in questa comunione divina. Poiché la comunione è l'apporto specifico e imprescindibile della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, l'unità che la sottende può essere rafforzata dall'esperienza della non dualità (advaita). Il dialogo, quindi, tende a una più profonda conversione delle due parti allo stesso Dio, che è quello di Gesù Cristo. Cf. Dupuis, Gesù Cristo incontro, 340-343; J. Monchanin, "L'Inde et la contemplation", in Dieu vivant, 1 (1945), 11-49. 33

W.C., Smith, Toward a World Theology, Philadelphia 1981; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 344-350; L. Swidler (a cura), Toward a Universal Theology of Religion, New York 1987, 51-72. 34

Per questa ragione alcuni ritengono inconcepibile e inattuabile una teologia generale o universale delle religioni, che, come suo oggetto di ricerca abbracci tutte le religioni. 35

C. Geffré, Le christianisme au risque de l'inteprétation, Paris 1983, 71.

36

C.H. Kraft, Christianity in Culture: A Study in Dynamic Biblical Theologizing in CrossCultural Perspective, New York 1979; Dupuis, Gesù Cristo incontro, 351-353; T. Dean, "Universal Theology and Dialogical Dialogue", in Swidler, Toward a Universal Theology, 162174; J.B. Cobb, "Toward a Christocentric Theology", in Swidler, Toward a Universal Theology, 85-100.

124

13. 1.

CROCE: MISTERO E SCANDALO DEL DIALOGO Introduzione

In questo capitolo puntualizziamo uno dei punti più difficili e controversi del dialogo e quindi della teologica dialogica, ossia la croce di Gesù, come simbolo del dono estremo di amore divino all'umanità e della redenzione salvifica per tutti gli uomini. La morte in croce, assieme alla realtà-simbolo che perennemente la ricorda, costituisce una difficoltà e una sfida suprema per le religioni. Ad alcune ripugna lo spettacolo di estrema crudeltà e violenza del Crocifisso. Altre, invece, temono che il Signore crocifisso, salvatore unico e universale dell'umanità, dall'alto della sua croce, annulli le altre vie di salvezza.1 Esamineremo, pertanto, questi problemi.

2.

Religioni come vie di salvezza

Abbiamo già accennato che il tema della salvezza appare centrale, nel dialogo, per diversi motivi. Innanzitutto le grandi tradizioni religiose testimoniano, in vari modi, alcune realtà comuni, quali la convinzione che la persona umana è coinvolta, a più livelli, da una radicale insoddisfazione. Essa sperimenta l'imperfezione e l'incompiutezza incolmabili della sua vita. Inoltre soffre un senso d'insormontabile delusione e frustrazione, di fronte all'impossibilità di realizzare le sue infinite aspirazioni. Infine, può giungere a concludere che la condizione umana è assurda e disperata, ossia priva di senso e di speranza. A questa situazione le religioni oppongono la convinzione comune, che solo la religione può offrire una via di salvezza dalle situazioni umane descritte. L'idea di ritenersi vie di salvezza non le mette in opposizione, né le divide, perché essa non comporta, necessariamente o automaticamente, la pretesa di essere la religione unica e universale. Tuttavia, proprio qui si colloca la disparità di valutazioni fra cristianesimo e altre religioni.

2.1. La salvezza dalla sofferenza Ritornando alle "realtà" testimoniate dalle religioni, l'esperienza storica dell'umanità le conferma, presentando in tutte le epoche un oceano di sofferenze. Nel passato, le cause del dolore erano attribuite al fato. Le concezioni laiche, secolari e atee dell'era moderna, proclamando l'età adulta dell'uomo, unico signore della storia e dell'universo, dovettero attribuire a lui solo ogni responsabilità. Ciò, anziché attenuare le sofferenze, le ha ulteriormente aggravate. Al problema di "giustificare" la responsabilità di Dio è subentrato quello, ancor più doloroso, di mascherare o smascherare le colpe dell'uomo. L'angoscia umana, anziché diminuire, ha raggiunto i livelli massimi, perché la consapevolezza delle conseguenze sociali, culturali e ambientali, dei comportamenti umani devianti è divenuta sempre più viva ed esasperata, spingendo gli individui a rinfacciarsi l'un l'altro le responsabilità. Di conseguenza, i complessi laici di colpa si rivelano assai più tormentosi e devastanti del senso religioso del peccato. Recuperare il liberante senso del peccato, per superare i fatali complessi di colpa, potrebbe costituire un argomento molto importante del dialogo interreligioso. L'islam, ad esempio, fondandosi sulla radicale sottomissione alla volontà di Dio, considera peccato solo il rifiuto di tale sottomissione, la disobbedienza e la miscredenza.2 Per il buddismo il discorso si fa più articolato. Non avendo una fede in

un Dio personale, non considera problema un comportamento deviante nei confronti di Lui. Perciò concentra la sua attenzione sul male e su tutte le sofferenze fisiche, psicologiche ed esistenziali.3 L'induismo conserva traccie lontane e antiche (letteratura vedica) di un colpa di fronte alla divinità e attualmente fa affiorare una certa preoccupazione davanti ai comportamenti umani irresponsabili. Nonostante ciò, le religioni sono consapevoli che male e sofferenza sono causati, almeno in parte, dall'uomo. In esse, perciò, vi è un anelito umano alla liberazione dal male e dalla sofferenza, unito alla convinzione di poter offrire tale salvezza.

2.2. Cristo e la sofferenza Gesù iniziò il suo ministero pubblico di salvezza, sanando le persone da ogni forma di male e d'infermità (Lc 7,22) e ponendosi subito dalla parte degli ultimi: gli emarginati, i falliti, gli oppressi dai potenti e gli umiliati dai ricchi. Lo concluse sulla croce, partecipando direttamente alla condizione dei reietti, condannati e perseguitati ingiustamente, disprezzati, traditi e abbandonati. La sua morte, soprattutto, mostrò da quale profondità di male e lontananza da Dio l'uomo deve essere salvato, rivelando nel contempo la fedeltà incrollabile di Dio e la sua sim-patia (com-passione) verso l'umanità sofferente. Perciò il Crocifisso ha suscitato, non solo fede e speranza, ma anche amore e solidarietà che diventano autentici, nell'uomo, solo se attuano il suo stesso amore e solidarietà per le sofferenze del prossimo. Pertanto la fede e l'amore cristiano non si fermano a contemplare la sofferenza e la com-passione del Figlio di Dio, se non per impegnarsi a liberare l'umanità dal male e dalla sofferenza.

2.3. La Redenzione Per induismo e buddismo, la redenzione consiste, essenzialmente, nel superare il ciclo delle rinascite. Tuttavia, nell'induismo, la mediazione di salvezza si attuava, nei tempi vedici, attraverso le prescrizioni e i riti sacrificali e, nel tempo postvedico, mediante sistemi colleganti speculazione, prassi e meditazione. Nel buddismo, invece, la salvezza come liberazione, è essenzialmente una presa di coscienza che individua le cause del dolore. Se la causa è individuata nel desiderio, la liberazione consisterà nel suo annullamento. Se è individuata nella mancanza d'illuminazione, la liberazione sarà cercata nell'illuminazione. L'islam non parla di redenzione perché l'uomo, con la sottomissione alla volontà di Dio (islam), non ne ha più bisogno. Solo la sottomissione elimina male e dolore, perciò essi cesseranno quando tutti gli uomini si sottometteranno alla volontà di Dio (islam). La redenzione è l'espansione totale dell'islam, per la quale ogni musulmano deve lottare. Per quanto concerne la condizione finale della salvezza, le religioni la presentano con immagini assai diverse esprimenti: totalità, realizzazione, pace, benessere, contentezza, riconciliazione privata e sociale, ecc. Il cristianesimo, invece, la presenta come "ricapitolazione in Cristo", vita eterna, vittoria definitiva sulla morte e sul peccato, rinnovamento totale dell'uomo e del cuore, città, cieli e terra nuovi, comunione dei santi, visione beatifica, unione definitiva con Dio, Dio tutto in tutti.

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3.

La salvezza oggi

Anche oggi le religioni si propongono quali vie di salvezza, intesa come superamento dei desideri, illuminazione, compimento e realizzazione di sé, edificazione di una società perfetta, attuazione di un futuro appagante. Il cristianesimo la presenta, soprattutto, come definitiva redenzione e liberazione dal male nell'unione beatifica con il Dio personale. Poiché la rivendicazione di assolutezza della salvezza cristiana è stata a lungo interpretata in senso "esclusivo", è essenziale esprimerla ora in senso "inclusivo".4 La difficoltà maggiore viene proprio dall'importanza assunta dalla "redenzione mediante la croce". Pertanto è importante chiarire il rapporto che intercorre tra la salvezza fondata sulla croce di Cristo e quella intesa dalle religioni. Ciò solleva il problema di che cosa significhi, per esse, la pretesa della Croce e che cosa significhino, per il cristiano, le altre pretese di salvezza, di fronte alla Croce di Cristo.

4.

Le reazioni alla croce di Cristo

Il discorso salvifico della croce (esigenze e immagine) provoca difficoltà personali e strutturali. Le prime provengono dalle reazioni delle persone, le seconde dalle reazioni dottrinali e pratiche delle istituzioni.

4.1. Reazioni personali Esaminiamo innanzitutto gli aspetti personali. Il messaggio cristiano propone di vivere la sofferenza personale come espressione perseverante di fede, speranza e amore. Quanti la vivono così, a qualsiasi tradizione religiosa appartengano, si comportano da autentici discepoli di Cristo. La sequela di Cristo, tuttavia, propone pure un'atteggiamento più profondo di sim-patia, di com-passione, di coinvolgimento attivo e di fattiva solidarietà con i sofferenti. Coloro che la vivono così partecipano, in modo ancora più significativo e decisivo, alla redenzione del Cristo Crocifisso. 4.2. Reazioni strutturali A livello strutturale, ossia di dottrina e prassi ufficiali e pubbliche, le posizioni divergono. L'ebraismo attualmente presenta posizioni assai interessanti. Alcuni pensatori prestigiosi, quali M. Buber, S. Ben Chorin, P. Lapide, ecc. considerano Gesù come loro connazionale e vero Servo di Jahveh, anche se le ritengono soltanto "uno tra i molti".5 Nell'islam la funzione redentrice di Gesù non è rilevante, anche se alcuni contemporanei, F. 'Utman, H. Haikal, M. Al-Nowaihi, considerano con maggior simpatia e ammirazione il suo esempio e la sua vicenda.6 Nell'induismo la generale disistima per la storia si ripercuote pure sulla morte in croce di Cristo. Tuttavia, alcuni, come St. J. Samartha, pensano che il discorso cristiano su Gesù, Signore e Redentore, possa aiutare a scoprire, nelle strutture della spiritualità indù, la sensibilità per le persone, la storia e la società.7 Nel buddismo l'immagine e il pensiero del crocifisso provocano forti difficoltà. Innanzitutto per il buddismo l'io personale non esiste. Perciò non vi può essere un "io" crocifisso. Oltre a questo, Cristo inchiodato sulla croce costituisce una visione di violenza sadica insopportabile e inaccettabile e di dolore degradante.8 Tuttavia, accanto a questo atteggiamento più diffuso, ve ne è pure uno diverso. K. Nishitani, confrontando la spogliazione di sé del Crocifisso, con il concetto di kénosi del buddismo Mahayana, nota che abch'essa significa liberazione e anche redenzione. Nishitani apprezza pure gli insegnamenti di Gesù del tipo: "se il chicco non muore..." o "chi perde la sua vita...", come accetti e apprezzabili nel contesto buddista. Ora, la

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morte di Cristo attua questi insegnamenti in modo supremo. Quindi, nonostante le numerose difficoltà per riconoscerla come segno universale di salvezza, la croce sembra irradiare anche una certa luce, in varie direzioni. Tenuto conto di ciò, la repulsa buddista, motivata dal fatto che la croce indicherebbe la terra come il luogo ove il giusto viene martirizzato a morte, non deve impressionare. Infatti, potrebbe svilupparsi in una sofferta presa di coscienza della effettiva presenza del male nella condizione umana. La concezione del male e del dolore costituisce, forse, uno dei punti più deboli della visione buddista, che ne pone l'origine solo nella dipendenza dal desiderio e non invece nelle scelte e decisioni negative dell'uomo, oggettivate, attuate e rese reali. Al proposito, il Crocifisso, al di là dell'orrore che può ispirare, può aiutare a prendere coscienza della terribile realtà del male e del peccato nella condizione umana.

5.

Salvezza senza croce

Perciò il rapporto fra croce, dolore e salvezza va ben chiarito. É esatto dire che Cristo sulla croce "affronta" il dolore, la sofferenza e la morte. Non lo sarebbe, invece, asserire che "si rassegna" ad essi, perché il suo dinamismo è orientato al "superamento" e non alla rassegnazione. Non fugge, non si sottrae, né si rassegna ad essi, né li lascia invariati, ma s'immerge in essi trasformandoli dall'interno. Proprio dal suo comportamento il cristiano impara a non temerli, non rassegnarsi, non fuggirli, ma ad affrontarli per vincerli. Lo stesso buddismo, il cui punto d'avvio è la liberazione dal dolore, ne viene sfidato. Se il dolore dipendesse solo dalla ruota dei desideri e se tutto fosse dolore, si vanificherebbero pure il dolore ineliminabile e quello provocato dal male, dal peccato, dall'ingiustizia, dall'oppressione e dalla violenza dell'uomo. Tale posizione allontanerebbe dal dolore concreto, reale, sofferto da una determinata persona in seguito a cause specifiche e circostanze oggettive. Ci sottrarrebbe pure dal quotidiano contatto da tutte le sofferenze provocate da ingiustizia, oppressione, alienazione, violenza, schiavitù e sfruttamento. Quanto all'induismo, il dialogo dovrebbe verificare l'affermazione che molti indù devono portare il peso della croce, senza poter sperimentare, tuttavia, la forza liberatrice del Crocifisso. Tutte queste situazioni offrono notevole materiale d'indagine e riflessione per le sociologie della religione. Riguardo alle modalità con cui le forme meditative delle grandi religioni asiatiche vengono, attualmente, offerte agli occidentali, spogliate dell'austerità e della povertà che le caratterizzano in Asia, appaiono più aree di rifugio, fuga dalla società e rimedio anti-stress per ricchi e facoltosi benestanti, che impegni seri e itinerari di conversione religiosa (metanoia). Anche la dottrina della reincarnazione pone l'interrogativo se non sia un tentativo inconscio di sottrarsi alle responsabilità inevitabili, uniche e irripetibili della vita e della morte, da affrontare in tutta la loro serietà. Anche la questione della colpa, che le religioni indiane risolvono in un'esigenza assoluta e ideale di non violenza, nei confronti di tutti i viventi, non sembra risolvere il problema dell'uomo, concretamente colpevole verso tale esigenza, che viene lasciato a sé, immerso nella sua colpevolezza. Questi nodi problematici si prestano a notevoli approfondimenti da parte della storia comparata, della psicologia e psicanalisi degli atteggiamenti religiosi e dell'antropologia della religione. Quanto all'islam, come abbbiamo visto, non sente alcuna esigenza di redenzione e ritiene il concetto del perdono divino un antropomorfismo privo di senso o, perlomeno, indegno di Dio. Tuttavia il mistico al-Hallaj, martirizzato nel 922, espresse chiaramente l'idea che assumersi i peccati e i tormenti del mondo per amore, costituisce un atto sublime e superiore ad ogni altro. Forse spunti positivi in tal senso potrebbero venire da

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uno studio storico, compartistico, fenomenologico e antrpologico sulla sua tradizione mistica.

6.

Croce come sim-patia, com-passione, misericordia

Da queste osservazioni risulta che il dialogo con le altre religioni sul mistero del Crocifisso presenta, a livello dottrinale non poche difficoltà, insieme a notevoli aperture. Quindi, per impostare in modo più adeguato i suoi problemi si dovrebbe puntare maggiormente sul dialogo di "condivisione delle esperienze spirituali" sostenuto da un'adeguata e specifica teologia dialogica. Essa dovrebbe analizzare gli atteggiamenti concreti da assumere nei confronti di chi soffre, quali la simpatia e la compassione, sviluppate nel più profondo senso cristologico e soteriologico del soffrire-con, ma anche del soffrire-per aperti alla "solidarietà nella" e alla "condivisione della" sofferenza umana. Il dialogo dovrebbe approdondire come, a questo proposito, l'islam, pur riconoscendo Dio misericordioso, non esige un identico atteggiamento misericordioso nell'uomo. Certamente vi è il precetto dell'elemosina, ma il vero problema riguarda un più generale atteggiamento virtuoso personale. La virtù, nell'islam, non significa "condividere la misericordia di Dio" ma "lottare per i diritti di Dio", che può facilitare le manifestazioni d'intolleranza. Dissolvendo la salvezza nell'espansione dell'islam, la sim-patia, com-passione e misericordia perdono rilievo. Nell'ebraismo sim-patia e misericordia di Dio riguardano gli orfani, le vedove e i forestieri. Entrambe le religioni, quindi, sembrano riconoscere la com-passione di Dio verso gli uomini ma meno quella fra persone. Nell'induismo, l'inizio del capitolo VII del Bhagavad-Gita presenta un passaggio importante, dal distacco da ogni affetto considerato un legame, verso l'amore esprimente com-passione. Nel buddismo la compassione svolge un ruolo importante. Il Budda, uscendo dalla sua illuminazione, si mette in cammino per comunicare agli uomini la via della liberazione. Del Budda-Amida si dice che, per profonda sim-patia, avesse fatto propri i dolori degli uomini, che voleva portare sull'altra riva del fiume della nascita e della morte. Anche in quest'ambito, perciò, appaiono quanto mai opportune ricerche di storia comparata, psicologia, sociologia e antropologia della religione che approfondiscano gli ascendenti storico-culturali e personali di queste impostazioni.

6.1. Croce: dono totale e dedizione d'amore Riguardo alla croce Nicola Cusano aveva sottolineato alcuni aspetti che potrebbero risultare utili per il dialogo attuale.9 La morte di Cristo in croce rivelerebbe Dio, come Colui che non si tiene lontano dagli uomini sofferenti ma, al contrario, assume la natura umana per rivelarne, dall'interno, il dolore come terribile destino dell'uomo. Di conseguenza l'impegno serio di ogni uomo, nella prospettiva del Crocifisso, deve consistere nello spogliamento di sé e nel radicale altruismo. Il Figlio di Dio si è incarnato in questo mondo e ci ha dato il suo Spirito, perché lo imitiamo nel doloroso impatto con lo spazio, la storia e il tempo. L'annuncio di Gesù crocifisso è legato al messaggio di un essere divino che si dona totalmente per dedizione di amore. A partire da Betlemme e dal Calvario, Dio è, per sempre ormai, "Dio-con-noi". Soltanto muovendo da questo punto, possiamo riconoscerlo in tutti coloro che, come lui, vivono un'esistenza dimentica di sé, in un dono d'amore compassionevole totale, fino al versamento del loro sangue. In Cristo, com-passione, sim-patia e misericordia divina hanno assunto un volto umano. La sofferenza del Figlio di Dio, causata dal peccato di questo mondo, appare come la massima protesta contro il peccato, la colpa, il dolore e la morte che ne conseguono. Essere cristiani significa accettare di essere chiamati a protestare, nello stesso modo, come imitatori e seguaci autentici di Cristo. 5

La morte di Cristo, quindi, è agli antipodi della "rassegnazione", ma esprime una forma di opposizione al male, la cui profondità supera le nostre capacità di comprensione.

6.2. La croce nei "cerchi diabolici" Al riguardo, appare significativa l'immagine del Crocifisso su una croce eretta al centro dei cinque cerchi diabolici del dolore del mondo: la povertà, il potere, l'alienazione, la distruzione della natura e l'assurdità o mancanza di senso. Cristo li ha affrontati e sconfitti con la sua croce. Da allora il criterio per riconoscere l'autenticità di ogni "vero culto a Dio" è la conformità al suo esempio nella lotta incondizionata ai cerchi del dolore umano, mediante la compassione, l'altruismo e la spogliazione di sé. Tuttavia, il dibattito sul "Dio crocifisso" ha consentito di puntualizzare che il mistero di Cristo, per rimanere integro nella sua completezza, deve fondere armoniosamente i tre momenti di incarnazione, morte in croce e resurrezione, che si completano, integrano e spiegano l'un l'altro.10 Questo confronto col Crocifisso appare fondamentale per verificare le ispirazioni positive delle religioni e i "semi" di bene e di verità sottolineati dal Concilio Vaticano II.11 Pertanto nessuna persona o istituzione può sottrarsi alla crisi e al giudizio rappresentati da esso, né uscire immutata da un dialogo, che pone a tutti i credenti alcuni grandi interrogativi per la loro conversione, crescita e maturazione.

7.

Interrogativi per il dialogo

Pertanto Gesù Crocifisso è pure il Risorto che si presenta come il Figlio che rivela il volto del Padre e in cui Dio parla all'uomo. Quindi non è solo un maestro, un profeta o un illuminato per illuminare la via, ma è lui stesso Via, Verità e Vita per tutti gli uomini. Ciò porta a chiederci se qualche fondatore di religione presenti un'identica pretesa e che cosa significhi credere e vivere questa convinzione, nel mondo di oggi. Gesù Crocifisso é pure il Risorto che libera l'uomo e il mondo dalla vanità, restituendolo alla sua vera natura e conducendolo a una creazione rinnovata: uomo, umanità, terra e cieli nuovi. Egli trasforma la morte, da perdita definitiva e irreparabile, in passaggio alla vita eterna, risurrezione e trasfigurazione divina. Ciò porta a chiederci quale senso, destino e finalità della storia, del tempo, del mondo, della morte propongano le religioni e che cosa significhi, oggi, vivere concretamente la speranza in queste promesse di Cristo. Gesù Crocifisso è pure il Risorto che, redime, comunicando il suo Spirito e la sua grazia, che generano nell'uomo la forza e la capacità di sconfiggere ovunque il peccato, l'ingiustizia, il male e il dolore. Ciò porta a chiederci quali forze personali e quali risorse comunitarie offrano le religioni alla fragilità umana, per poter vincere i mali e i dolori concreti, dell'incessante quotidiano e che cosa significhino oggi la docilità al suo spirito e la fedeltà alla sua grazia. Sono domande che interpellano e coinvolgono dall'interno, tutti: religioni e credenti, cristiani compresi.

8.

Spirito Santo nelle religioni

Il discorso sullo Spirito Santo ci ricorda che l'opera da lui iniziata nel mondo, prima dell'incarnazione e morte di Gesù, ha trovato espressione definitiva nei momenti finali di presenza terrena del Cristo. Sulla croce "riconsegnò" nelle mani del Padre il "suo Spirito", scuotendo la terra e sottraendo l'umanità al potere della morte (Lc 23,46). Nella Pasqua, alitò il "suo Spirito" sui discepoli perché sottraessero l'umanità al potere del peccato (Gv 20, 19-23). Nella Pentecoste, infiammò col "suo Spirito" gli apostoli, rendendoli capaci di stupire, parlando le lingue di tutti (Atti 2, 1-12).12 6

Da allora lo Spirito opera con particolare vigore nel cuore dei credenti e della comuità ecclesiale senza mia cessare la sua opera trasformatrice all'interno di tutte le persone, le società, i popoli, le culture, le religioni e di tutta la storia, i cui frutti sono tutti i nobili ideali e le buone iniziative reperibili nell'umanità in cammino.13

9.

Riflessioni conclusive

Questo capitolo si è soffermato su alcuni nodi particolarmente difficili del dialogo, quali la sofferenza, la salvezza, la salvezza dalla sofferenza e la salvezza mediante la sofferenza. Il Crocefisso offre la soluzione che, tuttavia, non è facile da comprendere, scaturendo dal suo mistero, che unisce inseparabilmente incarnazione, morte e risurrezione. Pertanto, l'essenza del dialogo interreligioso consiste nell'essere comune incontro col mistero di Dio e comune luogo di esperienza dell'universalità dello Spirito Santo. È pure ineludibile incontro col mistero della croce, kénosi divina, in cui la sofferenza conduce alla salvezza e la salvezza libera definitivamente dalla sofferenza, immergendosi in essa. Il dialogo, perciò, è misteriosa esperienza pneumatologica, cristologica e staurologica, a partire dal Crocifisso-Risorto, che comunica ai dialoganti il suo Spirito, perchè si aiutino a rispondere sempre meglio al loro comune destino di totale dedizione, umile donazione e coraggioso servizio per la liberazione dai "cerchi diabolici" del male, aprendosi agli inviti della grazia, camminando insieme, "nel tempo della pazienza di Dio",14 nella speranza verso la risurrezione. 1

H. Waldenfels, Gesù Crocifisso e le grandi religioni, Napoli 1987, 6.

2

M. Arkoun, M. Borrmans, M. Arosio, L'islam religion et société, Paris 1982; J. Jomier, Un chretien lit le Coran, "Cahiers Evangile", 48; W.C. Papers, Christians Meeting Muslims, Genève 1977; Segretariato per i non cristiani, Musulmani e cristiani. Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani, Roma 1970. 3

M. Zago, Buddhismo e cristianesimo in dialogo, Roma 1985, 369.

4

G. Mensching, Der offene Tempel. Die Weltreligionen im Gespräch miteinander, Stuttgart 1974. 5

Cf. S. Ben Chorin, Fratello Gesù, München 1969; P. Lapide, H. Küng, Jesus im Widerstreit, Stuttgart-München 1976; A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo, Roma 1983; F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Casale Monferrato 1985. 6

I tre autori in lingua araba sono così studiati rispettivamente: Utman, da C. Schiedl, Muhammad und Jesus. Die christologich relevanten Texte des Koran, Wien 1978; O.H. Schuhmann, Der Christus der Muslime. Christologiche Aspekte in der arabisch-islamischen Literatur, Gütersloh 1975; Haikal, da H.J. Loth, Christentum in Spiegel der Welreligionen, Stuttgart 1978; Al-Nowaihi, in Materialdienst. 7

J. Samartha, Hindus vor dem universalen Christus, Stuttgart 1970.

8

D.T. Suzuki, Der westliche und der östliche Weg. Essays über christliche und buddhistische Mystik, Frankfurt-Berlin-Wien 1974; M. Omodeo-Salé, Il Buddismo. Dalla filosofia alla religione, Milano 1990. 9

N. Von Klues, Philosophisch-Theologische Schriften III, Wien 1967, 769.

10

M. Welker, (a cura di), Dibattito su "il Dio crocifisso" di J.Moltmann, Brescia 1982; D. Acharumparambil, Induismo. Vita e pensiero, Roma 1976; Id., Spiritualità e mistica indù. Introduzione all'induismo, Roma 1982; R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Assisi 1988. 11

Lumen Gentium, 17; Ad Gentes, 9.

7

12 13 14

Redemptoris Missio, 29; Ad Gentes, 4. Redemptoris Missio, 28. Dialogo e missione, 44.

8

Piccolo lessico Advaita, dottrina fondamentale della filosofia indiana, della "non dualità" per cui il Brahman (l'Assoluto) e l'Atman ( il sé o io) non sono due realtà distinte o destinate a rinanerlo. Prendere coscienza di ciò è realizzare la verità. Analogatum princeps (analogato principale) indica il termine principale e fondamentale su cui si basa l'analogia. Analogia di partecipazione, si ha quando vi è una somiglianza di relazioni fra due termini in questione. Analogo (concetto) è quello che, senza perdere l'unità del proprio contenuto, subisce un mutamento di significato nell'applicazione che ne vien fatta a diversi enti. Nel suo contenuto sono quindi compresi, in unità logica non più separabile, l'aspetto comune e quello differente, l'aspetto simile e quello dissimile. Antropologia religiosa, scienza delle religioni volta a comprendere l'uomo come soggetto dell'esperienza del sacro, di cui studia le tracce esprimemti il suo rapporto con la "Realtà assoluta", che trascende questo mondo e vi si manifesta. Apofatica, apofatismo, termine della teologia negativa e della mistica che sottolinea la necessità del silenzio o del "non parlare", quando si tratta di Dio e dei suoi attributi. Essa si oppone ma anche si integra alla teologia catafatica o positiva. Cf. catafatica. Atman, nella religione indù, indica la realtà interiore che fa sussistere un essere, il sé, il principio che dà alito, vita e vigore. Avatara, parola sanscrita, che etimologicamente significa "discesa", utilizzata nell'induismo per indicare ogni genere di manifestazioni venute dal cielo. Esse differiscono, però, dall'incarnazione cristiana che ha un carattere unico, definitivo, irripetibile, storico e non mitico. Catafatica teologia, la teologia catafatica svolge il discorso su Dio attribuendogli in sommo grado tutti i valori. Essa si oppone ma anche si integra al misticismo apofatico. Cf. apofatica. Creodo, embriologia, carattere direzionale e stabile dei tessuti, nello sviluppo casuale e perturbato dell'embrione. Eclettismo, atteggiamento che porta a sintesi poco sistematizzate di elementi opposti o mal conciliabili. Entropia, in un sistema fisico, è la perdita irrecuperabile di energia utile, dovuta alla sua trasformazione in calore. Il suo aumento è indice di crescita del disordine e di diminuzione dell'efficienza del sistema. Episteme, indica l'insieme delle conoscenze positive e delle teorie scientifiche che caratterizzano una data epoca, con una sfumatura relativa ai loro presupposti, tesi fondamentali, proposte interpretative, ecc. Epoché o sospensione del giudizio, nella fenomenologia, in senso stretto, è l'operazione mentale con cui si prende coscienza dei "pre-giudizi" (giudizi-previ) propri o altrui, al dine di neutralizzarli. Etnografia, parte descrittiva dell'etnologia, che documenta e descrive i caratteri etnici di un popolo. Ierofania, qualsiasi manifestazione e apparizione del divino e del sacro. Logos, in filosofia, indica il pensiero e la parola, intesi come attività propria della facoltà raziocinante dell'uomo. In teologia, indica il Figlio di Dio, Gesù Cristo (Verbo, Parola).

Mahayana, scuola e dottrina buddista, avente come fine la liberazione di tutti gli esseri viventi dal dolore. Secondo essa, a ogni uomo vien dato di raggiungere la sorte suprema di illuminato, o di colui colui che aspira all'illuminazione dell'intelletto per elargire la salvezza a tutti. Mana, etnologia e scienze delle religioni, forza magica grazie alla quale gli uomini hanno successo in ogni loro attività. Neghentropia, (vedi sintropia) nome dato da Brillouin al concetto di "sintropia" introdotto da Fantappié. Pneumatologia, parte della teologia che studia lo Spirito Santo e la sua azione. Risonanza, fisica, unità e stabilità del fenomeno vibratorio, in mezzo alle perturbazioni continue dovute all'universo circostante. Sincretismo, in senso religioso, è il miscuglio più o meno forzato o riuscito di elementi diversi. Sintropia, concetto con cui L. Fantappié indicò un processo per il quale un sistema, anziché degradare, tende a forme sempre più organizzate ed efficienti. Staurologia, parte della teologi che studia i vari aspetti del mistero della croce. Terzo mondo o mondo tre, nel linguaggio di Popper indica l'insieme degli scritti, rapporti, resoconti e relazioni redatti, diffusi e conservati da operatori e da istituzioni scientifiche. Transdisciplinare, approccio tra varie scienze o discipline, più avanzato e complesso di quello interdisciplinare, volto a mettere in comune la totalità dei principi di base di ogni scienza, per ritrovarne il fondamento unificante.

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